lunedì 31 gennaio 2011

Il non-senso della brutta faccia e dell'articolo di Odifreddi

Vorrei commentare in due battute il deprecabile articolo del professor Piergiorgio Odifreddi, apparso sul blog di Repubblica, il 25 gennaio. Questo è il link, per chi si volesse fare quattro risate: http://odifreddi.blogautore.repubblica.it/2011/01/25/umanesimo-in-via-destinzione/

Non mi soffermerò sulla foto di copertina dell'esimio studioso, scienziato militante quant'altri mai, critico pungente dell'estetica biblica (sic!), dal grugno assai simile all'iconografia tradizionale del Belzebù di Bosch o del Lucifero decaduto, di cui abbiamo un'immagine eloquente:



Vorrei piuttosto dire al "Signore delle Mosche" che gli studi letterari non sono (nell'accezione 'ontologica' del verbo) scientifici, cioè non traggono la loro dignità veritativa dalla scienza, poiché il loro sostrato 'ontico' è assai differente, se non opposto al grigiore oggettivo dei luminari in camice bianco. La poesia raggiunge la verità per vie traverse, e millenni di tradizione sono lì a testimoniare. Omero, Sofocle, Tucidide, Virgilio, Orazio, Tacito hanno forse stilato opere 'false', perché 'non-scientifiche'? Io credo che essi siano oltremodo importanti per la nostra crescita intellettuale, poiché hanno esplorato gli abissi dell'animo umano o semplicemente hanno cantato la mirabile bellezza delle cose. La letteratura è una maniera opposta e tuttavia complementare alla scienza, se si vuol ricercare compiutamente la verità dell'essere. 
Il calo degli iscritti al classico o allo scientifico 'classico' è dovuto all'ignoranza di spirito di gente come il nostro Satanasso, il quale non esita a blaterare panzane sull'imminente morte dell'humanitas, che può coincidere soltanto con la morte dell'uomo in sé. Vorrei soltanto rivolgere una domanda al dotto matematico:  dove ha dedotto il non-sense dell'esistenza? Forse che lo ha scorto nelle sue inutili parole?
E' davvero un peccato che la vita sia un non-senso (come appare chiaro dal titolo del suo blog): essa ci spiegherebbe perché Odifreddi è ancora qui a sparare immonde cazzate!

sabato 29 gennaio 2011

Walt Whitman, "O Me! O Life!"

O Me! O life! of the questions of these recurring,
Of the endless trains of the faithless, of cities fill'd with the foolish,
Of myself forever reproaching myself, (for who more foolish than I, and who more faithless?)
Of eyes that vainly crave the light, of the objects mean, of the struggle ever renew'd,
Of the poor results of all, of the plodding and sordid crowds I see around me,
Of the empty and useless years of the rest, with the rest me intertwined,
The question, O me! so sad, recurring –­ What good amid these, O me, O life?

Answer:
That you are here – that life exists and identity,
That the powerful play goes on, and you may contribute a verse.


Traduzione: "O Me! O Vita!"

O me, o vita! domande come queste mi perseguitano:
degli infinti cortei d’infedeli, di città gremite di stolti,
di me stesso sempre a biasimare me stesso, (perché chi più stolto di me, chi di me più infedele?)
di occhi che invano anelano la luce, del significato delle cose, della lotta che sempre si rinnova,
degli infelici risultati di tutto, delle sordide folle ansimanti che vedo attorno a me,
degli anni inutili e vacui degli altri, e di me intrecciato con gli altri,
la domanda, ahimè! così triste, ricorrente – Cosa vi è di buono in tutto questo, o me, o vita?

Risposta:  
Che tu sei qui – che la vita esiste, e l'identità.
Che il potente spettacolo continua, e tu puoi contribuirvi con un verso.

venerdì 28 gennaio 2011

Il viaggio

Tra i pini già piantati,
anch’io sono vecchio:
sera d'autunno.
                               (Issa)


                        I

Novembre è un inganno solenne.
Pendici fiaccate dal vento
figure piatte e ondeggianti
rosseggiano.

Capita che il ricordo s’imbatta
come un vecchio delfino tra reti indurite
nel fiorire incessante di altre stagioni – colori sbocciati
di feroce innocenza, come un soffio sanguigno
vitale per tutte le piazze
i tragitti
le profondità.

      Un giorno era Aprile, nessuno lo nega.

      Capita – e chi è nato tardi
già arreso alle reti, rimpiange il contrasto
che mai l’ha sfiorato, l’ebbrezza del duello,
lo scontro che tempra uno spirito
su di sé curvo. Il cieco boato
d’un ideale che non spaventa
ma allinea i passi, snoda il gesto
spiana il dubbio.

Foglie secche sorvolano adesso gli scenari del mondo.


                        II

Foglie soltanto tra gli orizzonti conclusi.
Là dove tra i monti il fragore
si dilegua, tepori di foschia, echi di dèi
spodestati, attoniti, lontani
sciolgono.
     Si vorrebbe come d’estate
asciugarsi la fronte
dopo una corsa, ma la fatica è soltanto
il riflesso insensato
di una macera pozza, il frutto di un’azione
inerte.
          
            Molti s’immolano a idoli scempi.

Altri li invocano senza capire
per non sentire Novembre
annunciare la neve.

                       
                        III

Fiaccate dal vento rosseggiano pendici.

Potremo mai un giorno, come bianchi delfini
che annaspano da sempre, spezzare le reti
e riprendere il viaggio?


Salvatore Settis a Urbino: "Gregorio XIII era forse un comunista?"

Se preservare i beni pubblici (paesaggio, territorio e opere d'arte) a scapito dei beni privati è un qualcosa 'da comunisti', come sapientemente osserva quel gran dispensatore di verità ultime che è il Cavaliere, allora è giusto esserlo, e non c'è vergogna nel dichiararlo pubblicamente. L'eminente professore Salvatore Settis, giunto stamane in visita nella grigia Urbino, nota come papi, cardinali, signori, signoroni e signorotti dell'Italia feudale e rinascimentale abbiano cercato di preservare, con bolle e minacce più o meno desultorie, 'la bellezza e il decoro delle proprie città': cosa che evidentemente non rientra negli intenti degli zotici politicanti di questo tempo, dimentichi di storia e leggiadria italiana. Nonostante ciò, esistono ancora gli autocrati viagratici (Sua Eccellenza), i secessionisti guerrafondai (Bossi e compagnia), gli averroisti spinti o più comunemente detti 'aristotelici radicali' (Tremonti), i decabristi dislessici (Di Pietro), i qualunquisti arcaizzanti (Bersani), i 'neoteroi' arrivisti (Vendola), gli scioperanti della fame illusionisti (Pannella) e le semplici teste di cazzo (e qui la lista è davvero lunga). E' un vero peccato che nessuno di questi -isti sia stato in grado, nell'ultimo decennio, di riportare all'attenzione pubblica una questione fondamentale: la salvaguardia dei Beni Culturali e dell'Ambiente. Si parla volentieri del ponte sullo Stretto, il quale - è chiaro da tempo - non serve a nessuno, piuttosto che chiedersi come sia possibile che Pompei, patrimonio artistico mondiale, crolli impunemente sotto gli occhi di un popolo ignaro. 
Il paesaggio e le opere architettoniche non sono soltanto i 'luoghi' in cui si vive, ma sono anche i 'luoghi' grazie ai quali è offerta una vita spirituale più elevata e sincera, nel segno dell'amenità e della magnificenza (e Urbino ne è, o ne era, un ottimo esempio). Settis denuncia il degrado e l'abbandono di questi 'luoghi', ridotti ad ammassi di ferraglia nociva e brutta. Egli denuncia l'indifferenza della classe politica, impigliata in penosi trafiletti di potere, che non sa guardare all'avvenenza del nostro territorio, ma che è capace soltanto di distruggere.
Tuttavia Settis, al colmo dell'indignazione, riserva per noi altri una speranza, poiché, come diceva Seneca, "è capace di indignarsi solo chi è capace di sperare".

giovedì 27 gennaio 2011

La Giornata della "Resistenza"

Oggi ricorre la Giornata della Memoria per le vittime dell'olocausto. Riportiamo i più significativi testi in prosa e in poesia che ci sembra siano stati scritti sulla Shoah. Crediamo davvero che aver lasciato testimonianza di vita in quelle terribili condizioni sia stato un gesto di "Resistenza" mirabile e sui generis. Queste persone, deportati e non, hanno dimostrato e dimostrano tuttora al mondo incredulo che la bellezza può esistere anche nel marcio, mentre è impossibile il contrario. 

