martedì 24 luglio 2012

Poesie di Izet Sarajlić

Tante donne

Tante donne
e nessuna tu.

A Sarajevo
duecentomila donne
e nessuna tu.

In Europa
duecento milioni di donne
e nessuna tu.

Nel mondo
due miliardi di donne
e nessuna tu.


Secondo amore

Se in me un giorno, quando che sia, spuntasse un
secondo amore
farebbe fatica con me.
Dovrebbe avere lo stesso viso del mio primo amore.
Lo stesso ricciolo. Lo stesso naso all’insù. Lo stesso
colore degli occhi.
Lo stesso passo. Le stesse abitudini. Persino lo stesso
indirizzo.
Di fatto, questo neppure sarebbe il mio secondo amore.
Sarebbe semplicemente la continuazione del mio primo,
unico amore.


I critici di poesia

Perché i critici di poesia
non scrivono poesia
giacché sanno tutto della poesia?

Sapessero,
forse preferirebbero scrivere poesia che di poesia.

I critici di poesia sono come i vecchi.
Anch’essi sanno tutto dell’amore.
Quello che non sanno è fare l’amore.


Le mie nuove poesie

Le poesie
che possono essere lette da tutti tranne che da te
possono ancora essere considerate mie?




Confesso

Neruda dice: “Confesso che ho vissuto.”
Io confesso,
che spesso nei versi morivo.
Cercavo forse col verso
di ingraziarmi
la morte
per farla venire, quando sarebbe venuta, prima della tua.

Ahimè,
è successo il contrario.


Eredità

                              a Josip Osti

I nostri avi ci hanno lasciato in eredità
degli Schonbrunn, dei Palazzi d’Inverno,
dei Ponts Charles,
delle Piazza San Marco,
senza menzionare
i Westminster
che rappresentano
i drammi di Shakespeare,
i romanzi di Tolstoi
o la “suite n. 3” di Bach.

E noi altri,
cosa lasceremo in eredità
ai nostri discendenti?

Degli snack-bar,
delle stazioni di servizio,
dei garages,
e qualche anti-romanzo.

martedì 10 luglio 2012

Parla l'Autore


Dubito di stare qui, in questo momento. Dubito della murata rossastra nell’aula fumatori, a Palazzo Veterani, una volta spenta la sigaretta e l’incanto. Ho un dubbio feroce riguardo all’esistenza dei miei genitori, e di mio fratello. Sono in dubbio, se penso alla moltitudine di gente che ho incontrato e incontrerò nella mia pur vuota esistenza. Se guardo indietro, se guardo al mio scianco passato in sordina, sono dubbioso degli amici che ho visto passare e dei miei gesti: le vittorie poco assaporate, le sonore sconfitte, i miei , i miei ma, i no che ho proferito a me stesso prima che a gli altri, le verità che ho audacemente nascosto per non soccombere.
     Dubito dei sorrisi smaglianti della gente da social-network. Diffido dalle nuove generazioni già ricche di lingue straniere ed esperienze – a me ancora precluse. Ho sospetto di chi ride ed è felice: ma anche di chi piange e si lamenta per un cece nella scarpa. Mi riesce difficile non dubitare della materia, viepiù se è guasta ed emana un cattivo odore. Per non parlare dello spirito, così vacillante e incerto, evanescente: mi par giusto credere che non abbia alcuna obiettività da sviscerare.
     Dubito dei contenuti della morale, dei vaniloqui immorali, della bestialità e dei cherubini, dei cuori in affanno e dei pacemaker. Sono in serio dubbio, se mi si parla di ére geologiche e guerre mondiali, se mi si vuol convincere che l’Universo è infinito e gli etruschi siano di origine non indoeuropea. Se guardo avanti, se guardo al futuro claudicante che mi attende, sono dubbioso all’ennesima potenza: mi par nulla il mio seguito, e non ultraterreno, come mi hanno insegnato da bambino.
     Dubito di Dio, della Madonna e di tutti i santi: alla faccia di chi crede che si creda sempre, e di chi mi offende se do mostra di credere, senza crogiuoli e senza dubbi lancinanti. Dubito allora che Gesù sia veramente esistito; ma poi torno indietro nel pensiero.
     Ci sono cose sacre, sulle quali non è lecito dubitare: perciò non dubito più che i miei genitori esistano, e nemmeno mio fratello. Col loro amore scontato, di cui mai saprò l’inizio.
     Eppure, continuo a dubitare dei dubbi che non ho avuto. E dei rimorsi, delle olive aromatizzate allo zenzero, del diavolo e della canaglia, del benefattore e dell’ingrato, dell’amico traditore e dell’amico per sempre, delle donne ignude, delle vettovaglie che mia nonna ancora prepara, quando parto da casa. Dubito che tutto questo abbia un senso, il senso straordinario che il cuore prepara dalla nascita, benché sia chiaro l’amore da un verso, e l’odio dall’altro. Un dubbio onnicomprensivo mi assale poi a notte fonda e nel tiepido mattino d’estate: che il problema del Male abbia un reale fondamento.  
     In generale, non riesco a credere di dubitare che dubito dell’esistenza di ogni corpo, corpicino e corpuscolo, rischiarato dalla luce del sole o celato nel fondo delle tenebre.
     Ma l’unica cosa di cui non posso dubitare – nonostante tutti i dubbi e le lacerazioni – quell’unica cosa, dico, sei tu.

sabato 30 giugno 2012

Primavera di Praga (Strambotto)

Come Jan Palach, dopo la stenta, guiderai la rivolta.
L’inverno al belvedere è ancor più sigillato.
Dal trespolo s’arruffa la tua faccia stravolta,
Color mandolino, sparisce in glissato.
Ma tu, mia dama, passerai il gelo sul coperchio

                                                                            [del mondo,
Pettirossa, abbaglierai le murene al tuo canto.
Se il mio grumo d’ala sarà lì per garrire,
Ricordane lo sparo, potresti sfiorire.

