domenica 27 febbraio 2011

Aforismi per aspiranti divinità: "Dell'Amore", cap. III

1. Dell’amore mortale. Per amare una volta nella vita una persona, bisogna averne desiderato la morte almeno una volta.

2. Amore e verità. Chi ama la verità è condannato a dis-amare il resto.

3. Amore e verità bis. L’amore comporta parecchi salti oltre lo steccato della verità. Chi ama, deve mentire a se stesso e alla realtà per serbare intatto il proprio amore. Altrimenti ci sarebbe rottura: dovuta a delusione o ad incomprensione. I meno preparati, una volta delusi, non credono più a nulla, e si riversano nel risentimento. Coloro che, invece, conoscono le bassure dell’uomo, pretendono di dover cambiare qualcosa a tutti i costi, tramutando l’amore in odio. Rimanere a debita distanza dalla verità, dunque: è meglio amare in modo imperfetto, che sapere di amare inutilmente.

4. Amore e verità tris. Chi non ci contraddice mai, né ci riprende, e giura di amarci, in verità, ci odia. Chi ci fa la guerra quotidianamente, e dice che forse non ci ama, in verità, ci ama. Ma chissà se quell’amore a denti stretti, quell’amore non dichiarato non celi più semplicemente un’altra passione, – freddezza…

5. Amore e conoscenza. E’ impossibile amare chi non si conosce; non è possibile amare chi si conosce profondamente.

6. Amore e libertà. L’amore non-libero è un amore da padroni. L’amore libero è un amore da schiavi.

7. Amore e libertà bis. Chi vuole amare liberamente depone la servitù psicologica o il sentimento di possesso verso un solo essere, ma guadagna l’asservimento, impune e completo, all’essere in generale.

8. Psicologia di un libero amatore. Il problema della libertà nell’amore fa il suo ingresso in situazioni paradigmatiche, che chiameremo momenti-limite. Un esempio. C’erano due amanti che un giorno si giurarono fedeltà eterna, – e non sapevano di far promesse più grandi di loro. Durante il chiassoso caos delle passioni, la donna non rispettò il patto, perpetrando un tradimento. E l’uomo, una volta scopertolo, pianse, si dibatté, fu letteralmente consumato dal dolore. Ed ecco che gli si presentò la grande domanda: « Puoi continuare ad amarla, nonostante tutto? ». Gli balenò l’idea dell’amore libero, dunque. Se non avesse continuato ad amarla, avrebbe dovuto ammettere che neanche precedentemente vi era stato amore da parte sua, che tutto è era stato falso, – un fallimento. E se avesse continuato ad amarla, non più per passione, non più per sentimento di possesso, cosa sarebbe accaduto? Allora l’uomo disse a se stesso: « Per amarla, devo giustificare il suo errore. Per giustificare il suo errore, devo ammettere che tutto è bene. Ma se tutto è bene, anche il delitto è buono e giusto. E se un amico mi tradisse, se un nemico mi percuotesse, se l’ingiustizia mi annientasse, io sempre dovrei giustificare, in virtù del mio libero amore. E se una volta ero padrone, oggi sono schiavo, – sono schiavo dell’essere intero ». Perciò è necessario amare anche i porci – soprattutto loro, come fa Julian in Porcile di Pasolini. Ma Julian è indifferente. E se l’amore libero altro non fosse che una bella parola, un eufemismo per dire – indifferenza?

9. Amore e libertà tris. La libertà assoluta è assoluta ingiustizia, come il libero amore è libertà di non essere più liberi.

10. Del libero amore. Ci si stanca anche di amare liberamente.

11. Amore e odio. « Ci sono persone che non riesco ad amare, e tuttavia, ahimé, non riesco neanche ad odiare », disse l’esistenzialista.

12. Odio e amore. « Ama e fa’ ciò che vuoi », disse Sant’Agostino. « Fa’ ciò che vuoi, ma non amare », dicono i nostri santi d’oggi.

