mercoledì 29 giugno 2011

accenno

Inciampa un jazz,
e sincope d’eterno palpito
fuori il passo di rito;
oltre i vetri appannati di alcool,
si abbracciano musica e vecchi languori.

martedì 28 giugno 2011

Backwater blues

Fiume Mississippi, vedi in che razza di guaio m’hai cacciato.
Fiume Mississippi, vedi in che razza di guaio m’hai cacciato.
Piove per quattro giorni, il cielo è buio come la notte e si abbatte un disastro sulle terre basse.
Il cielo tuona, l’acqua sale dagli argini e sono chiuso in casa senza poter uscire.

Maledetto fiume, ho l’acqua che mi arriva al mento in questa miserabile casa.
Maledetto fiume, ho l’acqua che mi arriva al mento in questa miserabile casa.
Sono affamato e preferisco morire al posto di mettere i piedi nel pantano.
Sento la casa crollare ma non farò niente per salvarmi la pelle.

Vorrei soltanto essere un’aquila per volare via, ma sono una cornacchia nera.
Vorrei soltanto essere un’aquila per volare via, ma sono un’anguilla nera.
Sbatterei quelle grosse ali e me ne andrei da questo posto infame.
Sì, sbatterei quelle grosse ali e me ne andrei da questo posto infame.

giovedì 23 giugno 2011

La svista

C’è stato un tempo in cui cercai la bellezza nella florida provincia della letteratura italiana. Domandai parecchio in giro, finché un passante coi capelli grigi non rispose:
«Chiedi di Dante Alighieri, figlio di Alighiero di Bellincione, e ti sarà data».
Ed io dissi: «Non potrebbe fare in modo di presentarmela lei direttamente, la bellezza? Perché proprio quel Dante?».
Ed egli: «Anch’io abito in questa provincia. Anch’io ho conosciuto la bellezza, e l’ho cantata. Ma ora è tutto finito». E con un balzo incerto tirò dritto. Prima che sfumasse irrimediabilmente nella bruma, lanciai un grido di domanda: «Perché, signore, perché?».
Ed egli: «Non chiederci la parola».

venerdì 17 giugno 2011

La calca

Johnny Scalera disse: «Questa calca non vale niente. Ma, là in mezzo, c’è una donna che giustifica tutta la feccia». Ciò lo pensava in mente sua, senza conoscere il pensiero di chi aveva affianco.
Anch’egli, quello affianco, rimuginava: «Questa ressa è uno sparo a vuoto. Ciò nonostante, là in mezzo, c’è una donna che giustifica tutto il marcio». Ciò lo pensava in mente sua, senza conoscere il pensiero di chi gli stava di fianco.
Anch’ella, quella di fianco, si agitava dentro di sé: «Questa folla è un colpo mancato. Eppure, là in mezzo, c’è un uomo che giustifica tutte le scorie». Ciò lo pensava in mente sua, senza conoscere il pensiero di chi le stava accanto.
Anch’egli, quello accanto, ponderava: «Questo flusso di gente è un tempo sprecato. Là in mezzo, però, c’è una donna che giustifica tutte le offese». Ciò lo teneva in mente sua, senza conoscere il pensiero di chi aveva dalla sua parte.
Anch’ella, quella dalla sua parte, rifletteva: «Questa massa è un luogo perduto. Ma, là in mezzo, c’è un uomo che giustifica tutto lo schifo». Ciò lo teneva in mente sua, senza conoscere il pensiero di chi aveva dall’altra parte della piazza.
Poi, anch’egli, proprio colui che era stato appena chiamato in causa dall’altra parte della piazza, constatava: «Calca di gente inane! Ma, là in mezzo, c’è una donna che giustifica questa feccia». Ciò lo pensava in mente sua, senza conoscere il pensiero di quella donna ch’era lontana, dall’altra parte della piazza. E, in seguito, capitò lo stesso per i quattro che a loro volta erano stati chiamati in causa dai primi quattro. E poi per altri quattro, e altri quattro ancora.
Finché ognuno di essi non trovò nell’altro – ognuno all’oscuro dell’altro, la giustificazione della calca intera, di per sé ingiustificata. 

mercoledì 15 giugno 2011

Dicono che la mia, E. Montale



Dicono che la mia 

sia una poesia d’inappartenenza.
ma s’era tua era di qualcuno: 
di te che non sei più forma, ma essenza. 
dicono che la poesia al suo culmine 
magnifica il tutto in fuga, 
negano che la testuggine 
sia più veloce del fulmine. 
Tu sola sapevi che il moto 
non é diverso dalla stasi, 
che il vuoto é il pieno e il sereno 
è la più diffusa delle nubi. 
Così meglio intendo il tuo lungo viaggio 
imprigionata tra le bende e i gessi. 
Eppure non mi dà riposo 
sapere che in uno o in due noi siamo una sola cosa.