sabato 23 giugno 2012

'La poesia della tradizione' di Pier Paolo Pasolini


Oh generazione sfortunata!
Cosa succederà domani, se tale classe dirigente -
quando furono alle prime armi
non conobbero la poesia della tradizione
ne fecero un’esperienza infelice perché senza
sorriso realistico gli fu inaccessibile
e anche per quel poco che la conobbero,
dovevano dimostrare
di voler conoscerla sì ma con distacco, fuori dal gioco.
Oh generazione sfortunata!
che nell’inverno del ‘70 usasti cappotti e scialli fantasiosi
e fosti viziata
chi ti insegnò a non sentirti inferiore -
rimuovesti le tue incertezze divinamente infantili -
chi non è aggressivo è nemico del popolo! Ah!
I libri, i vecchi libri passarono sotto i tuoi occhi
come oggetti di un vecchio nemico
sentisti l’obbligo di non cedere
davanti alla bellezza nata da ingiustizie dimenticate
fosti in fondo votata ai buoni sentimenti
da cui ti difendevi come dalla bellezza
con l’odio razziale contro la passione;
venisti al mondo, che è grande eppure così semplice,
e vi trovasti chi rideva della tradizione,
e tu prendesti alla lettera tale ironia fintamente ribalda,
erigendo barriere giovanili contro la classe dominante del passato
la gioventù passa presto; oh generazione sfortunata,
arriverai alla mezza età e poi alla vecchiaia
senza aver goduto ciò che avevi diritto di godere
e che non si gode senza ansia e umiltà
e così capirai di aver servito il mondo
contro cui con zelo «portasti avanti la lotta»:
era esso che voleva gettar discredito sopra la storia - la sua;
era esso che voleva far piazza pulita del passato - il suo;
oh generazione sfortunata, e tu obbedisti disobbedendo!
Era quel mondo a chiedere ai suoi nuovi figli di aiutarlo
a contraddirsi, per continuare;
vi troverete vecchi senza l’amore per i libri e la vita:
perfetti abitanti di quel mondo rinnovato
attraverso le sue reazioni e repressioni, sì, sì, è vero,
ma sopratutto attraverso voi, che vi siete ribellati
proprio come esso voleva, Automa in quanto Tutto;
non vi si riempirono gli occhi di lacrime
contro un Battistero con caporioni e garzoni
intenti di stagione in stagione
né lacrime aveste per un’ottava del Cinquecento,
né lacrime (intellettuali, dovute alla pura ragione)
non conosceste o non riconosceste i tabernacoli degli antenati
né le sedi dei padri padroni, dipinte da
-e tutte le altre sublimi cose
non vi farà trasalire (con quelle lacrime brucianti)
il verso di un anonimo poeta simbolista morto nel
la lotta di classe vi cullò e vi impedì di piangere:
irrigiditi contro tutto ciò che non sapesse di buoni sentimenti
e di aggressività disperata
passaste una giovinezza
e, se eravate intellettuali,
non voleste dunque esserlo fino in fondo,
mentre questo era poi fra i tanti il vostro dovere,
e perché compiste questo tradimento?
per amore dell’operaio: ma nessuno chiede a un operaio
di non essere operaio fino in fondo
gli operai non piansero davanti ai capolavori
ma non perpetrarono tradimenti che portano al ricatto
e quindi all’infelicità
oh sfortunata generazione
piangerai, ma di lacrime senza vita
perché forse non saprai neanche riandare
a ciò che non avendo avuto non hai neanche perduto:
povera generazione calvinista come alle origini della borghesia
fanciullescamente pragmatica, puerilmente attiva
tu hai cercato salvezza nell’organizzazione
(che non può altro produrre che altra organizzazione)
e hai passato i giorni della gioventù
parlando il linguaggio della democrazia burocratica
non uscendo mai della ripetizione delle formule,
ché organizzar significar per verba non si poria,
ma per formule sì,
ti troverai a usare l’autorità paterna in balia del potere
imparlabile che ti ha voluta contro il potere,
generazione sfortunata!
Io invecchiando vidi le vostre teste piene di dolore
dove vorticava un’idea confusa, un’assoluta certezza,
una presunzione di eroi destinati a non morire -
oh ragazzi sfortunati, che avete visto a portata di mano
una meravigliosa vittoria che non esisteva!



Pier Paolo Pasolini, Trasumanar e Organizzar, Garzanti 1971.

lunedì 11 giugno 2012

Fortezza Albornoz


Un tempo qualcuno lì combatteva.
Qualcuno, un tempo, era sentinella del mattino.
Sbrigliavano i cavalli impomatati
mentre Federico guercio lampeggiava
                                           nell’armatura.

Un tempo lì c’era il palio mascherato.
Qualcuno, un tempo, era guardiano notturno.
Poi i cavalli morivano. Vi era la concia.
E il raso trapunto custodito.

La perizia dell’artigiano. Nocche
Gonfie. Per magia una rosa canina:
tutto era locus amoenus un vociare
di servi mercatori di pupille d’ambra.

E di cortina.

*

Noi spesso andiamo in cima alla fortezza, nei giorni assolati.
Non badiamo alle concessioni della storia. Ma godiamo di noi
e della natura, che invade gli stinchi, che rende parassitari.
Assuefatti ad una mistica adusata, tra i segmenti
                                                                                di bacelli.
C’è chi ride, chi scodinzola, chi gioca a palla. Noi lastrichiamo
le solite domande sospese. ‘La balza c’attende ancora’, ci diciamo.
E tutto sommato, ‘meglio così.’ Poiché non tocca essere sterratori.
Al massimo registratori di sensazioni decadenti,
                                                                       o di voci impopolari. 
Questa natura, distese tallonate, acquitrini, dentature smagliate
fa nuotare in pace con la coscienza e con gli altri.
E, paghi d’una calma acciottolata, rimaniamo con le imposte
                                                                                        abbassate.
Ma ci manca ciò che nel quattrocento fu la fortezza.
Non frangivento per anonimati, che sguazzano come anguille
in erotico oblio. Manca il sigillo bollato della madia.
                                                                                    La sicurezza.

domenica 3 giugno 2012

Sergej A. Esenin - Confessioni di un malandrino


Non a ciascuno è dato di cantare,
non a ciascuno è dato di cadere
come una mela ai piedi di qualcuno.