"Tutto comincia quando tutto pare incarbonirsi".

Dialettica negativa, Th. W. Adorno

Hitler ha imposto agli uomini nello stato della loro illibertà un nuovo imperativo categorico: organizzare il loro agire e pensare in modo che Auschwitz non si ripeta, non succeda niente di simile. Questo imperativo è tanto resistente alla sua fondazione quanto una volta la datità di quello kantiano.
[...].
Auschwitz ha dimostrato inconfutabilmente il fallimento della cultura. Il fatto che potesse succedere in mezzo a tutta la tradizione della filosofia, dell’arte e delle scienze illuministiche, dice molto di piú che esso, lo spirito, non sia riuscito a raggiungere e modificare gli uomini. In quelle regioni stesse con la loro pretesa enfatica di autarchia, sta di casa la non verità. Tutta la cultura dopo Auschwitz, compresa la critica urgente ad essa, è spazzatura. Poiché essa si è restaurata dopo quel che è successo nel suo paesaggio senza resistenza, è diventata completamente ideologia, quale potenzialmente era dopo che, in opposizione all’esistenza materiale, presunse di soffiarle la luce, offertale dalla divisione tra lavoro corporale e spirito. Chi parla per la conservazione della cultura radicalmente colpevole e miserevole diventa collaborazionista, mentre chi si nega alla cultura, favorisce immediatamente la barbarie, quale si è rivelata essere la cultura. Neppure il silenzio fa uscire dal circolo vizioso: esso razionalizza soltanto la propria incapacità soggettiva con lo stato di verità oggettiva e cosí la degrada ancora una volta a menzogna.

Dopo Auschwitz, Yehuda Amichai

Dopo Auschwitz non c’è teologia:
dai camini del Vaticano si leva fumo bianco,
segno che i cardinali hanno eletto il papa.
Dalle fornaci di Auschwitz si leva fumo nero,
segno che gli dei non hanno ancora deciso di eleggere
il popolo eletto.
Dopo Auschwitz non c’è teologia:
le cifre sugli avambracci dei prigionieri dello sterminio
sono i numeri telefonici di Dio
da cui non c’è risposta
e ora, a uno a uno, non sono più collegati.

Dopo Auschwitz c’è una nuova teologia:
gli ebrei morti nella Shoah
somigliano adesso al loro Dio
che non ha immagine corporea né corpo.
Essi non hanno immagine corporea né corpo.

Se questo è un uomo, Primo Levi
 
Voi che vivete sicuri
Nelle vostre tiepide case,
voi che trovate tornando a sera
Il cibo caldo e visi amici:
Considerate se questo è un uomo
Che lavora nel fango
Che non conosce pace
Che lotta per un pezzo di pane
Che muore per un sì o per un no.
Considerate se questa è una donna,
Senza capelli e senza nome
Senza più forza di ricordare
Vuoti gli occhi e freddo il grembo
Come una rana d'inverno.
Meditate che questo è stato:
Vi comando queste parole.
Scolpitele nel vostro cuore
Stando in casa andando per via,
Coricandovi alzandovi;
Ripetetele ai vostri figli.
O vi si sfaccia la casa,
La malattia vi impedisca,
I vostri nati torcano il viso da voi.


Fuga di morte, Paul Celan

Nero latte dell’alba lo beviamo la sera
lo beviamo al meriggio, al mattino, lo beviamo la notte
beviamo e beviamo
scaviamo una tomba nell’aria lì non si sta stretti

Nella casa c’è un uomo che gioca coi serpenti che scrive
che scrive in Germania la sera i tuoi capelli d’oro Margarete
lo scrive e va sulla soglia e brillano stelle e richiama i suoi mastini
e richiama i suoi ebrei uscite scavate una tomba nella terra
e comanda i suoi ebrei suonate che ora si balla

Nero latte dell’alba ti beviamo la notte
ti beviamo al mattino, al meriggio ti beviamo la sera
beviamo e beviamo
Nella casa c’è un uomo che gioca coi serpenti che scrive
che scrive in Germania la sera i tuoi capelli d’oro Margarete
i tuoi capelli di cenere Sulamith scaviamo una tomba nell’aria lì non si sta stretti

Egli urla forza voialtri dateci dentro scavate e voialtri cantate e suonate
egli estrae il ferro dalla cinghia lo agita i suoi occhi sono azzurri
vangate più a fondo voialtri e voialtri suonate che ancora si balli

Nero latte dell’alba ti beviamo la notte
ti beviamo al meriggio e al mattino ti beviamo la sera
beviamo e beviamo
nella casa c’è un uomo i tuoi capelli d’oro Margarete
i tuoi capelli di cenere Sulamith egli gioca coi serpenti
egli urla suonate la morte suonate più dolce la morte è un maestro tedesco
egli urla violini suonate più tetri e poi salirete come fumo nell’aria
e poi avrete una tomba nelle nubi lì non si sta stretti

Nero latte dell’alba ti beviamo la notte
ti beviamo al meriggio la morte è un maestro tedesco
ti beviamo la sera e al mattino beviamo e beviamo
la morte è un maestro tedesco il suo occhio è azzurro
egli ti centra col piombo ti centra con mira perfetta
nella casa c’è un uomo i tuoi capelli d’oro Margarete
egli aizza i suoi mastini su di noi ci dona una tomba nell’aria
egli gioca coi serpenti e sogna la morte è un maestro tedesco

i tuoi capelli d’oro Margarete
i tuoi capelli di cenere Sulamith

mercoledì 26 gennaio 2011

Oh cari (Giorgio Caproni)

Apparivano tutti
in trasparenza.
Tutti
mamma.
Tutti
nell'imprendibile essenza
dell'ombra.
Ma vivi.
Vivi dentro la morte
come i morti son vivi
nella vita.
Cercai
di contarli.
Il numero
si perdeva nel vuoto
come nel vento il numero
delle foglie.
Oh cari.
Oh odiosi.
Piansi
d'amore e di rabbia.
Pensai
alla mia mente accecata.
Chiusi la finestra.
Il cuore.
La porta.
A doppia mandata.

martedì 25 gennaio 2011

La verità, atto unico, scena IX-X

Scena nona
Detti, più Katerìna Ivànovna e Bàrin

Katerìna (con orrore). Ivàn, angelo mio, cosa ti succede?
Ivàn (debolissimo). Katerìna…
Katerìna (tenendo fra le lacrime il capo di Ivàn). Caro, sta arrivando il dottore… ti guarirà… sono certa che ti guarirà…
Ivàn. No, Katerìna. E’ giunta per me la fine… ma voglio dirti ancora qualcosa… (vaneggiando) ah, come vorrei continuare quei nostri discorsi nel verde, in mezzo alla natura aggressiva che noi insieme dominammo… Katerìna, voglio dirti qualcosa… qualcosa che mai ti ho detto…

Silenzio. Ivàn è sul punto di svenire per lo sforzo.