FARHADI: L’ORSO D’ORO AL FUTURO DELL’IRAN

I tumulti e le sollevazioni mediorientali hanno, se non altro obliquamente, portato un vento di novità e cambiamento anche nei salotti del cinema internazionale.
E’ il caso di dire che la sessantesima edizione della Berlinale abbia colto la rosa al momento opportuno, riprendendo una citazione dal film l’Attimo Fuggente. Cogli l’attimo, fiducioso il meno possibile nel domani, asseriva Orazio.
Ma l’Orso d’oro che si è aggiudicato Asghar Farhadi a Berlino invita ad essere inevitabilmente fiduciosi sul futuro dell’Iran: il fatto che il riconoscimento del premio al regista iraniano sia giunto in concomitanza con le rivolte a Teheran, impone una dovuta riflessione sullo stato di salute culturale del Paese persiano.
“Nader & Simin: a separation” ripercorre i connotati della seconda nouvelle vague del cinema post-rivoluzionario iraniano. Un’opera neorealista e narrativa che enfatizza pienamente le complessità interiori che attraversano i principali personaggi femminili: Simin (interpretata da Leila Hatami) e Razieh (Sareh Bayat), protagoniste della realtà fondamentalista e discriminatoria dell’Iran moderno. La prima, remissiva e rassegnata, vorrebbe espatriare per poter garantire un futuro migliore alla figlia undicenne (Termeh), ma suo marito Nader (interpretato da Peyman Moaadi) è contrariato e desidera rimanere al fianco del padre, affetto dal morbo d’Alzheimer. Simin decide di divorziare, lasciando figlia e marito e torna a vivere con i genitori, mentre Nader si avvale dell’aiuto di una donna povera e oppressa, Razieh, incinta e già madre di una bambina di cinque anni nonché sposa di Hodjat (Shahab Hosseini), un uomo instabile e irascibile, che non è al corrente del lavoro della moglie. Quando la donna sarà, un giorno, costretta ad assentarsi dalle cure dell’anziano, Nader si infurierà e, nel corso di una litigata, Razieh perderà il suo bambino cadendo dalle scale.
Una storia di divorzio all’iraniana che contiene una serie di contenuti tangibili ed estendibili ai tantissimi contrasti etici, sociali e familiari della contemporaneità.
Il film rappresenta un racconto già visto e vissuto, Farhadi si limita abilmente a tracciare la quotidianità del popolo iraniano, pressato e vincolato ai precetti coranici. Descrive perfettamente le difficoltà della condizione femminile in Iran al punto che, a causa del divieto per le donne di mostrarsi a volto scoperto in pubblico, durante le riprese le protagoniste sono state costrette ad indossare chador e foulard anche all’interno di ambienti domestici. Questi adattamenti sono evidenti nelle pellicole realizzate dalla regista Rakhshan Bani-Etemad, la prima donna iraniana a girare un film, che nell’opera “Noi siamo la metà della popolazione iraniana”, ineluttabilmente colpito da censure e persecuzioni, affronta la tematica del movimento femminista alla vigilia delle elezioni presidenziali del 2009. Alla luce delle recenti manifestazioni organizzate in Italia sulla dignità delle donne, sarebbe il caso di soffermarsi sulla questione per elaborare qualche parallelo fra le due differenti realtà, ma forse è meglio non speculare eccessivamente sull’argomento.
Il film permette, inoltre, di aprire un’ulteriore parentesi sulle problematiche connesse alle disuguaglianze di status e di reddito che affliggono la società iraniana: una chiara denuncia dell’apparente omogeneità della popolazione del Paese.
L’Orso d’oro è senza dubbio meritato e Farhadi, durante la premiazione, non si trattiene dal parlare con  amarezza e rammarico della pesante situazione che sta vivendo il suo collega e connazionale Jafar Panahi, il grande assente alla Berlinale, a cui è fatto divieto dal regime di dirigere, scrivere e produrre film per i prossimi vent’anni. Questo rappresenta un ulteriore e sconcertante elemento della situazione politica iraniana. E’ infatti difficile prevedere dei margini di emancipazione da parte della vita culturale del Paese; anche secondo il Financial Times il regime di Ahmadinejad e dell’Ayatollah Khamenei sarebbe il vero vincitore delle rivolte popolari nel panorama medio-orientale. Ma l’aspirazione di ottenere le libertà civili da parte dei giovani, congiunti dalle campagne interattive sui maggiori social network, è tutt’altro che fievole. Occorre quindi essere fiduciosi sulle prospettive che si svilupperanno prossimamente nel contesto persiano.
E’ indubbio il fatto che il cinema iraniano, nel corso della sua storia (in particolare dal regime dei Pahlavi fino ad oggi), è stato assiduamente sottoposto a censure. Le dodici direttive pertinenti ai divieti delle riproduzioni cinematografiche fanno capo a veti delle attività governative sulle materie religiose, politiche e sociali. Ma se il documento di censura introdotto nel 1984 dal Ministero della Cultura e della Guida Islamica non ha scoraggiato l’attività e la risolutezza artistica di tanti registi del calibro di Farhadi, Ghobadi, Kiarostami e Siba Shakib, si può ben sperare sull’entusiasmo che anima le contestazioni febbrili dell’Onda Verde, un movimento composto da ragazzi e ragazze che reclamano unanimemente diritti civili e libertà politiche. Non a caso, tanto per rimarcare la presa di coscienza che il movimento femminista del Paese ha assunto negli ultimi anni, è necessario sottolineare che il martirio delle rivoluzioni è simboleggiato da Neda, la studentessa ventiseienne uccisa durante la repressione delle proteste del 2009 seguite alle elezioni presidenziali
La peculiarità che contrassegna la piazza di Teheran dagli altri focolai mediorientali e maghrebini è rappresentata dalla volontà palesata da tanti giovani di abbattere ogni configurazione integralista e dittatoriale, per dare vita ad un sistema democratico che sia in grado di tutelare la vita culturale dell’Iran, a detrimento di qualsiasi discriminazione sessuale o religiosa.
E’ quanto basta per poter sostenere che a Berlino, insieme a Farhadi, ha vinto a pieni titoli la voglia di libertà di una nuova e fertile generazione di intellettuali che sognano un futuro propositivo e partecipato.

sabato 26 febbraio 2011

'Eraserhead' di David Lynch

Nato nel 1946. Esploratore della mente, del lato oscuro della realtà, o forse del sogno? Questo so di David Lynch.
Quante parole sono state spese, quanto si è discusso sopra questo regista così stravagante e insolito, insolito soprattutto per la scena americana, la quale, seppur movimentata attorno agli anni ’10 dalla nascita del fenomeno 'Holliwood', si trasforma presto in una atrofizzata macchina di capolavori unicamente intesi come prodotti commerciali. Si è detto sicuramente tanto su di lui, forse troppo. Il noto critico cinematografico Enrico Ghezzi, prima di una sua lezione al teatro Montevergini di Palermo lo descrive, ad una giornalista che gli domanda cosa debba essere assolutamente detto su questo regista, con queste semplici parole: 

Cosa deve essere assolutamente detto su questo cineasta? Assolutamente niente, nel senso che alla fine è uno dei cineasti più liberi e liberanti della storia del cinema degli ultimi 50 anni.