Eccovi la suprema confessione,
quella che vi può fare un malandrino.

Mi piace spettinato camminare
col capo sulle spalle come un lume:
così mi diverto a rischiarare
il vostro triste autunno senza piume.
Mi piace che mi grandini sul viso
la fitta sassaiola dell’ingiuria:
mi agguanto solo, per sentirmi vivo,
al guscio della mia capigliatura.

Ed in mente mi torna quello stagno
che le canne ed il muschio hanno sommerso,
e mio padre e mia madre che non sanno
d’avere un figlio che compone versi.

Ma mi vogliono bene come ai campi,
alla pelle e alla pioggia di stagione;
raro sarà che chi m’offenda scampi
da loro e dalle punte del forcone.

Poveri genitori contadini!
Certo siete invecchiati e ancor temete
il signore del cielo e gli acquitrini...
Genitori che mai non capirete
che oggi il vostro figliuolo è diventato
il primo fra i poeti del paese...

Quando correva scalzo sul bagnato
vi si copriva l’anima di brina:
ora invece in iscarpe verniciate
e col cilindro in testa egli cammina.

Ma sopravvive in lui la frenesia
d’un vecchio mariolo di campagna,
e ad ogni insegna di macelleria
alla vacca s’inchina, sua compagna.
E quando in piazza incontra un vetturino,
gli torna in mente il suo concio natale,
e vorrebbe la coda del ronzino
reggere come strascico nuziale.

Voglio bene alla patria,
l’amo senza confine,
benché afflitta di tronchi rugginosi.
M’è caro il grugno sporco dei suini
ed i rospi nell’ombra sospirosi.

Son malato d’infanzia e di ricordi
e di freschi crepuscoli d’aprile.
Sembra quasi che l’acero si curvi
per riscaldarsi e poi dormire.
Dai nidi di quell’albero le uova
per rubare salivo fino in cima.
Ma sarà la sua chioma sempre nuova
e dura la sua scorza come prima?

E tu, mio caro amico,
vecchio cane fedele?
Fioco e cieco t’ha reso la vecchiaia,
e giri a coda bassa nel cortile,
ignaro delle porte e dei granai.
Mi son cari i miei furti di monello,
quando rubavo in casa un po’ di pane,
e si mangiava come due fratelli,
una briciola l’uomo ed una il cane.

Io non sono cambiato,
il cuore ed i pensieri son gli stessi,
e come fiori in grano, in viso gli occhi.
Sui tappeti magnifici dei versi
voglio dirvi qualcosa che vi tocchi.

Buona notte!
La falce risonante della luna
si cheta mentre l’aria si fa bruna.
Dalla finestra mia voglio stasera
pisciare contro il disco della luna.

L’azzurro della notte è così terso:
qui forse anche il morire non fa male.
Che importa se il mio spirito è perverso
e dal mio dorso penzola un fanale?
O Pegaso decrepito e bonario,
il tuo galoppo è ora senza scopo.
Giunsi come un maestro solitario
e non canto e non celebro che i topi.
Dalla mia testa come uva matura
gocciola il folle vino delle chiome...

Voglio essere una gialla velatura
gonfia verso un paese senza nome.


(traduzione di Renato Poggioli)

domenica 27 maggio 2012

Via Posta Vecchia


*

In via Posta Vecchia una lanterna
di diamanti dà lume al giorno.
Annibale Albani in tunica
ne regge e regola il dorso.

Scruta al lucignolo del terrore
le movenze e le vendette
della gente cauta, ma impigliata
nel proprio dolore.

E dice: ‘Veglia nottetempo,
al conciliabolo della pupilla.
Fissa visionario l’iride
dell’ospite inquietante

l’orbita ottica stravolta,
senza polverizzarne
la Speranza presbite.
Non regolare la Storia,

recitando la miopia dei suoi passi.
Attendi i ritardi della memoria.
Non dar luogo a rimandi:
il tuo presto è già tardi.’


Le origini

Certe volte, quando a sera
l’inadempienza sboccia,
passo a gattoni al locale

che lascia la granitica
donna-squalo di Pazienza.
E per un capogiro d’associazioni

visive e uditive, gocce al timpano
spezzato, mi trovo a discorrere
pacatamente ai fusti del porticato:

‘Badi poco a San Severo,
la città del tuo pensiero.
Non ti frega della vite e dell’origini.

Non sguaini la ciocca dal
sovra-pensiero. Affùss’t da straniero.
Con l’esilio che segue ovunque.’

E prosegue:
‘Ci diede ogni cosa la vita,
e ogni cosa noi gettammo via.’


giovedì 24 maggio 2012

Sceneggiatura



Ho visto negli ultimi capitoli
di un romanzo finito e non voluto
occhi e labbra di un altro racconto
note sparse di un tema sconosciuto
non ancora suonato; possibili
pellicole di futuro girato
non vissuto eppure già proiettato.
Cinema: Sala del Non Accaduto.

Le Mura


Hai portato con te il filo.
Era un modo per depistare le vertigini del labirinto.
Dall’andito delle mura
sale la strada affilata
                                 con i suoi ciuffi di mattoni.
Nessuna collina, nessuna pianura.
Nel cratere c’è dell’acqua – nostra vita che ristagna,
riscaldata da un sole mulinante
e il gelo, su in cima, che bagna.
Da quando poi hai disbrogliato il filo.