Katerìna (lagrimando). Ivàn, cosa vuoi dirmi? Ivàn…
Ivàn (dimenticando il precedente detto). Dov’è la bàrysnja? Dov’è la Verità?
Gentleman russo (ghignando). Ah, ah! Cerca ancora la tisica!
Ivàn. Stai ancora all’ombra? Vieni qui, canaglia, non occultarti più alla loro vista!
Katerìna (apprensiva). Con chi parli, caro?
Ivàn (ghignando). Con il niente!

Il bàrin cammina silenziosamente per la stanza.

Ivàn (rivolto al gentleman). Preparati, imbellettato dei miei stivali, preparati a prendere il mio posto! (Ridendo ad alta voce). Ah, ah! Non ci riuscirai! Ho ancora logica… sì, logica…

Si ode un rumore di tacchi. Dianzi all’uscio compare una figura.

Scena decima
Detti, più La Verità

Gentleman russo (con stupore artificioso). Parbleu! Eccoti accontentato, colombello. (A voce bassa). E’ più brutta di quanto raccontino i poeti e i filosofi.
La Verità. Buonasera, Karamàzov. Voi avete chiesto la mia mano al bàrin?
Ivàn. Sissignora. Vi attendo da molto tempo.
La Verità. Lo sapete, Ivàn, che sono tisica. Sono molto malata. Ma quanto più sembra che stia per morire, tanto più rinvigorisco, come la primavera dopo il grande e arido inverno. Siete così sicuro di volermi sposare?
Katerìna (con durezza). Bàrysnja, io amo Ivàn, e vi chiedo di rinunziare.
La Verità. Se egli vuole sposarmi, non potete impedirlo. Suvvia, signorina, fatevi da parte.

Ivàn scruta La Verità da cima a fondo. Il bàrin passeggia ancora.

Ivàn. Bàrysnja, non posso sposarvi.
La Verità (con ironia). Sono forse troppo brutta per voi?
Ivàn (con stanchezza). Io sono sul punto di morire, nonostante sia ancora sorretto da un po’ di raziocinio… ho la febbre celebrale…
La Verità (impassibile). Come vi è venuta, se posso saperlo?
Ivàn. Credevo che la vita non fosse giusta, ed ho cominciato a pensare. Ma ora che vi ho vista…
La Verità. Credete che sia giusta la vita?
Ivàn. No. Reputo soltanto che la vita sia quello che sia.

Ivàn sviene. Nella stanza c’è trambusto. Pian piano si riprende, ma è chiaro che la situazione è precipitata.

La Verità (impassibile). Ivàn, ancora un’ultima cosa. Se vi fosse concesso di vivere quel che basta per sposarvi, chiedereste ancora la mia mano?

Katerìna guarda Ivàn a fondo. Il bàrin passeggia ancora per la stanza. Il gentleman russo comincia a farsi strada tra le ombre.

Ivàn (stremato). No, bàrysnja, non chiederei la vostra mano. Se dovessi essere ad un bivio, tra Katerìna Ivànovna e voi, La Verità in persona, sceglierei Katerìna Ivànovna. Giacché voi siete la parola di ognuno, quel detto sempre chiamato in causa, e dunque usurato e tisico ad un tempo, mentre ella – ora ne sono certo – è la mia parola.
La Verità. E sia.

Ivàn muore. Katerìna si getta a terra dalla disperazione. Il gentleman russo si dilegua, mentre il bàrin passeggia ancora.

SIPARIO

lunedì 24 gennaio 2011

La verità, atto unico, scena VI-VIII

Scena sesta
Ivàn

Ivàn. Il vecchio cerca solo di confondermi le idee… (guardando un punto fisso della parete). Mi sto rincitrullendo per cosa? Per gli uomini? Per la vita? Per Katerìna Ivànovna? Per cosa? Tutti sono capaci di offrirmi i loro bei consigli prismatici. Persino il demonio!... che stupidità… hanno un bel parlare della vita! Ma Katerìna… (vaneggiando) perché non sei soltanto così sorridente e solare? Perché cambierai? Avrei accettato il mondo intero, se tu non avessi mutato quell’espressione, che mi impresse una gioia mistica fin dentro il midollo! Questo perché il principio fondamentale dell’essere è la décadence, la distruzione. Ti guasterai, Katerìna… e non parlo solo fisicamente… il che sarebbe accettabile… ma spiritualmente… spiritualmente… (crolla sulla sedia). Katerìna… Katerìna…

Si ode un rumore di passi. Il bàrin è nuovamente sull’uscio.

Scena settima
Ivàn, Bàrin

Bàrin (con aria triste). Povero Ivàn… che posso fare per te? Chiedi libertà, chiedi verità! Ma queste non sono le parole giuste. Stai impazzendo per una cosa che ti dovrebbe dare la vita, e così te la nega. Dai retta all’amichetto che ti viene a trovare? Eh? Ivàn, mi ascolti?
Ivàn (febbricitante). Bàrin, siete voi?
Bàrin. Sì, Karamàzov.
Ivàn. Bàrin, sto per morire?
Bàrin. Forse no, Karamàzov. Forse puoi ancora farcela.
Ivàn. Anche se morirò, sarò lucido…
Bàrin (sorridendo). Certamente.
Ivàn (scrutandolo). Bàrin, perché siete tornato?
Bàrin. Avevo dimenticato il cappello. Ecco, è lì sul tavolo. (Prende il cappello).
Ivàn. Bàrin…
Bàrin. Dimmi, Karamàzov…
Ivàn. Qual è la parola giusta?
Bàrin. E’ forse l’ultima parola che hai detto prima che entrassi.
Ivàn. Ma quella non è una parola!
Bàrin. Ivàn, ogni uomo, per continuare a vivere con vigore, ha bisogno della sua parola, che è sempre diversa dalle altre, perché entro di sé risuona e scintilla come un sole. Ogni uomo ha avuto la sua parola, la parola che lo ha accompagnato con dolcezza alla fine dei giorni… per Dante era Beatrice, per Puskin era la Madre Russia
Ivàn. Bàrin, e per Cristo qual era?
Bàrin (con dolcezza). Perché ora chiedi di lui?
Ivàn. Vi prego, bàrin, parlatemi di Cristo.
Bàrin. Ho sempre pensato che la parola di Cristo fosse sua madre. Anche loro camminavano felici, anche loro si abbracciavano, benché l’uno fosse il figlio di Dio e l’altra l’essere puro per eccellenza. Ma Cristo come sarebbe arrivato al Gòlgota, senza una parola che lo sostenesse, quando anche Dio padre l’aveva dimenticato? E come sarebbe potuto scendere dalla croce senza pronunziare quel nome che solo lo aveva sorretto? Sì, forse anche il figlio di Dio necessitava di una parola che non fosse Dio, per arrivare a Dio suo padre. Perché vedi, caro Ivàn, quando siamo trascesi in mondi che non ci appartengono, e di fronte ai quali non possiamo batterci con un sano senso di realtà, ci soccorre l’immagine di una persona a noi cara, che ci distoglie da quel sentiero di solitudine, da quel Getsemani per riportarci alle cose vere. L’immagine così si fa parola. (Silenzio). Ivàn, qual è la tua parola?
Ivàn. La mia parola è forse l’ultima che ho detto prima che voi entraste.
Bàrin. E quella sarà la parola giusta.

I due si guardano intensamente. Ivàn continua il vaneggio contorcendosi sulla sedia. Il bàrin lo ascolta in silenzio.