Ogni tentativo di associarlo a qualche movimento particolare del cinema sarebbe limitante. Non è sbagliato dire che Lynch debba molto al movimento surrealista ma è anche vero che il regista di Inland Empire e di Mulholland Dr. trasforma quella critica alla ragione di Bunuel e Dalì in un sottile gioco fatto di mille particolari, collegando i quali sembra sempre di poter riuscire a ricostruire una trama logica e razionale, che poi crolla non appena se ne aggiunge uno nuovo;  c’è sempre qualcosa che non torna: un cubo di rubik con una faccia rossa in più. 
Bisogna innanzitutto considerare che Lynch nasce come pittore, la sua ambizione più grande era dipingere; la pellicola, la macchina da presa gli saranno messe in mano quasi per caso mentre frequenta la Pennsylvania Academy of Fine Arts, nel 1966. Di questo periodo sono i suoi primi cortometraggi, tra i quali vale la pena ricordare Six Figures Getting Sick, considerato dal regista un vero e proprio quadro in movimento. Ed è in questo modo che bisogna intendere i film di David Lynch: una serie di dipinti, i quali singolarmente sono capaci di evocare nello spettatore suggestioni e angosce. 
Ma la tensione viscerale che trapela come fiele da questi film non può essere spiegata solo dalle immagini, dalle inquadrature che sembrano danzare in quel filo sottile che separa il sogno dalla realtà; è la musica, o il silenzio, che con il loro alternarsi, con il loro susseguirsi in una corsa senza fine creano quella sensazione di spaesamento, d’angoscia che colpisce lo spettatore con una tensione irrazionale, inspiegabile a volte. Non dimentichiamo infatti che Lynch, oltre ad essere pittore e registra è anche compositore: consapevole quindi dell’importanza che può avere la musica all’interno di un “dipinto in movimento”.
Nel 1971, quando iniziano le riprese di Eraserhead, non ha ancora avuto luogo l’incontro con Angelo Badalamenti, grande compositore che affiancherà Lynch in tutti i suoi più grandi capolavori, perciò le musiche di Eraserhead sono composte tutte dallo stesso regista. 
Guardare Lynch significa dunque lasciarsi colpire, lasciarsi trascinare come ascoltando ad occhi chiusi una musica, fino a farsi guidare verso il nulla, per poi ritornare inevitabilmente alla realtà senza aver recepito alcun messaggio, alcuna ideologia, ma consapevoli d’aver raggiunto, seppure senza poterlo riconoscere, quell’ esile confine che separa il sonno dalla veglia.   

martedì 22 febbraio 2011

Fenomenologia del piccione, parte I, introduzione

I piccioni sono esseri profondamente immorali ed egoisti, nonché egocentrici. Quando cammini accigliato per strada, pensando alle emerite pudenda tue, quei bavosi e beceri carcami, che affollano le piazze meneghine e gli erbosi fossi della Romagna, che espellono eburnee feci dal Manzanarre al Reno, inondando balaustre e scuri di evacuazioni dall'effluvio graveolente, iniziano a trepidare come laidi guitti in pena, pensando bene che tu voglia percuotere ad ogni costo il loro relittuoso scheletro di barbagia. Le columbae liviae non reputano per nulla che tu, camminatore di bianche strade, abbia altre cose a cui badare. Essi si pongono, dunque, al centro dell'Universo abitato. Sono come gli uomini.  

lunedì 21 febbraio 2011

« Como un remordimiento ». La poesia inutile di Marco Antonio Campos

Cos’è l’utile? ‘L’essere in uso’ dell’oggetto al sopraggiungere di un bisogno o di uno scopo. L’uso è pertanto un servirsi di qualcosa, in modo che si abbia un tornaconto da mostrare alla coscienza che vuole. Affinché le cose tornino, è necessario che si produca uno sforzo (un labor) che apra il conto, per cui nell’immediata successione si possa parlare di ‘giusto tornaconto’. Noi lavoriamo in vista di ciò che ci è strettamente utile; e così sopravviviamo. Il resto è inutile. Nell’epoca della produttività, del blando negotium, che stanca, chi bada al Pensiero, e dunque all’otium, è senz’altro un « forestiero sulla terra ». Tale è il titolo della silloge di Campos (trad. it. di E. Coco, Sentieri Meridiani Edizioni, Foggia, p. 83), affermato poeta messicano, il quale riflette appunto sul tema dell’essenza controproducente del poetico, in quanto im-producente, all’interno di un contesto (il mondo attuale) che è interamente proiettato nel fare. Se l’attualità è il far-si delle cose, e la poesia (forte del suo etimo: poie/w, ‘fare per creare’ e dunque ‘fare per fare’) si mantiene alla genesi di ciò che si fa senza entrare nel merito, essa è sostanzialmente parola inattuale, e i suoi seguaci sono di necessità ‘forestieri’. Questi sono pertanto tenuti ad interrogarsi sul proprio ruolo nella società moderna. « Pero en serio ¿valiò la pena? » è il quesito posto da Campos. Ma è ancora possibile essere poeti, scrivere nel mondo del ‘fare per produrre’, e non ‘per fare’? « […] valse / la pena abbandonare / la scommessa dell’azione per consegnare la vita / all’inutilità della poesia? ». Quel detto talmente potente da spingere alla scommessa, la poesia, a cui si è consegnata la vita, cioè la si è messa in consegna, in attesa che la verità degli esseri si presenti, è stato irrimediabilmente inutile. L’interrogativo di Campos conosce già la sua risposta: la scommessa è perduta, finché persiste l’inutilità della poesia. Eppure in un altro luogo della silloge (La muchacha y el Danubio), il poeta dichiara: « Lei mi rimane, vive in me, mi chiama / come un rimorso ». Chi è lei? Senza dubbio, una ragazza di cui il poeta ha memoria nel suo pensiero poetante. Campos ricorda vagamente qualcosa, a tinte sfumate, ma senza scadere nel qualunquismo. Il vago rammemorare è la poesia stessa che si ripresenta in forma di donna, che dice « da qui è passata la tempesta », la tormenta della creatività viva e ridonata all’umanità « como un remordimiento ». Il poeta messicano, mediante una clausola vibrante in fine di lirica, ridona l’oscillante bellezza della lingua spagnola, che appunto fluttua nella pagina stampata fino a tuonare impercettibilmente nell’orecchio del lettore. E questo rimorso fremente, che desta l’uomo dal suo fare, risponde chiaramente all’interrogativo circa l’effettiva efficacia del poetare nella società: sì, è davvero valsa la pena di consegnare la vita alla poesia inutile

venerdì 18 febbraio 2011

Resoconto definitivo della proiezione del film-documentario "Senza scrittori" e della tavola rotonda con Andrea Cortellessa, il quale, assieme a tutti, presume di parlare di letteratura

Oggi sono stato ad un incontro di letteratura e poesia. Ma nessuno parlava di letteratura e poesia.