Era un segno studiato per non perdersi,
per uscire da queste vie chiuse a vene.

Ci siamo persi negli intrichi dei rinsacchi.
Noi avviluppati dal gomitolo, io e te schiavi del baricentro
della città nuda e splendente.
                                             E il mostro spia
è un flash che ricambia cenni ammaestrati.
Attende il nostro gioco nel suo labirinto.
Noi contro la tormenta
                                   cammineremo, fra le buche
e il croco, altre arterie della mente incroceremo.
Case ridipinte, bosco sacro, scure intitolata alla terra.
E finalmente sarà paesaggio la nostra vita.

Ahi, il filo s’è spezzato!
Il Minotauro incalza sicuro – cresce la paura.
E non sei più certa di voler uscire dalle mura.

domenica 20 maggio 2012

Se tu dovessi venire in autunno (E. Dickinson)

Se tu dovessi venire in autunno
mi leverei di torno l'estate
con un gesto stizzito ed un sorrisetto,
come fa la massaia con la mosca.
Se entro un anno potessi rivederti, 
avvolgerei in gomitoli i mesi,
per poi metterli in cassetti separati -
per paura che i numeri si mescolino.
Se mancassero ancora alcuni secoli,
li conterei ad uno ad uno sulla mano -
sottraendo, finché non mi cadessero
le dita nella terra della Tasmania.
Se fossi certa che, finita questa vita,
io e te vivremo ancora -
come una buccia la butterei lontano -
e accetterei l'eternità all'istante.
Ma ora, incerta della dimensione
di questa che sta in mezzo,
la soffro come l'ape-spiritello
che non preannuncia quando pungerà.

venerdì 18 maggio 2012

Mercurio


Questo tavolo blu non prenderà vita per lavarsi da solo
né il giorno ti attende come vorresti. Palmi sul cranio.
Perché non scrivi nulla?

Che la poesia abbia perso il suo oggetto
questo è normale: cacciata l’anima a pedate
e ancora sempre più software il Concreto d’una volta,
ronzare sconvolti nella notte o nel sole, non molto diversi da
punti astratti – questo è normale         . Nutrimento per fami infinite            
ma la crepa rimane, e si allarga...

Perché non scrivi nulla?

                        *

Tra i vetri d’un treno, i primi dell’anno
un treno percorso da meraviglie incolore
ferito e felice – ancora ci vedo –
lanciato al ritorno coi lividi all’occhio.
Come nato – stupirmi che c’è l’imbrunire
tra mani di nuvole sopra gli hotel, resi
goffi e rossastri, fuori stagione – tugurio.

E un mare-metallo, colore mercurio.

mercoledì 16 maggio 2012

Piazza Rinascimento


Impulso di scendere
e conquistare sgravio
per gli scalini fino alla rotatoria
rotante. Come quando
t’accompagnai a vuotarti
di birra nel vicolo a cannella.

Io da dietro il muro
ad ascoltare con la ghisa
e le felci che proteggevano da Te.
Tu rannicchiata, soffio che scorre
per lo strappo della lampo,
fili imbrigliati per l’uscita.

A guardarti, anche in un getto
di sguardo assonnato
in quella semi-oscurità densa di fruscii
e gocciolii luccicanti,
sarei rimasto castigato
come il Marsia di Mirone.



*

Il taglio storto della via non guidava più a Te.
E proprio nell’istante della rinascenza,
quando la βρις che rasenta
è alla punta di sipari spalancati.

Seppur manchi fino a ingrigire,
io debbo camminare. Non sarà
il prugnolo, né la traccia nocciola
del tuo giaccone. Nemmeno
l’inebriante suono del tuo nome.

La via, però, cigola d’una bellezza
terribile. La corrente d’aria spersa
reagisce al mio passo contro-vento.
Il tuo luccichio m’attraversa. E tutto
vibra lento, col tremore
dell’onniveggenza fulminea.

Di quando si è provati dal portento.





Two Irish poets

                                                                                                                                                                                ‘Compose in darkness.
                                                                  Expect aurora borealis
                                                                  In the long foray,
                                                                  But no cascade of light.

                                                                  Keep your eye clear
                                                                  As the bleb of the icicle,
                                                                  Trust the feel of what nubbed treasure
                                                                  Your hands have known.’
                                                                                                                                                                         
                                                                                                                                                                                  Seamus Heaney


Mi vennero dinanzi due ombre,
forti del rinascimento irlandese.

‘I returned to a climb.
The distance was long, all the way.
In our word-hoard, there was poverty,
but even death lies and the void
deceives, like the bearings
                 of your history!
And you, compose, exspect, trust!’
  
Il più giovane mutò accento,
quasi che fosse tradito da sé:
                          
‘Bog leat, mo chroì!
Tá tú mall.
Chonaic mé Sweeney grian liath
                  ar an tsráid Anahorish,
aistritheoir atá ionam.
Is tine mé, bláthanna leabhair,
scáthán ar an t-urlár.’[1]

Poi, cogliendo le linee essenziali
della nostra lingua:

‘Yeats giunse fra i colli ventosi.
E presi a seguirlo
con poesia lenta e improvvisa.
Rimanemmo chiari fra le mura:
un dio consentì la nostra
oscillante uscita.’