Ivàn. Bàrin, ho disprezzato molto la vita che mi è stata data; e di questo ho molto orrore.
Bàrin. Io ti dico, Ivàn, che così l’hai amata più degli altri. Non essere severo con te stesso. Hai fatto ciò che hai potuto per vivere dignitosamente e senza menzogna, e di questo non si dimenticherà…
Ivàn. Chi non dimenticherà?
Bàrin. Colui al quale hai dato il tuo cuore senza saperlo.
Ivàn (franto). Padrone, non ditemi quei discorsi di speranza, giacché essi non sono per me. Lo sapete bene che mi tocca l’oblio… ma io avrei voluto soltanto vivere nella chiarezza… e così non è stato…
Bàrin. Karamàzov, non è mai troppo tardi per tener testa alle contraddizioni del mondo. Ce la farai, se vorrai. Ma dipende da te. Quanto alla chiarezza: essa verrà, ma non quando vuoi tu. Verrà perché avrai sperato nella sua venuta, non perché l’avrai decisa.
Ivàn (irritato). Nossignore! Ora sarà la volta dell’ospite…
Bàrin. Quel gentiluomo imbellettato che viene a trovarti? E’ solo una tua stupida fantasia… presta ascolto alla tua parola, ed egli sparirà miseramente dalla tua vista.

Silenzio protratto. Ivàn si contorce sulla sedia. Ormai è preda della febbre celebrale. Il bàrin si precipita a chiamare un dottore. Prima di uscire di scena si volta in direzione di Ivàn.

Ivàn (con sforzo). Bàrin, dove vai? Sto forse per morire?
Bàrin (tristemente). Non morirai prima di aver visto la verità.  

Esce. Sullo sfondo della scena appare il gentleman russo.

Scena ottava
Ivàn, Gentleman russo

Ivàn (scorgendo un’ombra). Sei tu? Sei tornato finalmente, canaglia… sei qui per succhiarmi la vita, parassita? (Ghignando). Vieni pure. Non rimanere nell’ombra, vieni qui a bere dal mio calice. Non ho certo paura della tua penosa nullità.
Gentleman russo (sorridendo). Colombello, hai scelto tu di lasciarmi il ‘posto ontico’, come direbbe qualche filosofo. (Silenzio). Allora? Il vecchio non ti ha convinto con la sua storiella delle parole?
Ivàn (calmo). Come ti è sembrata?
Gentleman russo. Mah, un tantinello retorica e banale come iustificatio vitae per un filosofo del tuo calibro. Il vecchio la sa lunga… ma ormai è bell’è stagionato… eh, eh! (Silenzio). Piuttosto: come stai, colombello?
Ivàn. Male, grazie.
Gentleman russo. Chi sposerai, dunque?
Ivàn. Sai bene che non sposerò nessuno!
Gentleman russo (fintamente sorpreso). E perché di grazia?
Ivàn (irritato). Canaglia, lo sai bene. Sono un morto che cammina… ma come vedi ragiono ancora… ti è andata male stavolta, vigliacco, non ti incarnerai finché possiedo anche un granello raziocinio, e conto di averlo fino all’ultimo…
Gentleman russo. Questo lo vedremo, colombello.
Ivàn. Su, facciamo a pugni allora!
Gentleman russo (ridendo a crepapelle). Ah, ah! Non fare lo sciocchino, caro il mio filosofo.

Si ode un rumore di passi. Entra di corsa Katerìna Ivànovna, seguita a ruota dal bàrin, che rimarrà in silenzio per tutto il tempo.

sabato 22 gennaio 2011

Cronache italiote: il secondo ‘tragico’ Berlusconi

Le risate amare, lo si sa, celano sempre un fondo di assoluta tragicità. Certo, fa molto ridere che un settantenne multimiliardario, Presidente del Consiglio dei Ministri di un paese chiamato ‘Italia’, abbia costituito un aerobico e minorenne harem (ovvero un ‘puttanaio’, per chi non sapesse il significato della parola) nella sua sfarzosa villa di Arcore. E fa ancora più ridere leggere sui giornali i particolari piccanti delle alte disquisizioni telefoniche tra il magnate e le mignotte, degne di un politico del calibro di un Pericle o di un Cicerone. Sembra davvero che il problema più grande da risolvere per il nostro Presidente sia l’atavica e sempre inquietante scelta tra il podice ben tornito ma aguzzo e il deretano tondo tondo e sporgente. Mentre ci sono soldati in ‘missione di pace’ che muoiono in Afghanistan come banditi; mentre le giovani famiglie di questi soldati sono spezzate irrimediabilmente; mentre la crisi economica ci sommerge; mentre la cultura del Paese è già sommersa dal letame televisivo; mentre i media ci perforano la coscienza; mentre la poesia muore. Ma ciò che duole ancor di più, e sulla qual cosa noi tutti dovremmo riflettere, è il costante svilimento della dignità delle donne: e non parlo solo di quelle sguattere incartapecorite nell’animo che sgambettano senza pudore in televisione. Parlo delle donne ‘vere’ che non cedono alle lusinghe milionarie di un don Giovanni decaduto, omeopatico, abile frequentatore di marche di viagra, sulla stentata via del rincoglionimento perpetuo. E’ mai possibile che la opinio communis debba, giocoforza, tacciare la donna di povertà intellettuale, perché, dopo quarant’anni dall’affrancamento sessantottino, continua ancora a patteggiare la propria praesentia nel cosiddetto ‘mondo maschile’? Non c’è molto da ridere, allora. Anzi, tutto ciò pare oltremodo tragico.
E’ chiaro che c’è da ribellarsi ad un tale status delle cose. Ma quale rivolta è giusta? Spero che le donne abbiano in serbo qualcosa di nuovo, e che ancora ci sfugge; e che questa novità, come già ho detto, sia data non dal compromesso, ma dalla loro stessa, ineffabile bellezza.

venerdì 21 gennaio 2011

La verità, atto unico, scena III-V

Scena terza
Ivàn, Gentleman russo

Gentleman russo (in piedi). Se posso permettermi l’hai trattata un tantino male.
Ivàn. Zitto, per favore.
Gentleman russo. Ma quando capirai che lei ti ama realmente?
Ivàn. Non dovresti convincermi del contrario?
Gentleman russo. Caro colombello, c’è un punto in cui quanto vi è di esterno non più nulla contro la coscienza; questa è ciò che voi chiamate libertà. Per quanto io possa essere convincente, tuttavia non ti avrò convinto del tutto, qualsiasi cosa dica, pro o contro di lei, rimarrà una parte di te ancora inesplorata. Il giudizio spetta a te. L’ultima parola è la tua. Ed ora siamo ad un punto tale che qualsiasi mia propaganda è irrilevante: sceglierai senza condizionamenti. Sei libero, e tuttavia ora non vorrei essere al tuo posto…
Ivàn. Sono libero perché i tuoi condizionamenti non sono mai esistiti, dato che tu non esisti.
Gentleman russo. Pensala come vuoi. Allora cosa sceglierai?
Ivàn. Non devo render conto a te delle mie scelte.
Gentleman russo. Ma lei ti ama, santo cielo! Lo vuoi capire, filosofo decadente! E’ incredibile quanto tu sia intelligente, e quanto al contempo non capisca nulla di sentimenti!
Ivàn (alzandosi dalla sedia). Parla il gigolò! Se fossi incarnato, capiresti bene le menzogne che gli uomini rivelano a se stessi pur di sentirsi vivi. Sono patetici… no, io non appartengo a questa schiera. Katerìna Ivànovna non ama me, bensì ciò che potrei fare per lei in un ipotetico futuro.
Gentleman russo. Ebbene, quello non è forse un tipo di amore?
Ivàn. Non credo proprio. Lei, ingenua, pensa che saremmo felici, celando miseramente gli antichi rancori che ci inaridiscono… pensa alla famiglia, ad andare avanti… ma per che cosa? Nel nome di quale autorità? Nessuno riesce a spiegare il perché dello status delle cose. Dicono: « Esse sono così. E così bisogna fare ». Ma chi stabilisce che questa sia la vita? Katerìna Ivànovna non capisce queste istanze perché è una donna, e non è fornita di pensiero autonomo.
Gentleman russo. Francamente non le capisco neanch’io.
Ivàn. Tu non esisti, infatti.
Gentleman russo. Siamo d’accordo. Ed è per questo che ti dirò la parola definitiva sull’essere.
Ivàn. Te l’ha forse suggerita quel simpaticone di Dio? Ah, scusa. Neanche Lui esiste.
Gentleman russo. Ivàn! Ascoltami, ti prego. Ora ti parlo seriamente. Ti ho a cuore, e per questo desidero la tua salvezza. (Ghignando, poi serio. Pausa). L’essere è. E questo basta. Che esista un dio che imprima un senso o no, ha poca importanza, credimi. Il caso, la contingenza, il cielo, chiamali come vuoi, ti hanno dato l’opportunità di vivere con una donna che ti ama ed avere una famiglia, a cui possa insegnare il tuo mirabile spirito puro. Non sprecarla, Ivàn. La vita che hai davanti, ma che ti precede, darà da sola quel giorno la verità. (Ivàn abbassa il capo. Il gentleman rimane in silenzio, poi riprende la parola). La vita stessa è la verità… e non quella rachitica donna che attendi. (Gridando). Esci e va’ da Katerìna, e dille che sei pronto a sposarla! (Con voce tremante). O sarò io a vivere al tuo posto… (Silenzio protratto).
Ivàn (prostrato). Perché ora sei accomondante?
Gentleman russo. Te l’ho detto: perché ti ho a cuore!
Ivàn (irritato). Piantala!
Gentleman russo. Basta. Io vado, mi hai stufato. Ma bada, Ivàn… tornerò a guastarti il silenzio, tornerò ancora… e sarà l’ultima volta.
Ivàn (duro). Fa’ ciò che vuoi, canaglia… non ho certo paura di te!
Gentleman russo (ghignando). Addio, colombello!