Yukio Mishima: "Gli effeminati intellettuali" (parte seconda)

La vera letteratura è totalmente diversa. Ciò da cui desidero mettere in guardia i giovani intellettuali è il pericolo insito nell'autentica letteratura. Essa ci mostra con durezza, senza alcun eufemismo, quale orribile destino gravi sull'essere umano. Ma non lo mostra suscitando un fremito di paura come nella "casa degli spiriti" dei giardini d'infanzia: la letteratura non ricorre a simili trucchi, bensì a meravigliose frasi ed a descrizioni incantevoli, che rapiscono l'animo, con le quali ci rivela che la vita umana non ha alcun significato e che nell'uomo si cela una malvagità che non sarà mai redenta. Più la letteratura è di buona qualità, più ci comunica l'idea che l'essere umano è condannato. Chi fa di essa il proprio scopo di vita, non è condotto nel dominio della religione, che occupa senza dubbio una posizione lievemente più avanzata, ma viene portato sull'orlo del più terribile precipizio, e qui è abbandonato. Chi frequenta la terribile letteratura di alta qualità e si lascia portare fino al baratro - ad eccezione di quanti sono in grado di creare con analogo talento opere letterarie dello stesso valore - diviene preda dell'illusione di aver raggiunto quel precipizio con le sue sole forze. 
Da un tale miraggio scaturiscono vari sentimenti. Si comprende la propria impotenza - si è solo degli intellettuali privi di forza, non si può cambiare la propria vita né attuare alcuna rivoluzione - e però si ritiene che la posizione raggiunta consenta di prendersi gioco di tutti. E' una conquista ottenuta grazie alla letteratura: e sebbene si abbia coscienza della propria inferiorità fisica, del disprezzo degli altri, dell'assenza di principi morali e della mancanza di qualche particolare talento, si è ormai preda della strana presunzione di avere il diritto di deridere il mondo intero. Si considera quindi ogni cosa con cinismo, si deride ogni impegno, si scoprono grotteschi difetti in chi dedica a qualche ideale tutte le proprie energie, si dileggia la sincerità e la passione, e ci si attribuisce il privilegio di disprezzare tutto ciò che  è bello e superiore, le azioni pure ed impetuose, che sono una sorta di cristallizzazione dello spirito umano. 
Questo atteggiamento si manifesta inconsciamente nel volto e nell'atteggiamento. Mi è sufficiente uno sguardo per distinguere tra la folla un ragazzo posseduto da simili idee: i suoi occhi sembrano limpidi, ma privi di una luce nel profondo, ed è totalmente sprovvisto di pura naturalità e di forza animalesca, le principali prerogative della gioventù: non è che una sorta di crittogamo. 
Non v'è dunque da stupirsi che io abbia cercato di sottrarmi a questo tipo di letteratura, conoscendone più di altre il veleno. Tuttavia, essendo un uomo di lettere, continuo a subirne la persecuzione; non è dunque strano che io desideri almeno mostrarne la pericolosità a chi non esercita tale professione. Ed è su questo che si fonda il mio biasimo per i giovani intellettuali. Soltanto in anni recenti ho capito che basta praticare il kendo e brandire una spada di bambù per evadere, anche se per brevi istanti, dal pantano del nichilismo. Mi sono occorsi molti anni per poter comprendere che l'azione più semplice ha il potere di risanare dal morbo della letteratura: ma ormai esso aveva già avvelenato metà della mia giovinezza. Spero che i giovani intellettuali tormentati dalla febbre della letteratura, possano risvegliarsi prima di quanto abbia saputo fare io. Mi auguro che ci sia qualcuno di loro in grado se non altro di scrivere un opera non contagiata dal veleno altrui, ma intinta genuinamente nel proprio.
[1]   



[1] L’intero brano è tratto da Yukio Mishima, Lezioni spirituali per giovani samurai, Feltrinelli, Milano 1990. pp. 49 - 51.

Traduzione di un frammento della poesia 'Ulysses' di Alfred Tennyson


Venite  amici, ché tardi non è per scoprire
un mondo nuovo. Al largo! e sedendoci in ordine
percorriamo i solchi sonori; perché ho fermo nel cuore
di navigare al di là del tramonto, oltre i lavacri
delle stelle occidentali, finché non abbia la morte.
Forse accadrà che i gorghi del mare ci affondino,
forse nostro destino è toccare le Isole Felici
e rivedere il magnanimo Achille, che noi conoscemmo.
Sebbene molto è perduto, molto ci resta; e se anche
non siamo più quella forza che in giorni lontani
mosse la terra ed il cielo, siamo sempre gli stessi:
un’eguale tempra di eroici cuori,
indeboliti dal tempo e dal fato, ma duri ancora
in lottare, cercare, trovare, e non cedere mai.

giovedì 17 febbraio 2011

Yukio Mishima: "Gli effeminati intellettuali" (parte prima)