[1] «Muoviti, mio cuore! / Sei in ritardo. / Vidi Sweeney sole grigio sulla strada di Anahorish, / il traduttore che è in me. / Io sono un fuoco, fiori di libro, / uno specchio sul pavimento».

lunedì 14 maggio 2012

Una sera a teatro, con amore


     Le maschere della compagnia itinerante sangimignanese Comici e co. (e con ‘maschere’ intendo proprio le maschere in cuoio, loro fisicamente insomma) decisero di punto in bianco, senza nemmeno consultare i propri attori, di allestire una rappresentazione al Metropolitan di New York.
     L’Arlecchino, leader indiscusso del gruppo, alzò la cornetta con la bocca dolorante, digitò (non domandate con cosa) il prefisso internazionale e il numero della segreteria del teatro newyorkese, e restò in attesa che qualcuno rispondesse dall’altro capo del mondo.
     «Pronto?», rispose una voce calda dal sesso imprecisato.
    La maschera fu assai turbata dal perfetto italiano dell’interlocutore, il quale pareva avesse indovinato magicamente e audacemente che la chiamata giungesse dall’Esperia. E, dopo qualche secondo di raggelato silenzio, la maschera in persona disse con voce autoritaria:
     «Sono l’Arlecchino, cioè la maschera fisica, non l’attore, l’Arlecchino della compagnia sangimignanese ‘Comici e co.’ Vorrei mettere in iscena uno spettacolo comico, assieme alle altre maschere, da voialtri newyorkesi. È possibile?»
     «Qui da noialtri tutto è possibile, – rispose con gioviale accondiscendenza la voce – certamente, quando volete, davvero, quando volete. Aspettavamo da molto tempo la vostra chiamata, e con quale desiderio! Sì, la chiamata di una maschera fisica, non d’un attore, diamine! Ci speravamo con vigore inusitato. E proprio mentre eravamo lì per dubitare, ecco che avete chiamato. Ma bravi!»
     «Onorato.», rispose con un filo di voce l’Arlecchino, sempre più esterrefatto per come prendesse piega la questione.
     «L’onore è il nostro, davvero, il nostro. Volete fissare subitamente e senza impegno le due date del vostro spettacolo, prego?», propose con dolcezza la voce calda.
     «Anche se voialtri non avete la più pallida idea del che noi si metta in iscena?», chiese, pieno di sospetto, l’Arlecchino.
     «Oh, ma noialtri ci fidiamo ciecamente, davvero, ciecamente.» La maschera rimase qualche attimo ad auscultare le proprie, legittime per la verità, preoccupazioni.
     Ciò di cui più si sentiva turbata era l’assoluta mancanza di chiarezza circa il sesso della voce, la quale si mostrava così bendisposta a scritturare una compagnia italiana senza richiederne le credenziali. Pur tuttavia non reputò conveniente far domande a riguardo.
     «Va bene il 7 marzo e il 12 agosto 1989?», chiese poi l’Arecchino, controllando rapidamente sull’agenda gli impegni della brigata.
     «Ma certamente, davvero. Avevamo in cartellone il Cyranò de Bergerac seguito a ruota da Hius clos, ma non fa nulla. Benché il tutto esaurito già da ora, li sposteremo di buona lena…»
       «In ambedue le date?»
     «Sì, il 17 marzo e il 21 agosto del 1989… compagnia Comédie-Française di Saint-Rémy-de-Provence… cancellato…»
     «Per la barba di Noè, straordinario!», esultò l’Arlecchino.
     «Cosa?»
     «Che ci scritturiate a danno della Comédie-Française.»
  «Comunque sia, non preoccupatevi: il teatro è il vostro.», precisò senza ombra d’indecisione la voce.
     «Sicuro?», chiese la maschera per gentilezza.
    «Sicurissimo, davvero, sicurissimo.» E sebbene la comunicazione fosse bella che finita, la telefonata durò altre due ore, nelle quali l’Arlecchino tentò invano di scoprire l’identità e il sesso di quella dolce e bonaria voce.
     Nemmeno gli passò per la testa il sospetto che, dall’altro capo della cornetta, ci potesse essere un’altra, burlona, maschera in cuoio. 

venerdì 4 maggio 2012

E così vorresti fare lo scrittore? (C. Bukowski)

Se non ti esplode dentro
a dispetto di tutto,
non farlo.
a meno che non ti venga dritto dal
cuore e dalla mente e dalla bocca
e dalle viscere,
non farlo.
se devi startene seduto per ore
a fissare lo schermo del computer
o curvo sulla
macchina da scrivere
alla ricerca delle parole,
non farlo.
se lo fai solo per soldi o per
fama,
non farlo.
se lo fai perché vuoi
delle donne nel letto,
non farlo.
se devi startene lì a
scrivere e riscrivere,
non farlo.
se è già una fatica il solo pensiero di farlo,
non farlo.
se stai cercando di scrivere come qualcun
altro,
lascia perdere.
se devi aspettare che ti esca come un
ruggito,
allora aspetta pazientemente.
se non ti esce mai come un ruggito,
fai qualcos’altro.
se prima devi leggerlo a tua moglie
o alla tua ragazza o al tuo ragazzo
o ai tuoi genitori o comunque a qualcuno,
non sei pronto.
non essere come tanti scrittori,
non essere come tutte quelle migliaia di
persone che si definiscono scrittori,
non essere monotono o noioso e
pretenzioso, non farti consumare dall’auto-
compiacimento.
le biblioteche del mondo hanno
sbadigliato
fino ad addormentarsi
per tipi come te.
non aggiungerti a loro.
non farlo.
a meno che non ti esca
dall’anima come un razzo,
a meno che lo star fermo
non ti porti alla follia o
al suicidio o all’omicidio,
non farlo.
a meno che il sole dentro di te stia
bruciandoti le viscere,
non farlo.
quando sarà veramente il momento,
e se sei predestinato,
si farà da
sé e continuerà
finché tu morirai o morirà in
te.

non c’è altro modo.


e non c’è mai stato.

mercoledì 2 maggio 2012

Dimenticanza


Pregando va le vie di neve
e sotto un vero cielo e nubi false
rincorre un vicolo che cresce.
Gennaio è finito e anche il velo
di apatia si  è sollevato: troppo morta
per lui che ammicca a Werther.
Un fiore colto già appassito
cresciuto un tempo sul cemento.
Un vecchio dal fondo del suo mito grida
senza alcuna ragione: non c’è più religione!

sabato 21 aprile 2012

ArtisticamenteMe. Intervista ad Alice Karshan

Abbiamo incontrato Alice Karshan, giovane pittrice pesarese che nei giorni 28 e 29 aprile esporrà le proprie opere alla Piccola Galleria comunale di Pesaro in Via Branca 5, con cornice musicale dei Gonzo’s Law che con il loro groove che spazia dal funk allo smooth jazz accompagneranno l’esposizione artistica aggiungendo ‘arte ad arte’.
In linea con le idee della Resistenza della poesia si è discusso della figura dell’artista, di bellezza e della condizione attuale dell’uomo e dell’arte.