Esce. Ivàn è solo. Crolla sulla sedia.

Scena quarta
Ivàn

Ivàn (camminando nervosamente per la izbà). Che fare? Persino il demonio mi chiede di sposare Katerìna Ivànovna, persino lui! Che abbia stretto un patto col diavolo, quell’angelica donna? (Irritato con sé). Puah! Che sciocchi pensieri! Angelica! Via, donne e uomini sono soltanto bestie, penose bestie. Lei non ha compreso la terribile verità… Potrei vivere soltanto con la figlia del bàrin. E’ brutta sì, ma io e lei non ci inganneremo, e potremo respirare a fondo la dolce aria della sera. (Con aria sognante). Sì, vivremo senza paraocchi, ma con la verità! Perché lei stessa è Verità.
Che importa se è brutta, e il suo volto non mi dice nulla? Devo amare ciò che lei porta…

Si ode un rumore di passi. Ivàn tace. Dinanzi all’uscio si intravede il bàrin in persona.

Scena quinta
Ivàn, Bàrin

Ivàn (con acribia). Salve mio bàrin! Vi prego, sedete. Vi preparo un tè?
Bàrin (poggiando il cappello sul tavolo, e poi sedendosi). Comodo, Karamàzov, comodo. Non sono qui per farti visita. Ti devo parlare.

Ivàn sbarra gli occhi. Silenzio.

Ivàn. Di vostra figlia?
Bàrin. Sempre arguto il nostro Karamàzov!

I due si guardano a fondo.

Bàrin. Allora, Karamàzov… perché rinunci a sposare la bella Katerìna Ivànovna, che ti ama in maniera quasi viscerale e di cui certamente anche tu sei innamorato?
Ivàn (deciso). Per sposare vostra figlia, padrone.
Bàrin. Ti interessano i suoi soldi o l’affrancamento dalla condizione servile?
Ivàn (visibilmente irritato). Nessuno dei due motivi, bàrin.
Bàrin. Su, Ivàn, non ti offendere. Devo essere certo delle tue intenzioni, altrimenti…
Ivàn (interrompendolo). Altrimenti nulla! Bàrin, vi chiedo formalmente la mano di vostra figlia. Abbiate l’accortezza di rispondermi ora: sì o no.
Bàrin. Calmo, Karamàzov… devi ancora spiegarmi perché rinunci alla leggiadra Katerìna.
Ivàn. Ve l’ho detto: per vostra figlia.
Bàrin (ghignando). Ah! Il fatto che tu voglia la mia piccola bàrysnja non giustifica il non volerne sapere di Katerìna. Tu la ami, ma non la ami.

Ivàn rimane in silenzio. Poi scruta il bàrin.

Ivàn. Di fatti, noi non ci amiamo.
Bàrin. Come puoi dirlo?
Ivàn. Vi farò un esempio, bàrin, un solo esempio, il più piccolo, il più insignificante. Ma basterà. C’era un uomo che diceva di amare sua moglie. Quest’ultima, stroncata da una malattia incurabile, in pochi mesi – negli anni più felici della loro vita – morì. E l’uomo che fece?
Bàrin. Attese tutta la sua vita per rivederla?
Ivàn (ghignando). Ah, come siete poetico! Peccato che il nostro uomo non lo fosse… si risposò dopo due mesi. E l’amore precedente?
Bàrin. D’accordo. Ma questo che inerenza ha con la tua Katerìna?
Ivàn. All’apparenza alcuna.

Silenzio protratto.

Bàrin. Su, Ivàn, non farti strappare le parole di bocca. (Ivàn, barcollante per un improvviso giramento di testa, siede. Reclina il capo). Ivàn!
Ivàn (con voce piatta). Non è nulla. E’ solo un po’ di febbre, che mi succhia l’anima… ah, lo sento… il verme sta tornando, e questa volta si prenderà la mia vita…
Bàrin (atterrito). Ivàn, sei molto malato. Dimmi perché non vuoi sposare Katerìna, su.
Ivàn (vaneggiando). Ah, l’ho dimenticato… lei, un angelo bianco, in vesti dorate, torna con l’essere… ma che stupidi pensieri… è tutto così maledettamente stupido… nessuno ci crederà… nessuno…
Bàrin (amareggiato). Ivàn, tu hai paura di amare!
Ivàn (destandosi un poco dal torpore). Mi siete nemico anche voi! Cosa volete che la sposi, come vuole il diavolo?
Bàrin. Non voglio niente, Ivàn. Sarai tu a scegliere. E’ perfettamente uguale, secondo il mio pensiero, se sposi Katerìna o mia figlia. Karamàzov, è il principio che ti guida… che cosa ottusa …
Ivàn. Ecco un altro filosofo! Che devo fare allora?
Bàrin. Sei libero di scegliere.
Ivàn (inquieto). Ne ho abbastanza della vostra libertà da padrone!
Bàrin (calmo). Se non ti avessi concesso libertà di scelta, mi avresti certamente ucciso.
Ivàn. Ma ora non posso scegliere, se non sbagliando. Ora dovreste costringermi…
Bàrin. Preferisci un tiranno ad un padrone illuminato?
Ivàn (prostrato). Io, io non voglio l’effimero, bàrin… non cerco le cose che finiranno miseramente, non cerco persone che siano sostituite da altre, come animali da compagnia, giacché di questo si tratta… io cerco l’essenziale… e vostra figlia, la bàrysnja, è la Verità. Non vi nascondo che adesso non la amo. Ma l’amerò, un giorno. E’ rachitica, è bruttina e certamente ha un cattivo carattere, ma l’amerò… per ciò che porta con sé…

Silenzio. Il bàrin si alza dalla sedia. Cammina per l’izbà.

Bàrin. Ebbene, la condurrò qui da te. Da un po’ l’aspettavi. Le ho sempre negato di farti visita, ma ora te la porterò, e forse vi sposerete. Troveremo il modo di accomodare le cose. Lavorerai con me, d’altronde il cervello non ti manca, lascerai questa scarna izbà. Ti darò una casa come si deve.