Quando frequentavo il liceo - naturalmente in tempo di guerra - alcuni degli studenti più baldanzosi, appartenenti all'ala militarista, durante un dibattito attaccarono me e alcuni miei compagni, pur senza pronunciare i nostri nomi, affermando che in quel periodo di crisi in cui il Giappone rischiava l'annientamento era vergognoso che nella nostra scuola esistessero degli effeminati letterati dai visi smunti. Le giudicai parole idiote e decisi con ancor maggiore determinazione di dedicare la mia vita alla letteratura: non avrei mai immaginato che, alla distanza di un ventennio, avrei io stesso denunciato l'effeminatezza dei giovani letterati.
Non desidero tuttavia emulare coloro che si facevano scudo del potere e della guerra per rimproverare i giovani dediti alla letteratura. Semplicemente, in quest'epoca in cui la fiacchezza di spirito dei letterati si è diffusa in tutto il Giappone, provo l'urgente desiderio di dimostrare quanto astuta sia la struttura psichica dell'intellettuale. La letteratura è la professione ideale per chi desideri rifugiarsi in una zona sicura, come un granchio si occulta nella sua tana. La letteratura si fonda infatti sulla premessa che il suo mondo non abbia alcun rapporto con la realtà, e così può sfuggire ad ogni criterio di valutazione. I veri intellettuali sono coloro che non hanno altri interessi o impegni all'infuori della letteratura, che pongono come ideale di vita un'immortalità ed una dissolutezza ammissibili soltanto in un'opera letteraria.
Avverto costantemente il pericolo che la letteratura annienti la morale. E ho più volte analizzato i tranelli in cui cadono inconsciamente coloro che tentano di trovare un'etica ed un obiettivo di vita nella letteratura. Conosco dunque molto bene la pericolosità del fascino che essa esercita sui giovani.
Chi infatti cerca un obiettivo di vita nella letteratura è in qualche modo insoddisfatto dall'esistenza reale. Ma invece di risolvere concretamente la sua insoddisfazione nell'ambito della realtà, anela ad un mondo diverso, con la speranza  di poter risolvere in esso i propri problemi, e tenta di scoprire nella letteratura un obiettivo di vita o una morale. Ma la letteratura che soddisfa tali richieste è inevitabilmente di second'ordine: va però detto che i giovani da essa influenzati non subiscono che lievi danni. Non voglio citare alcun nome di scrittore, ma è certo che una simile letteratura è esistita ed è stata utilizzata in ogni epoca. Essa incita l'uomo ad una spiritualità più alta, è molto abilmente costruita al fine di illudere l'essere umano, dandogli l'impressione di elevarlo, anche se di poco, dal livello della morale comune, e di rischiarare, anche se con una debole luce, la sua vita. Naturalmente simili romanzieri agiscono con astuzia. Confortano i giovani delusi in amore, infondono nuova energia a coloro che hanno fallito, in modo che possano ritentare l'impresa. A chi è perdutamente innamorato e in preda alla disperazione, dicono: "Ecco com'è la donna", e lo guidano ad una visione lievemente più trascendentale. A chi è tormentato dalla povertà insegnano che al mondo non è solo il danaro ad avere importanza, che esistono anche i valori dello spirito. Chi ritiene di essere un debole sia fisicamente che spiritualmente viene consolato con l'affermazione che più si è deboli più si è vicini alla verità. Sono insegnamenti gentili, a volte severi, come la mano di una madre o di un maestro, e non poche persone si sono risvegliate alla vita frequentando una simile letteratura. Essa è inoltre generalmente fornita di spirito umoristico e di un certo fascino volgare, cui sono abilmente intrecciati, così da attrarre l'attenzione, insegnamenti che né la scuola né i genitori sanno dare. Il livello più basso di una tale letteratura è rappresentato dai racconti per l'infanzia. Le bambine incominciano a leggerli nei primi anni delle elementari, e si abituano ad immaginare i loro vaghi sogni cristallizzati in puri amori che saranno poi infranti dalle vicissitudini dell'esperienza.[1]   




[1] L’intero brano è tratto da Yukio Mishima, Lezioni spirituali per giovani samurai, Feltrinelli, Milano 1990. pp. 47 - 49.

domenica 13 febbraio 2011

'Porcile' di Pier Paolo Pasolini ( 1969 )



Io non ho opinioni.
Ho tentato di averne, e ho fatto, in conseguenza, 
il mio dovere. Così mi sono accorto
che anche come rivoluzionario ero conformista.
                                                                           (Julian )


Animali che si nutrono di uomini, uomini che si comportano come animali. Sembra di essere finiti all’interno di un libro di Orwell o di fronte ad un quadro di Grosz quando si entra, con lo sguardo, in Porcile di Pier Paolo Pasolini. Un dramma: il dramma di una vita affrontata come solo un poeta può affrontarla: senza cristallizzazioni, senza omologazione, libera, ma talmente libera da smarrirsi in un osceno amore per se stessa fino a svanire senza rumore dalla società che, con i suoi schematismi tradizionali, le impone una forma, un aspetto, un senso. Julian è il diverso: conosce le leggi della società ma le rifiuta, si rifugia in se stesso e se stesso non sa chi sia. Vive di un amore che non può rivelare a nessuno poiché nessuno saprebbe accettarlo, un amore: “una foglia sperduta, una porta cigolante, un lontano grugnito”. Nella sua giovinezza il ragazzo è posto di fronte ad una scelta, ma egli è un individuo inalienabile, è puro, è la vittima sacrificale destinata a sparire nel silenzio; nel silenzio di cui lui stesso si circonda non riuscendo ad avere opinioni, a scegliere l’omologazione con l’ordine costituito o la lotta contro di esso. Il ragazzo, infatti, rappresenta anche il dramma di una adolescenza che si trascina, una maturità che non arriva; è proprio la maturità, infatti, che impone il dovere di una scelta, scegliere oggi l’io di domani, scegliere la propria parte.
Porcile viene scritto nel 1966 come testo teatrale; in questo periodo il poeta, pensatore, regista e scrittore si trova ad affrontare una profonda disperazione esistenziale e scrive, oltre Porcile, altre cinque tragedie: Calderon, Affabulazione, Pilade, Orgia e Bestia da stile. Nello stesso periodo, l’autore, del quale è noto l’intento educativo, elabora un manifesto per un nuovo teatro che egli definisce “teatro della parola”. Questo si contrappone, con l’intenzione di sostituirli, al teatro borghese (teatro tradizionale) e al teatro dell’urlo (teatro sperimentale). Il nuovo teatro deve essere veicolo di idee e fonte di riflessioni; non deve intrattenere il pubblico e farlo divertire come il teatro borghese né colpirne l’irrazionalità abolendo il testo e abusando dell’azione scenica come fa il teatro dell’urlo. Le ideologie sono i veri protagonisti di questo nuovo teatro; i personaggi, infatti, più che individui sono tipi: rappresentano un’idea ed è per questa ragione che gli attori  devono abbandonare il fascino personale e la forza espressiva per lasciare spazio alla chiarezza delle idee esposte. Sembrerebbe, questa operazione svolta da Pasolini, una nuova  rivoluzione teatrale sulla linea del teatro  didascalico di Brecht, ma come spiega lo stesso   autore:

In tutto il presente manifesto, Brecht non verrà mai nominato. Egli è stato l'ultimo uomo di teatro che ha potuto fare una rivoluzione teatrale all'interno del teatro stesso: e ciò perché ai suoi tempi l'ipotesi era che il teatro tradizionale esistesse […] Oggi, invece, ciò che si mette in discussione è il teatro stesso: la finalità di questo manifesto è dunque, paradossalmente, la seguente: il teatro dovrebbe essere ciò che il teatro non è.[1]

Nel 1969 Pasolini traspose la tragedia nel film omonimo, effettuando, in questo passaggio, diversi cambiamenti anche di grande rilievo: innanzi tutto Pasolini attua, riguardo al cinema, un’operazione antitetica a quella apportata al teatro: egli cerca di elaborare un “cinema di poesia”, un cinema delle sensazioni dove la tecnica cinematografica sia utilizzata in funzione della riproduzione di tali sensazioni (esempi di cinema di poesia sono: Uccellacci e uccellini e Teorema).
Nel film Porcile, grazie alla mescolanza tra testo teatrale e espressione cinematografica, avviene una sorta di fusione tra queste due elaborazioni teoriche, e questa commistione è evidenziata al meglio dalla variazione più evidente tra la versione teatrale e quella cinematografica: l’inserimento di una seconda linea narrativa.
La trama principale presente anche nella tragedia ruota attorno a Julian, figlio di un grande industriale tedesco; il ragazzo, fidanzato con Ida, è amato da lei ma non ricambia affatto questo amore e i dialoghi tra i due appaiono come dei veri e propri giochi, accentuati dal linguaggio estremamente poetico e dalla recitazione fredda e impassibile: tipicamente brechtiana. Julian, come viene definito all’inizio del film, è un “figlio né obbediente né disobbediente” e per questa sua stasi, per questa “inalienabilità” egli verrà sacrificato, sarà costretto a scomparire nel silenzio, quel silenzio che Herdhitze impone ai contadini.
La seconda linea narrativa si svolge in un contesto rinascimentale, anche se le  aride alture dell’Etna contribuiscono a creare un’atmosfera fuori dal tempo. Un uomo, smarrito in questa landa desolata, uccide chiunque scopra ad errare in quei luoghi e dopo aver gettato i crani delle sue vittime in un cratere, come in una sorta di rito, si ciba della loro carne. Finirà per costituire una vera e propria comunità cannibale, la quale presto verrà soppressa dai soldati di un vicino villaggio.
L’intreccio tra queste due linee narrative è sapientemente elaborato dal regista; esistono dei rapporti tra l’uno e l’altro protagonista, non del tutto immediati; in certi momenti sembrano esserci delle incongruenze e in certi momenti appaiono persino antitetiche, fino a che, nel finale, le due storie ritrovano, o smarriscono il proprio protagonista.   


[1]P.P. PASOLINI, Manifesto per un nuovo teatro, “Nuovi argomenti” n.s 9 febbraio- marzo 1968.

lunedì 7 febbraio 2011

Celan

1

Quando il giardino della fiancata
s’empie di setole,
là dietro al conficcarsi del cieco
sottosuolo germoglia
la spiga di segale

« A che si vive? » dice Mister Jones
« Non saprei » dice Sulamith
i tuoi capelli       
nerissimi frusciano
i tuoi occhi
chirghisi suonano,
noi tiriamo le cinghia
poiché si sappia
di gemme cobalto

si sappia del grande saggio
che iscrive
ad un nuovo inizio

voialtri, badate che canti
nel rintoccare
di zoccoli,
nel rintronare
di brillanti al guado

« A che si vive? » dice Mister Jones
gli occhi chirghisi suonano,
la rana gracchia
moribonda
ma l’inverno è stato,
e alla macchia cieca
cresce
la spiga di segale

« A che si vive? » dice Mister Jones
« Bada che canti » dice Sulamith

2

Ero seduto ad assaporare
la parola Nebraska
le rosse colline
a respirare la resina e l’ambra:
si era al bereshìt e al luminare

codesta terra senza requie vuole
la vostra corona di gioielli,
sicché il principio è passato
di mano all’aratro
cani e mastini fiutano carne
boschiva
per l’abetaia delle Cesane,
che scaliamo
in stile Northshore,
finché alcuno non dice,
« si era al bereshìt e al luminare »

La provinciale per Fossombrone
è arcuata dai vostri gioielli,
le vostre movenze
vi rendono splendida,
una lastra ghiacciata
del Nebraska
non invano è il vostro Belcanto,
la grazia il volo d’una falcata
che scuote il manto