Ogni opera d’arte rappresenta quella che è la voce più nascosta, intima e vera dell’artista. Che cos’è che ti spinge a dipingere, quali sono i messaggi che vuoi dare con i tuoi disegni, quali vibrazioni ti spingono a creare?

Ciò che mi spinge a dipingere è la passione che ho per la pittura ma soprattutto per la ‘libertà’ che in quel momento  sento e quindi vivo. Per quanto mi riguarda è difficile spiegare in parole del perché mi sento bene quando dipingo e cosa mi spinge a farlo. Penso semplicemente che l’arte sia ‘dentro’ di me. Non mi sono mai concentrata sul tipo di messaggio che vorrei dare, mi piacerebbe semplicemente che la gente si avvicini un po’ più alla pittura e all’arte in generale, ai colori e alle magie che possono creare anche perché sono convinta che ognuno di noi sia in grado di creare piccole o grandi opere, basta semplicemente ascoltare l’istinto e buttarsi! Perfetto ora so perché dipingo…


L’arte quindi è insita in ogni uomo ed è essa stessa a premere per uscire al mondo. Tuttavia tutti gli artisti, oltre a parlare ‘da dentro’ e con la propria esperienza devono – sempre – fare i conti con una tradizione che li precede, e – nel bene o nel male – tutti sono costretti ad accostarsi, a volte affrontare e superare dei maestri. Tu hai dei maestri in particolare? dei pittori a cui maggiormente ti ispiri e con i quali ‘dialoghi’ durante la creazione?

Diciamo che nulla è nuovo. I ‘grandi’ maestri saranno e devono sempre essere presenti nel senso che è naturale ispirarsi ad  un’artista del passato, ma quello che dovrebbe caratterizzare un’artista è la ricerca, la sperimentazione e l’innovazione (se no che divertimento c’è!). Personalmente, sono affascinata dall’apparente semplicità delle forme rettangolari di  Mondrian ,dal surrealismo di Mirò o dalla magica pittura d’azione di Pollock,comunque sia vado dritta per la mia strada e ogni tanto  sbircio un po’ indietro.


Cosa pensi che sia, nella nostra società, l’arte: quale pensi che sia il suo valore? Secondo te può essere ridotta ad un puro vezzo da intellettuali, a un semplice passatempo o un intrattenimento, oppure pensi che possa essere importante, avere un valore all’interno della società?

L’arte in tutte le sue sfaccettature è fondamentale nella vita di ognuno di noi. E quando dico Arte intendo pittura, poesia, musica; tutto ciò che di buono l’uomo riesce a creare è arte! Che sia un passatempo, o che sia semplicemente puro mezzo di marketing va bene, il mio desiderio è non vederla mai accantonata.

Dunque, se ti citassi un passo tratto dall’Idiota, famosa opera di un grande scrittore come Dostoevskij, in cui il principe Myškin, protagonista, afferma che la bellezza possa salvare il mondo, tu credi che ci sia della verità dietro questa affermazione o pensi, come la pragmatica borghesia russa che lo circonda, che le sue siano soltanto le parole di un ‘idiota’?

Era stanco di vivere in una società malata e crudele.
 Sì, la bellezza può salvare il mondo. Penso però che qui non si parli di bellezza estetica, bensì interiore.
E  se l’uomo tornasse semplicemente a sorridere, a sperare, ma soprattutto a credere (e non parlo in questo caso della fede) probabilmente si  aggiusterebbero un po’ di cose. Quello che noto ultimamente è che le persone si accontentano, si arrendono e non lottano più .
Forse è così che veramente diventano idioti. 

La bellezza e l’arte nelle sue varie forme; infatti arte è non solo quella figurativa come già ci hai ricordato tu: ci sono anche la musica, la letteratura, ecc. Che cosa ti ha spinto a voler accompagnare l’evento della tua esposizione d’arte figurativa con della musica dal vivo?

La musica è fondamentale. Infatti quando dipingo alzo il volume, entro nella canzone e comincio. Voglio dare a questa mostra un’impronta fresca, giovanile e allegra. Solo in questo modo potrà rispecchiarmi a pieno. Poi musica e pittura sono praticamente la stessa cosa. Un esempio: gesto musicale e nota colorata.

Per quello che è il tuo particolare stile, la tua ricerca, a chi consiglieresti di visitare l’esposizione, e perché?

Lo consiglierei ai più giovani, per condividere con loro un momento molto importante per me, perché dopo tanti anni di esitazione, finalmente ho preso coraggio e ho deciso di condividere le mie opere. Lo consiglierei alle persone più grandi perché musica e pittura non hanno età.
Infine, con un pizzico di orgoglio, lo consiglierei a quelle poche persone che non hanno creduto in me.