Silenzio protratto. Il bàrin rimane perplesso. Ivàn lo scruta.

Ivàn. Grazie, padrone, per la vostra disponibilità.
Bàrin (sempre più perplesso). Di nulla.
Ivàn. A cosa state pensando?
Bàrin (guardando l’orologio). Ivàn, ora debbo andare, s’è fatto tardi. Il prima possibile condurrò da te mia figlia, così avrete tempo per parlare delle vostre vite, dei vostri interessi.
Ivàn. Grazie.

Il bàrin si avvia verso l’uscio dell’izbà. Poi guarda indietro.

Bàrin. Karamàzov!
Ivàn (stancamente). Cosa desiderate, bàrin?
Bàrin. Stai molto attento… cosa ti dice che quella pura bellezza che hai scorto in Katerìna Ivànovna, quel terribile tremore che ti scuote quando guardi la foto, non sia anch’essa una verità?

Ivàn rimane in silenzio. Il bàrin esce. 

mercoledì 19 gennaio 2011

La verità, atto unico, scena II

Scena seconda
Detti, più Katerìna Ivànovna

Ivàn (guardandola stupita). Ah, sei tu.
Katerìna (con dolcezza). Aspettavi qualcun altro? Se vuoi, vado…
Ivàn. No, siedi. Siedi, ti prego. (Silenzio. La guarda intensamente). Vuoi una tazza di tè?
Katerìna (siede). Sì, grazie. (Silenzio. Katerìna vorrebbe dire qualcosa, ma tace. Ivàn versa, pensieroso, il tè. Poi si gira verso i fornelli. Attende che Katerìna parli. Silenzio).
Ivàn (senza guardarla). Sei venuta per dirmi qualcosa?
Katerìna (fintamente distratta). No, nulla in particolare. Sono venuta per sapere come stavi.
Ivàn. Bene, grazie.

Silenzio protratto. I due si scrutano vicendevolmente.

Katerìna. Ivàn Fedorovic, saresti così gentile da sederti? Mi inquieti, rimanendo in piedi, con quello sguardo.
Ivàn. Non posso.
Katerìna. Perché non puoi?
Ivàn (agitato). Non vedi… c’è lui
Katerìna (tesa). Lui chi?
Ivàn. Quella canaglia che viene sempre a trovarmi, senza entrare dall’ingresso. Non lo vedi? (Indicando verso il gentleman). Non lo vedi? E’ ridicolo: un niente che viene qui a filosofeggiare, ad usurpare il mio posto, la mia vita. Ah, lui vuole incarnarsi! Che si incarni allora: che mi interessa? Io voglio soltanto sparire! (Girovagando nervoso per la stanza). Con quella faccia da ebete, viene qui a filosofeggiare: fosse almeno bello! Imbellettato da capo a piedi, con il suo schifoso grugno! Ah, ah… che pena! Dice: io voglio, io voglio. Da quando gli hanno messo in testa l’idea della volontà di potenza, non mi dà tregua. « Potere è volere ». Lui esiste in potenza, quindi vuole. E se l’esistenza è soltanto una questione di volontà di potenza, come dice qualche stupido filosofo di questi tempi… egli esiste, perché vuole! Che imbecille!... è tutto così terribilmente  ridicolo, Katerìna Ivànovna… (con accento febbrile). Anche tu, mia cara. Guarda come ti sei vestita… per cosa, poi?
Katerìna (per tutto il discorso, guardando Ivàn con ansia, poi quasi piangendo). Che stai farneticando? Sei pallido, sei malato… ora mi offendi anche: non sei più come un tempo, quando mi guardavi e tacevi. E quel tacere diceva tutto. Chi è questa persona di cui parli? In questa stanza non c’è nessuno oltre che noi due…
Ivàn (ghignando). Ma non l’hai ancora capito? « Il niente si è fatto carne, ed è venuto ad abitare in mezzo a noi ».

Ivàn si dirige verso il gentleman, che fino ad allora era rimasto seduto, in silenzio, a scrutare. Il gentleman capisce l’intenzione di Ivàn e si alza, impaurito. Ivàn butta la sedia per l’aria.

Ivàn (furioso). Via di qui, canaglia! Via! Devo parlare da solo con Katerìna Ivànovna… via di qui, sennò ti sbrano con le mie mani…
Gentleman russo (calmo). Sai bene che non puoi… io devo restare! Mi metto in un angolino, se ti crea meno problemi… non mi interessa certo dei tuoi discorsi con quella smorfiosa…
Ivàn. Parla con rispetto, imbecille!
Gentleman russo. Va bene, va bene! Ma ora calmati. Non vorrai che ti ritorni la febbre… Vado in fondo alla stanza, là! Non ascolterò nulla. D’accordo?

Il gentleman si avvia verso il fondo della scena. Ivàn lo scruta mentre cammina. Poi si siede al suo posto.

Katerìna. Perché hai atteso tanto a sederti, Ivàn Fedorovic? Ormai parli da solo…
Ivàn. Ora lascia stare… parliamo di cose serie: perché sei venuta qui?
Katerìna (fintamente distratta). E’ solo una visita… te l’ho detto.
Ivàn (ridendo dolcemente). Oh Katja, come sei pura, non riesci proprio a mentire. Tu sei venuta per dirmi qualcosa, qualcosa d’importante, ma non hai il coraggio…
Katerìna. Ivàn, sono seriamente preoccupata per te: parli da solo, ti comporti in modo strano, vedi spettri…
Ivàn (calmo). E’ tutto a causa della febbre, Katja. Ma sta’ tranquilla: tornerò sano... è solo un periodo di malattia, poi tutto sarà come prima. (Cercando di cambiare discorso). Allora, come va con i soldi? Ne hai bisogno? Ho giusto un po’ di rubli messi da parte…
Katerìna (interrompendolo). Ivàn, non sono venuta per parlare di soldi…
Ivàn. Ah, ecco: volevo ben dire.
Katerìna (in trepidazione). Ivàn… Ivàn… perché non ci sposiamo?

Ivàn ride ad alta voce. Poi tace. I due si guardano intensamente.