Margarete siate evocativa
siate la parola Nebraska
una ballata irlandese
la corona di gioielli
una tomba monumentale,
siate Margarete
perché si dica,
« si era al bereshìt e al luminare »

venerdì 4 febbraio 2011

A Urbino la poesia resiste

Articolo e intervista di Letizia Zaffini, pubblicato ne "La Scintilla" di Febbraio 2011

Giovedì 9 Dicembre 2010, ore 19. Dal magistero di Urbino parte un piccolo corteo, diretto in piazza. Presto il corteo diventa un coro, canti funebri si alzano nella notte, insinuandosi per le scure stradine, mentre, potenti, acute voci femminili risuonano, gelide e sconnesse. Il gruppetto raggiunge la piazza, fermandosi lì: davanti a tutti, una ragazza tiene in mano un cervello. Dietro di lei, tre chitarristi, un ragazzo con l’armonica e, dopo di loro, tanti ragazzi, con in mano dei fogli stampati. La gente li osserva, incuriosita e sorridente. Loro, però, lo sguardo inebetito, nulla osservano, né sorridono, ma si limitano a fissare il vuoto, con aria assente. Trascorrono alcuni minuti, finché il ragazzo a sinistra incomincia a suonare: un accordo di Sol, ripetendo all’infinito lo stesso ritmo. Gli altri musicisti lo seguono in ogni mossa. La musica va avanti, uguale e invariata, per circa quattro minuti; ad un certo punto, sopraggiunge un fischio: ogni strumento all’improvviso tace, i ragazzi lasciano scivolare a terra i fogli stampati, ma rimangono, fra le loro mani, delle pagine bianche. Tutti se ne vanno: i chitarristi, il ragazzo con l’armonica, la ragazza con il cervello. La gente li applaude, finché svanisce ultimo anche l’applauso. Rimangono soltanto a terra quelle pagine, che portano scritte frasi di Nietzsche, Erasmo Da Rotterdam, Schopenhauer.

Resoconto del Flash Mob “Protesta estetica” (9/12/10),

ideato da Alessando Zaffini e Michela De Toni, membri
dell’associazione culturale “La Resistenza della Poesia”,
                                                                 a sfavore dei tagli alla cultura e contro la  ripetuta lapidazione
                                                             della parola, nell’ambito politico, universitario, rivoluzionario.
                                                         P.S:Il cervello era finto.



Come si suol dire, “sono tempi duri”.Ad Urbino alcuni studenti di lettere moderne hanno deciso di resistere. Poeticamente. Oltre ad aver partecipato al Flash Mob, La Scintilla li ha intervistati.

Colloquio con Alberto e Alessandro, de “La resistenza della Poesia”

Chi siete?
La “Resistenza della poesia” è un’associazione culturale senza scopo di lucro, fondata da alcuni ragazzi di lettere. Ci basiamo sulla riflessione di Martin Heidegger, secondo cui la poesia fonda il linguaggio: “Il linguaggio è la casa dell’essere, nella sua dimora abita l’uomo. I pensatori e i poeti sono i custodi di questa dimora”. Noi vorremmo ripristinare l’importanza della poesia in un’epoca che tende a dimenticare ed escludere quest’arte che afferma l’essere più di ogni altro mezzo espressivo, in barba a quelli che consigliano ai letterati di “mangiarsi Dante col panino”, come ha sostenuto il ministro Tremonti.

Perché nella società di oggi non c’è più una sensibilità poetica? È un dramma del nostro tempo, o forse è una tragedia da sempre esistita?
Naturalmente i tempi sono cambiati, e il ruolo che ha assunto la poesia in campo sociale anche.
Oggi ci troviamo in una situazione dimetricamente opposta rispetto al passato - pensiamo alla società omerica: a quel tempo la poesia non solo era sovrana assoluta, ma costituiva anche un modo per insegnare i lati “scientifici” del sapere. Ora la scienza ha il dominio su tutto, poesia compresa.
È vero che la scienza ha la sua verità, ma è sbagliato affermare che la verità è della scienza.

Il corso di Filosofia di Urbino è stato chiuso.  Cosa ne pensate?
Come sappiamo, la riforma Gelmini ha previsto un certo numero di tagli (indiscriminati), e le facoltà che non hanno raggiunto un determinato numero di iscritti sono state chiuse. Noi naturalmente siamo amareggiati da questo avvenimento: la filosofia, oltre ad essere una facoltà storica dell’ateneo, sta alla base di tutte le discipline. Qualsiasi riflessione, anche in ambito economico, per fare un esempio, deve essere necessariamente filosofica. Aristotele sosteneva che qualsiasi uomo è un filosofo: anche chi non filosofa in un certo senso è filosofo, perché sceglie di non filosofare. Quindi, è veramente patetico, ridicolo e grave che sia stato chiuso il corso, perché la filosofia è l’anima della ricerca, è ciò che può permettere il passaggio ad un nuovo tipo di società.
Un certo signor Ciarrocchi, in risposta ad un nostro articolo apparso sul Carlino riguardante i tagli agli studia humanitas, ha dichiarato che “La cultura deve sottostare alle leggi dell’economia”. Se mancano i soldi, occorre “risparmiare” sulla cultura, perché non porta a nulla di pratico, non “produce” nulla. Questo discorso uccide ogni minimo barlume di umano intelletto, uccide la società, annienta ogni forma di umanità.