Intervista di Matteo Giunta e Nicola Mancini

venerdì 20 aprile 2012

I quattro dell'Apocalisse

Due romanzieri russi, due poeti italiani: i quattro dell’Apocalisse. Due ribelli sgargianti, due compagnoni in toga: i quattro della mia vita. Ve l’immaginate ora, sir? Potete dismettere il chiodo fisso, del tutto vostro, delle chiare et fresche et dolci acque del Vermont e concentrarvi su di loro, machi e belloni, fustacci?
«Ditemi i loro nomi, per Giove.» Yes, sir. Essi sono, in ordine temporale: Virgilio, Dante, Dostoevskij, Bulgakov.
«Voglio sapere tutto. Andiamo a metterci comodi in una qualche locanda di San Gimignano, sbevazziamo e parliamo di letteratura: ne ho bisogno. Ho bisogno d’ascoltare cosa sia il perno della salvezza, e perché quei fustacci vi rimangano così inspiegabilmente a cuore. Un bel grappino al tritolo e tutto si risolve. Già sento i polmoni carichi e piromani. Andiamo in locanda, andiamo, razza di sciagurato.» No, sir.
«Perché no?» Nelle locande ci sono le locandiere. Le locandiere danno vino stagionato, pescato dalla feccia del loro barile. No, sir. Ho chiuso una volta per tutte con le locandiere. La locandiera della mia vita è impazzita d’un colpo. Si dà alla pazza gioia, fa sbornie, è un Erinni, un grifo malcielo. Ed è per questo che ora mi armo di penna che non è una penna, e di parole che non sono parole. No, sir. Non in una locanda. Ho patito troppo per le locandiere.
«Seguimi, mela marcia. Conosco locande sguarnite di locandiere…» E che dire quando uno è così accorto? Lo si segua col sole d’aprile che sfibra le grate col suo debol tepore. Sono baccelliere. Sir, ricordami così.
E poiché lo studio mi viene a noia, narro. Narro – a quanto pare – una losca Inchiesta e di certe coincidenze avvenute in settimana: gli scrittori morti si rincontrano. Maigret gli arresta, nell’ora in cui calano le maschere.
Ma non è settimana come le altre: c’è il santo di mezzo, e l’angelo.
«Che ruolo hanno i quattro dell’Apocalisse?» Spostano gli equilibri meridiani del mondo, poiché non vi è che un solo mondo: quello letterario. Gli altri sono scioccamente finti. Si vive solo nell’opera. Ed essi sono i testimoni dell’opera.
«L’opera di chi? Razza d’uomo teologico: sei peggio d’un rallo, d’una folaga. Parla di storia piuttosto.» La storia non esiste. Avete mai visto un ciliegio e un eucalipto presentarsi in veste storica? Sarebbe ridicolo, perché per loro non c’è il tempo dei capricci. Esiste la coscienza teologica e il suo martire, non la storia: mito d’Europa. E comunque finiamola con questo arrancare e ordiniamoci una torcibudella. Locanda assai fine, rossetta, glabra. Varia umanità ivi brulicava altezzosamente.
«Guarda là in fondo.» Lei. M’aveva ingannato il sir. M’ha portato proprio nel luogo in cui meno volevo stare: vicino a lei. Vicino a lei. Batto i denti per soffocare un rantolo d’emicrania. Fa per avvicinarsi in prospettiva dell’ordine. La fulmino: diva, ditirambo vivente, dispeptica! Guai a te se fai un altro passo! Conduco una vita speleologica a furia di inchiodarti, ma tu nulla. Sta d’accordo. Sta bene. Io sono un putridume, ovviamente: eppure ho dalla mia parte i quattro. Essi hanno una V, due D, una B per iniziali.
Che dico a fare? Sei illetterata: potrai mai intendermi? Per giunta, ora frequenti ometti che non ti offrono nessuno stimolo, nessuna pietanza tesa a satollare l’anima tua anoressica e strisciante.
 Mi dà nausea il tuo volto irrughito e butterato dal troppo punch e dall’erba. Ubriacona! Guarda come continuo, nello strapparmi i capelli, le pustole e il cuore, guarda come continuo a dar gioco alle apparenze. Sto qui, rimango, siedo, do retta a un sir provincialotto. Bevo anch’io – scrutatore, ma solo per vedere dove arriva la tua immondezza.
Sei sacra, sei strega. Sei lercia, incurvita: scipita. Provo una strana goduria nel vederti così infelicemente imbruttita dal caso e dagli atti. I tuoi bagordi esigono pure un prezzo. Lo sapevo io, sì lo sapevo fin da prima: sempre nelle locande ci sono locandiere!
«Ora basta. Hai detto abbastanza, rivendicando la tua personale rivolta col vessillo dei quattro. Andiamocene. Ma prima dimmi: sei sicuro di voler fare a meno dei suoi servigi, anche in un lontano futuro?» Yes, sir.

sabato 14 aprile 2012

Vladimir Majakovskij, breve estratto da 'Flauto di vertebre'

Io,
taumaturgo di ogni tripudio,
non ho con chi andare alla festa.
Cadrò di schianto, supino,
sfracellandomi il capo sulle pietre del Nevski!
Ho bestemmiato.
Ho urlato che Dio non esiste,
e lui ha tratto dal fondo degli inferi
una donna che farebbe tremare una montagna,
e mi ha comandato:
amala!

martedì 10 aprile 2012

'La ballata delle madri' di Pasolini

Mi domando che madri avete avuto.
Se ora vi vedessero al lavoro
in un mondo a loro sconosciuto,
presi in un giro mai compiuto
d’esperienze così diverse dalle loro,
che sguardo avrebbero negli occhi?
Se fossero lì, mentre voi scrivete
il vostro pezzo, conformisti e barocchi,
o lo passate a redattori rotti
a ogni compromesso, capirebbero chi siete? 

Madri vili, con nel viso il timore
antico, quello che come un male
deforma i lineamenti in un biancore
che li annebbia, li allontana dal cuore,
li chiude nel vecchio rifiuto morale.
Madri vili, poverine, preoccupate
che i figli conoscano la viltà
per chiedere un posto, per essere pratici,
per non offendere anime privilegiate,
per difendersi da ogni pietà. 

Madri mediocri, che hanno imparato
con umiltà di bambine, di noi,
un unico, nudo significato,
con anime in cui il mondo è dannato
a non dare né dolore né gioia.
Madri mediocri, che non hanno avuto
per voi mai una parola d’amore,
se non d’un amore sordidamente muto
di bestia, e in esso v’hanno cresciuto,
impotenti ai reali richiami del cuore. 