Ivàn. Mia dolce Katja! Noi non ci sposeremo.
Katerìna (delusa). Perché Ivàn Fedorovic? Voi una volta mi diceste che ero la vostra unica risorsa contro il niente, sì proprio voi, Ivàn Fedorovic. Diceste che al mio arrivo tutte lusinghe del niente sparivano… e voi eravate salvo! Perché ora non pensate più questo? Perché non dite più che io sono la vostra obiezione… l’unica vostra obiezione?
Ivàn (stanco). Katerìna, avete preso a darmi del voi. Siamo dunque degli estranei?
Katerìna. Finché non risponderete, sì.
Ivàn (a voce bassa). Stupida donna!
Katerìna. Ecco ora mi insultate anche… Certo: sono proprio una stupida per pensare che uno dal cuore di pietra come il vostro potesse stare a sentire i sogni di una povera fanciulla…
Ivàn (pentito). No, Katerìna, non dite così… voi siete perfetta. Il problema è il mio. E’ come avete detto voi: ho un cuore di pietra. Tuttavia, tra i sedimenti di questa pietra antica vi è ancora un posto per voi. E’ proprio perché sento di volervi bene, che non accetto di sposarvi. E’ vero voi eravate, e lo sarete per sempre un’obiezione contro i miei cattivi pensieri. E di fatti, quel buffone che non vedete, a sua volta non può vedervi… perché contro l’evidenza del vostro viso, Katerìna, egli può ritornare solo donde è venuto, è impotente, tace. Ma tutto questo ormai non mi basta più. E poi il matrimonio rovinerebbe tutto, credetemi!
Katerìna. Vivere con la persona che si ama è forse una rovina?
Ivàn. In un certo senso sì.
Katerìna. La vera rovina è vivere senza poter più amare, Ivàn Fedorovic!
Ivàn. Ma chi ama la verità è condannato a dis-amare il resto.
Katerìna. Dunque voi amate la bàrysnja Verità, figlia del vostro padrone?
Ivàn. Può darsi, Katerìna Ivànovna. (Sorridendo). Certo è che, se noi ci sposassimo, voi non sareste più la mia bellissima obiezione! Questo perché – l’ho compreso da pochi giorni – io vi ho idealizzato. Tutta colpa di quella maledetta foto, Katerìna Ivànovna!
Katerìna. Quale foto?
Ivàn (sorridendo). La foto che voi mi deste il giorno prima che partissi per Mosca. La fissai per tutto il viaggio. Fu quella foto che mi diede le mie poche armi contro il niente. Non c’è parola per dire quanto vi abbia amato in quella foto, e cosa io abbia visto in voi. Tutta la tensione dell’essere era riversata nel piccolo, impercettibile segmento di sforzo che faceva il vostro labbro per non sorridere. Tutto era lì, conscio della propria essenza: era come se ci fosse una pienezza di vita… ed io la guardavo e riguardavo con stupore, promettendo a me stesso che vi avrei sposato per godere ogni giorno di tale pienezza… ma ora con amarezza comprendo che non è così, che quella era solo una foto, e che la vita è fatta di troppe assenze per essere colmata da una sola presenza.
Katerìna (con durezza). Dunque io non sarei all’altezza della mia foto? E’ questo che volevate dire?
Ivàn. Oh, no! Non volevo offendervi… tuttavia non posso tenervi nascosta quest’altra mia sensazione. L’altro giorno, quando siete venuta a trovarmi, come oggi, eravate seduta su quella sedia. Io vi scrutavo perché cercavo in modo spasmodico quella bellezza… ad un certo punto vi siete alzata per preparare il tè: io vedevo le vostre mani, la vostra pelle, sentivo il vostro respiro… tutto mi pareva così ripugnante (ghignando). Sì, ripugnante! Poi inavvertitamente avete fatto cadere il cucchiaio a terra, ed io vi ho vista chiaramente mentre vi calavate; non riuscivo a sopportare il corpicino rannicchiato… lo sapete, Katerìna Ivànovna, che stavo per uccidervi?… se avessi avuto una scure sottomano, senz’altro vi avrei colpita. Guardate come vi amo: siete ancora convinta di volermi sposare? (Ghignando). Io potrei uccidervi… magari nel sonno, sì, potrei strangolarvi perché il vostro respiro mi ripugnerebbe… E se avessimo dei figli, potrei anche massacrarli… (Gridando). Allora, volete ancora sposarmi?
Katerìna (con orrore). Ivàn, sei terribilmente malato! Cosa vai dicendo? Come ti sei ridotto così? Noi siamo stati felici insieme, e lo saremmo stati ancora per molto, se avessi distolto le attenzioni da te stesso…
Ivàn (infuriato). Non cercate di sviare il discorso! Volete ancora sposarmi, dopo quello che vi ho detto, si o no?
Katerìna (in lacrime). Sì.

Ivàn si alza dalla sedia di scatto. Katerìna si mette le mani sul viso.

Ivàn (gridando). Io non vi amo! E neanche voi mi amate! Adesso cercate di essere la donna virtuosa che si fa carico di un malato, pur di tener fede al proprio spirito di dedizione… mentre io ho amato la vostra foto, non voi. Sì, io amo il vostro ideale, ciò che siete stata per un secondo… e proprio perché voi, in quel secondo, siete stata tutto, non potrei sopportare di convivere con la pochezza del vostro essere di sempre.

Katerìna si alza, e fugge dalla stanza. Ivàn, stremato, si muove dapprima a tentoni, poi crolla sulla sedia. Il gentleman russo riemerge dall’ombra. Silenzio. 

lunedì 17 gennaio 2011

La verità, atto unico, scena I

LA VERITA



PERSONAGGI

Ivàn Fedorovic Karamàzov

Un gentleman russo

Katerìna Ivànovna

Un bàrin, padrone di Ivàn

La Verità, figlia del bàrin

SCENA

Siamo in Russia, durante gli anni in cui Dostoevskij scrive “I fratelli Karamàzov”. La scena rappresenta l’andito di una izbà. L’arredamento della stanza è essenziale: un tavolino, due sedie di legno, un fornello a spirito per preparare il tè. Ivàn Karamàzov è servo di un bàrin del luogo: Ivàn è affetto da febbre celebrale. Egli attende la visita della bàrysnja Verità, figlia del suo padrone. Ella è assai brutta: tisica, lineamenti spigolosi, poco curata nel vestire e nella toilette. Katerìna Ivànovna, di condizione servile, invece, è bellissima: semplice e raffinata.

 Atto unico

Scena prima
Ivàn, Gentleman russo

L’acqua nel samovàr bolle. Ivàn è in piedi. Il gentleman russo, seduto sulla sedia, con le gambe accavallate, lo scruta incuriosito. Silenzio. Ivàn è pensieroso.

Ivàn (irritato). Cos’hai da guardare, canaglia?
Gentleman russo. Sono contento che hai incominciato a darmi del tu.
Ivàn. Imbecille. Dovrei darti del voi? Senti, ora sono di buon umore… solo che ho un gran mal di testa… quindi per favore, non incominciare a filosofeggiare, perché ne ho abbastanza: sei un parassita? Spettegola. Ma cosa dico? Tu non esisti: sei me, un mio sogno, una mia proiezione.
Gentleman russo (ridacchiando). Ah, ah!
Ivàn. Cosa ridi, imbecille?
Gentleman russo. Ti ringrazio per la tua consueta stima nei miei confronti. Sei sempre molto gentile. Ridevo perché insisti: io sono te, tu stesso parli e non io… bla, bla, bla… D’accordo: lo vuoi sapere? Non esisto. Sono un tuo delirio. Che amarezza! (Con sguardo e tono sognante). Ah, io vorrei esistere! Amo tutto di voi: la vostra arte, le vostre imprese, le vostre miserie. Ma più di tutto: il vostro realismo. Siete così tecnici, così pragmatici. Io invece: evanescenza pura… (guarda Ivàn che fissa il vuoto). Che hai, colombello?
Ivàn. Perché ora vuoi convincermi che non esisti? Tu sei qui per affermare la mia pazzia… perché, canaglia?
Gentleman russo. Ah, ma allora sei incontentabile! Tuttavia… ho cambiato metodo… poi te lo spiego. Parliamo di cose banali, suvvia! Almeno, puoi riposare la tua grande mente…
Ivàn (stanco). Di cosa parliamo?
Gentleman russo. Della barysnja, per esempio. Bruttina, eh? Ricca, ma bruttina. E poi… non si cura per niente… puzza, per Dio! (Ridacchiando). E’ anche tisica, povero babbo! Può darla in isposa soltanto ad un servo, caro colombello.
Ivàn (irritato). Vorresti insinuare che la darà in isposa a me, babbeo?
Gentleman russo. Ma tu non sei un servo: hai un animo nobilissimo, quasi come il mio. E comunque la darà in isposa a te. La stai aspettando? Verrà a chiedere la tua mano. Lei è molto colta, e ama le persone intelligenti, di qualsiasi rango esse siano. Occhio, colombello, oggi chiederà la tua mano.
Ivàn. Che somaro!
Gentleman russo. Non la vuoi? Non ti piace? (Con l’atteggiamento di chi si ricorda all’improvviso di qualcosa). Ah, sì! Che sciocco che sono! Tu ami la bellezza.
Ivàn. Menti! Credi che sia così volgare?
Gentleman russo. Scusa se lo dico, ma la tua condizione servile imporrà pur qualcosa. Sei intelligente, colto… e tuttavia volgare! Non prenderla come un’offesa, colombello! I tuoi migliori sentimenti ti sono vietati a causa della tua condizione sociale.
Ivàn. Smettila con la filosofia!