Ma cosa significa che la cultura non “produce” nulla? Dovremmo forse dare importanza soltanto al commercio, alla manifattura, all’industria e a tutti quegli ambiti legati a fabbisogni strettamente “pratici”, riponendo nel cassetto una volta per tutte i secolari “voli pindarici” di un Dante, un Platone, un Pasolini? Sotto quest’ottica, loro non hanno prodotto assolutamente nulla, dal momento che non gestivano né aziende farmaceutiche né fabbriche di lavandini.
Allora, se la mettiamo su questo punto, l’unica differenza fra Noi e un uomo Neanderthal è che l’uomo preistorico non guardava il Grande Fratello ed inquinava meno.
Già. Ma è una cazzata, un’enorme cazzata dire che la filosofia deve sottostare alle leggi dell’economia, perché il fondamento su cui si basa quest’ultima è filosofico. Tutti i grandi economisti sono stati filosofi, come ad esempio Adam Smith. È vergognoso che una città universitaria come Urbino non trovi spazio per  Filosofia! Si dice che l’offerta formativa di Filosofia non sia delle migliori, ma allora sarebbe logico potenziare quest’offerta, al fine di ripristinare un interesse, anziché eliminarla .

Ci vuole una rivoluzione. Per quanto riguarda le rivoluzioni in corso, il magistero è occupato ormai da settimane. Ma, forse, abbiamo bisogno di una rivolta estetica.
Si dice che “prima di passare all’agire bisogna pensare”, ed è giustissimo, ma il solo pensiero, a volte, non basta. Per fare in modo che la società progredisca, ora come ora non è necessaria una “rivoluzione” estetica che stravolga la tradizione, come facevano le prime avanguardie, ma semplicemente un’educazione estetica che riaffermi nella mente di tutti il ruolo basilare dell’Arte, che non è svago né surrogato, ma importantissima per fondare l’agire delle persone.
Albert Camus, ne “L’uomo in rivolta”, ha scritto: “La bellezza non fa le rivoluzioni, ma verrà il giorno in cui le rivoluzioni avranno bisogno di bellezza”. Noi auspichiamo che questo giorno arrivi, e, come associazione culturale, dichiariamo che la nostra rivolta sta in una bellezza  non fine a sé stessa, ma in grado di riportare le persone a vivere in maniera dignitosa, perché se una società produce bellezza significa che è all’avanguardia. 

“Le cose migliori furono diffamate, perché i deboli o dei maiali ingordivi gettarono una cattiva luce.
E gli uomini migliori rimasero nascosti, spesso ignoti a se stessi”
 (Friedrich Nietzsche)

Ai fratelli Cervi, alla loro Italia, Salvatore Quasimodo, 1953

In tutta la terra ridono uomini vili,
principi, poeti, che ripetono il mondo
in sogni, saggi di malizia e ladri
di sapienza. Anche nella mia patria ridono
sulla pietà, sul cuore paziente, la solitaria
malinconia dei poveri. E la mia terra è bella
d’uomini e d’alberi, di martirio, di figure
di pietra e di dolore, d’antiche meditazioni.

Gli stranieri vi battono con dita di mercanti
il petto dei santi, le reliquie d’amore,
bevono vino e incenso alla forte luna
delle rive su chitarre di re accordano
canti di vulcani. Da anni e anni
vi entrano in armi, scivolano dalle valli
lungo le pianure con gli animali e i fiumi.

Nella notte dolcissima Polifemo piange
qui ancora il suo occhio spento da navigante
dell’isola lontana. E il ramo d’ulivo è sempre ardente.

Anche qui dividono in sogni la natura,
vestono la morte e ridono i nemici
familiari. Alcuni erano con me nel tempo
dei versi d’amore e solitudine nei confusi
dolori di lente macine e di lacrime.
Nel mio cuore finì la loro storia
quando caddero gli alberi e le mura
tra furie e lamenti fraterni nella città lombarda.

Ma io scrivo ancora parole d’amore,
e anche questa è una lettera d’amore
alla mia terra. Scrivo ai fratelli Cervi
non alle sette stelle dell’orsa: ai sette emiliani
dei campi. Avevano nel cuore pochi libri,
morirono tirando dadi d’amore nel silenzio.
Non sapevano soldati filosofi poeti
di questo umanesimo di razza contadina.
L’amore la morte in una fossa di nebbia appena fonda.

Ogni terra vorrebbe i vostri nomi di forza, di pudore,
non per memoria, ma per i giorni che strisciano
tardi di storia, rapidi di macchie di sangue.

mercoledì 2 febbraio 2011

Aforismi per aspiranti divinità: "Della letteratura", cap. II

1. La storia. La mancanza di un’epica moderna ci ha fatto perdere il senso storico.

2. I sentimentalismi. Perdere i sensi in mezzo al caos del sentimento: ecco cosa chiedono gli uomini del XXI secolo dall’arte.

3. I secolarismi. Che secolo terribile il Novecento! Pensavate davvero che ne saremmo usciti senza conseguenze?

4. I poeti. Chiedete ad un filosofo, « Cos’è la vita? ». Egli vi risponderà: « Tutto o niente» . Chiedetelo ad un poeta, «Né tutto, né niente – qualcosa…».

5. Il silenzio. Tutti i grandi poeti sono degli ‘esiliati’.

6. L’interrogatorio. Il teatro domanda. La poesia risponde.

7. Noi storicisti. Non ci piace la storia in sé, avulsa dal vivere, ma ciò che da essa si può imparare – ora e per sempre. Amen.

8. Noi ‘scienziati’. Ho più familiarità con un barile di olive aromatizzate allo zenzero, che con la scienza.

9. Noi ‘tecnici’. Che ne sarà di tutta questa tecnica? Una volta superata, la manderanno in un museo di matusa ad arrugginirsi a rilento, o farà direttamente compagnia ai rifiuti organici, nel Paradiso dell’oblio? E la parola rammemorante, il detto che mai dimentica, ora in mano a questi orefici rinsecchiti della lingua, quale fine le spetta? Anch’essa perirà, perché ‘sorpassata’ da chissà quale fantomatico progresso? E noi tutti, per l’urto, ci dimenticheremo di ricordare? Nossignore, i filologi deporranno questa maschera, – che lo vogliano o no.