Madri servili, abituate da secoli
a chinare senza amore la testa,
a trasmettere al loro feto
l’antico, vergognoso segreto
d’accontentarsi dei resti della festa.
Madri servili, che vi hanno insegnato
come il servo può essere felice
odiando chi è, come lui, legato,
come può essere, tradendo, beato,
e sicuro, facendo ciò che non dice. 

Madri feroci, intente a difendere
quel poco che, borghesi, possiedono,
la normalità e lo stipendio,
quasi con rabbia di chi si vendichi
o sia stretto da un assurdo assedio.
Madri feroci, che vi hanno detto:
Sopravvivete! Pensate a voi!
Non provate mai pietà o rispetto
per nessuno, covate nel petto
la vostra integrità di avvoltoi! 

Ecco, vili, mediocri, servi,
feroci, le vostre povere madri!
Che non hanno vergogna a sapervi
nel vostro odio addirittura superbi,
se non è questa che una valle di lacrime.
È così che vi appartiene questo mondo:
fatti fratelli nelle opposte passioni,
o le patrie nemiche, dal rifiuto profondo
a essere diversi: a rispondere
del selvaggio dolore di esser uomini.


Da Pier Paolo Pasolini, Bestemmia. Tutte le poesie,  vol. I, Garzanti, Milano 1993

giovedì 5 aprile 2012

Io e zio Seamus, ovvero “il più grande poeta al mondo”

     
     Piazza Maggiore è ferita da un tenue scroscio di pioggia-lama. La taglio in due, seguendo l’indicazione del braccio sinistro d’un grosso crocifisso non intarsiato e color crema. Ecco – colgo lo svincolo madornale – ecco, una piccola piazzetta, un piccolo albergo, una minuscola entrata per un grande uomo. Che non sono io.
     Ohibò, sono in anticipo di un quarto d’orami dico, traballante. Panacea di tutte le puntualità è la sigaretta. La fumo con l’acqua alle tempie, il grigio sulle spalle. Ah, il catrame. Fatto questo (considerato che il vento chiede sempre due tiri), leggo l’ora e non sono passati più di sette minuti. Cammino su e giù. Grigio diventa azzurro, perdiana. No, e cammino ancora. Poi, mi faccio coraggio, entro, guardo la reception, getto in pasto al sorriso smagliante dell’uomo inamidato il ridicolo dovrei incontrare il poeta Seamus Heaney, mi risponde il professore è in camera, si accomodi al primo piano e, in un balzo, sono di sopra, la poltrona mi chiama, piantato, in tiepida attesa.
     La professoressa Morisco, mia correlatrice all’epoca della discussione, doveva far da interprete, perché, sapete, il sottoscritto ha avuto una storia difficile al liceo per quanto concerne le lingue straniere, storia complicata, dalle mille sfaccettature, mare torbidum, insomma… il sottoscritto non sa amabilmente una mazza d’inglese.
     Ma si ode scoccare l’ascensore e un omone canuto mi saluta, lieto: il Maestro è arrivato. Ora che dico? Siede al mio fianco, sul grosso divano marrone in mogano. Biascico qualcosa, porgendogli una poesia che avevo scritto su di lui e nella quale figurano tre o quattro versi in gaelico.
    Very good, very good…, pare davvero contento e legge ad alta voce, traducendo simultaneamente dal gaelico, lingua d’origine, all’inglese, lingua dei padroni. Intanto arriva la Morisco, rompe la lastra di ghiaccio infilzata nel mio cranio. Parliamo. Porgo domande su Virgilio, lui risponde affabile ma a fatica, perché l’ictus lo fa ancora tremare. Si parla di Dio, della trascendenza. Di quel lasciare-andare che affronta la morte ad occhi sinceri. Egli ne è certamente attratto, eppure anni di violenza e di guerra civile in Irlanda non possono non lasciare una macchia indelebile e una certa delicatezza (delicatezza verso quei morti da lui cantati in Station Island) nel professarsi dell’una o dell’altra fede.
     Questo pudore, questo tatto lo sprofonda in un sospiro. Lungo come la canna di una pistola puntata sul collo. Il dialogo a tre prosegue fino alla sua fine. È tempo di convenevoli. Gli ingiungo di firmare il libro del pungolo e della ferita metafisica, dico che nella nostra famiglia egli è molto popolare, simile ad una celebrata rock-star. Con firma tremante la mano più incisiva al mondo solca il frontespizio e il mio umore rinato. È come se fosse uno zio. Zio Seamus.
     E, in modo del tutto inaspettato e non-riflettuto, mi chiede una firma con dedica alla poesia dei tre o quattro versi gaelici. Paradossale, penso. Già l’onore di sedergli accanto ed essere nipote acquisito, ora faccio anche l’autografo al Premio Nobel dei miei desideri, il poeta della vanga e dello scavo, Virgilio dell’anima, maestro di vita, o semplicemente Maestro.
     Io, ventitreenne meridionale, conosciuto Heaney, salutato, baciato, visto il tremore di mani che entreranno nella storia, conversato, capito la sua poesia, le sue tribolazioni, la sua speranza che la parola del Vangelo dia l’ultima energia alla polvere della fonte inesausta, insomma io, davvero Felix (per usare un epiteto da imperatore romano), io cosa cerco ancora?
     Esco dall’albergo, giro l’angolo, aspetto. Panacea di tutte le attese è la sigaretta. Accesa, bagnata nella riga tra l’indice e il medio. Esce la combriccola, Heaney parla con la Morisco, la moglie Marie è a braccetto con un’altra donna dal portamento inglese. La pioggia mi ferisce gli occhi di commozione, mentre tagliano in due Piazza Maggiore, senza seguire nessun braccio del crocifisso, e spariscono nella bruma. Non pioggia normale, ma pioggia-lama. Che il cuore mi taglia, per sempre.