Ivàn prepara il tè. Lo serve in tavola.

Ivàn. Vuoi una tazza?
Gentleman russo. Oh, gradirei molto! Ma non posso. Sai, non esisto. Non vorrai sporcare il pavimento?
Ivàn. Credi di fregarmi con questi trucchetti? Tu vuoi farmi soltanto impazzire, ma non ci riuscirai. Mi basta dimostrare che non esisti… e puff! Sparirai, vigliacco! Tra un po’ verrà la barysnja… vedremo se cincischierai ancora alle mie spalle. (Ride sorseggiando il tè).
Gentleman russo. Potresti sempre impazzire, prima del suo arrivo…
Ivàn. Piantala. Io ti ho creato, io ti distruggo.
Gentleman russo (con pacatezza). Ci ho ripensato… potresti porgermi una tazza di tè?
Ivàn. No.

Silenzio. Ivàn sorseggia nervoso.

 Ivàn (calmo). Dimmi un po’, canaglia. Dio esiste?
Gentleman russo. Francamente non lo so. Ma ho sentito di un tale che diceva: « Tutto è permesso ». Sì, un filosofo. Sostiene che ogni uomo debba rinnegare Dio, senza eccezione. In tal modo tutta l’etica precedente crollerà e con essa l’uomo antico. Egli, con scienza e volontà, trionferà sulla natura. E proverà un’ebbrezza tale da soppiantare ogni speranza ultraterrena. Egli vivrà l’attimo, l’attimo infinito della vita. E quella frazione di secondo, quel battito inatteso e assurdo alimenterà la fiamma dell’amore verso l’esistenza. L’uomo basterà a se stesso. Il problema, sostiene sempre il nostro filosofo, è la stupidità umana. Questa epoca non verrà neppure tra mille anni per colpa di canaglie, di farabutti… Eppure, chi già conosce queste considerazioni, chi è al di sopra degli uomini, può già sostituire Dio. In questo senso, per lui, « tutto è permesso ». Anche l’antropofagia! Ah, ah!

Ivàn infuriato per la vergogna, prende la tazzina vuota e gliela tira addosso. Il gentleman la schiva.

Ivàn (calmo). Ti sei smascherato da solo. No, tu non esisti di per te stesso. Tu sei me, niente più! Stai parlando di me, e non dirai mai nulla che io già non sappia. Sei solo una sciocchezza.
Gentleman russo. Mi lusinga il fatto che tu mi abbia tirato la tazzina. Significa che mi tratti come una realtà. Tuttavia, ti pregherei di non farlo più, perché ultimamente ho i reumatismi.
Ivàn (ridendo apertamente). Ah, ah! Il diavolo con i reumatismi!
Gentleman russo. Il tuo problema è che ti vergogni. Ti vergogni del fatto che io possa ripetere ad alta voce i tuoi pensieri, anche quelli più ridicoli. Ti aspetti da me magnificenza e sublimità. Ma io ho poco da offrirti…
Ivàn. Non filosofeggiare, buffone!
Gentleman russo. Caro il mio colombello, non sarò io a farti impazzire, ma la tua giustizia!
Ivàn (inquieto). Cosa vuoi dire?
Gentleman russo (con aria di sufficienza). Ah… niente.
Ivàn (gridando). Parla, vigliacco!
Gentleman russo. Tu sei giusto, colombello! Sei la persona con più grande integrità morale che abbia mai conosciuto. Le incertezze, l’inquietudine, la lotta per la fede sono, per un uomo di coscienza come te, un’afflizione tale che sarebbe meglio non essere nati. Perché tu ami la giustizia. Ma ti manca la pietà. E se non hai pietà verso gli altri, come potrai avere pietà verso te stesso? Hai vergogna di te, delle tue bassezze… per questo non fai altro che umiliarmi. Ma è te stesso che umili. Sei un giudice inflessibile, che non conosce mezzi termini. Ma un giudice che non ha pietà è solo un boia senza cappuccio.
Ivàn (irritato). Ancora con la filosofia!
Gentleman russo. Ah, questa non è filosofia! E’ di te che si parla. Te lo ripeto: ami troppo la giustizia per amare un donna…
Ivàn. Cosa c’entrano adesso le donne?
Gentleman russo. Le donne c’entrano sempre. E quanto a te, non avrai il coraggio di sposarla… perché è brutta. Tu la ami, ma non riesci a guardarla. Sei così terribilmente legato all’estetica. E poi… ti vergogneresti anche di lei…
Ivàn. Racconta barzellette, canaglia! La giustizia, donne… stai solo dimostrando di non essere altro che me…
Gentleman russo (con aria di sufficienza). D’accordo. Parliamo di nichilismo.
Ivàn. Non hai detto che avremmo dovuto far discorsi banali?
Gentleman russo. Oh, ma li stiamo facendo! E poi… anche quando non si parla di nichilismo, si parla di nichilismo. (Silenzio). Il niente è il grande problema dell’uomo. Il fatto è che non riuscite proprio a comprendere il suo valore, perché non avete compreso il valore dell’essere.
Ivàn (con un ghigno). Parli tu di ‘essere’…
Gentleman russo. Ebbene sì, colombello. Io sono ‘niente’ e voglio ‘essere’. Tu ‘sei’ e aneli al niente. Singolare destino il nostro.
Ivàn (concitato). Tu vuoi ‘essere’, perché non conosci la stanchezza di ‘essere’, la fatica dei discorsi, l’arrancare delle passioni ormai consumate. Noi siamo scagliati in questo mondo che non ci appartiene e di cui ci sfugge il senso; a fatica abbiamo gli occhi aperti agli altri; ma non li capiamo. Perché siamo un deserto. Crediamo di amarci l’un l’altro, e scambiamo quello sporco sentire per amore, senza sapere, senza conoscere chiaramente quanto la volontà sia diversa per ognuno; e fin quando ci sarà questa differenza, questo scarto, noi saremo sordi alle parole altrui. Il momento più alto della nostra esistenza è la contemplazione; ma essa avviene, e può avvenire, credimi, soltanto da lontano. Visti da vicino, gli uomini sono ripugnanti. (Silenzio. Poi calmo). Il niente è un porto, è una quiete dove tutto si calma, i contorni si raddolciscono, le contraddizioni si placano, come le luci al tramonto… tutto sfuma… e ciò che sembrava avesse un grande significato, si rivela per ciò che è davvero: nient’altro che marginalità, stupida marginalità…
Gentleman russo. Non è il niente quello che hai descritto. E’ il paradiso.
Ivàn (duro). Il paradiso non esiste, perché, se esistesse, sarebbe una vigliaccata.
Gentleman russo. Che animo nobile! Te lo ripeto: sei troppo giusto. La giustizia estrema è disumana, e la disumanità è ingiustizia.

Silenzio. Il gentleman vorrebbe parlare, ma tace. Ivàn lo fissa.

Gentleman russo. Colombello, sono gentile con te e ti rivelo ciò che mai avrei dovuto dirti… (Tace).
Ivàn. Cerchi di ingannarmi?
Gentleman russo (dolcemente). Su, smettila di trattarmi come una parvenza. Io sono niente, ma voglio esistere. Il solo volere decreta la mia esistenza. L’hai detto tu. Quindi, ora ascoltami bene, perché ciò che ti dirò… (Scuote il capo. Tace).
Ivàn (impaziente). Dirai cosa?
Gentleman russo (con tono maestoso). Ti rivelo l’ultima parola sull’essere.

Si ode un rumore di tacchi. Il passo è incerto. Il rumore tace. Dinanzi all’uscio si intravede Katerìna Ivànovna. (Continua)