martedì 14 giugno 2011

E’ il momento di costruire un’alternativa progressista: innovazione e riforme


E’ da poco terminato il calderone dei referendum. I dati sono evidenti e inoppugnabili: un’affluenza di poco superiore al 57% per una percentuale complessiva dei SI pari al 95%. Sono indubbiamente indici rilevanti che obbligano ad un’attenta analisi politico-strutturale. Il primo aspetto che vorrei prendere in esame è il contenuto dei referendum, qualificato da materie importantissime, ma dal valore esclusivamente simbolico e politico. Sono personalmente soddisfatto per il voto sul nucleare; anche se il quesito poteva sembrare superfluo per il semplice fatto che tutte le Regioni italiane si sono già opposte alla costruzione di centrali nucleare, dalla valanga di si ne hanno per lo meno tratto vantaggio i titoli delle aziende di energie rinnovabili quotate in Borsa: occorrerà, se non altro, formulare nuove strategie energetiche, anche alla luce delle dinamiche globali che stanno infervorando il resto del mondo – dal Giappone ai Paesi arabi -. I quesiti sull’acqua e sulla remunerazione del capitale, a mio parere, non sono stati assolutamente compresi; intendiamoci, di per sé il contenuto della Legge Ronchi era abbastanza indecifrabile, ma con la vittoria dei Si nessun gestore del servizio idrico, pubblico o privato che sia, potrà più effettuare alcun investimento, pena l’indebitamento esponenziale (e visti l’elevato debito pubblico e lo scarso virtuosismo delle società partecipate l’ipotesi è da escludere): tutto ristagnerà, probabilmente – e non auguriamocelo – anche l’acqua. Per quanto riguarda il legittimo impedimento, già la Corte Costituzionale si era pronunciata in gennaio dichiarandone l’incostituzionalità. Non sono personalmente contrario all’idea che chiunque ricopra una carica istituzionale debba essere esentato dall’obbligo di presentarsi ai processi. Tuttavia, è indiscutibile che una norma del genere non sia realizzabile in un sistema governativo come quello italiano, in cui il Primo ministro conserva la sua funzione da diciassette anni quasi ininterrottamente. Detto ciò, sebbene la campagna referendaria sia stata affrontata in maniera decisamente inadeguata e superficiale, è altresì innegabile che le votazioni abbiano registrato un responso unanime. Parliamoci chiaro: l’attuale fase politica, quella del berlusconismo, è definitamente sul crepuscolo. E qui vorrei aprire i battenti alla seconda questione da affrontare. Premetto e sono convinto che questo governò resterà in carica fino al 2013; non conviene a nessuno, in primis alla Lega, interrompere la legislatura senza aver ancora portato a termine le battaglie sul federalismo e senza essere riuscita a rimarginare le delusioni del proprio elettorato dovute alle sconfitte delle recenti amministrative: sul fronte governativo si prospetterà dunque una regolare accondiscendenza del Premier ai capricci del Carroccio, corroborata dalle più frequenti divergenze di Berlusconi con il Ministro dell’Economia Giulio Tremonti. Ma che cosa si delineerà, invece, sul versante dell’opposizione? Ora come ora stiamo osservando una reale crisi d’identità di questo centro sinistra, come se non bastassero già quelle all’interno del PD. Se da una parte, infatti, Bersani invoca le dimissioni del premier (alla faccia di chi non lo definiva un referendum politico) dall’altra assistiamo allo sfogo giustificato di Di Pietro, che dopo aver profuso una stragrande quantità di energie per ottenere questi referendum, chiede di non strumentalizzare l’esito del voto. Dissapori quindi, in una sinistra disgiunta dagli espedienti e unita dalla mancanza di progetti condivisi. E nell’attuale terzo polo che succede? Non capisco francamente quanto possano essere proficue, nel momento in cui non siano fini a se stesse, le richieste di Casini, Fini e Rutelli di andare al voto. In questo momento sarebbe come fare la barba all’asino, visto che non si presenta di fatto nessuna alternativa valevole. Questo è, in primo luogo per i pochi esponenti liberali rimasti in scena, il momento ideale per apporre una dovuta e positiva riflessione sull’esito dei referendum. Prenderne atto si, ma cercare di ripartire per costruire una successione liberale e democratica, che si impegni in un programma improntato sulle riforme per dare luogo a quella rivoluzione liberale che il signor B non ha mai messo in pratica. Deve risuonare come un unico appello alle forze moderniste e riformatori di tutte le aree, che desiderino unirsi con l’intenzione di scongiurare eventuali derive oclocratiche e populistiche prive di proposte fattive. Lavorare sulle riforme, da quella energetica a quella fiscale; formulare proponimenti per combattere l’evasione fiscale e per riequilibrare il debito pubblico; cercare di sviluppare proposte concrete per rilanciare l’economia; dialogare e ascoltare tutti i rappresentanti delle categorie professionali e prendere l’Unione Europea come punto di riferimento, con la nomina di Draghi a governatore della BCE è una mossa più che mai necessaria. Non si tratta di cavare il latte del toro. E’ l’unica iniziativa plausibile per riacquistare l’avvicinamento di una società civile disillusa e svilita, che da troppo tempo cerca delle risposte reali e tangibili dal mondo della politica. Ci troviamo in un momento di confusione strutturale manifesta. Solo una rinascita liberaldemocratica, come è capitato molto spesso nel Regno Unito e nel mondo in seguito ai mutamenti internazionali durante il  corso della storia, potrà colmare l’attuale assenza di realismo politico.

lunedì 13 giugno 2011

Nel corridoio

«L’unione tra me e Odette è una necessità cosmico-storica. L’altro giorno è accaduto così: bevevo un caffé e mi son detto: ‘Diavolo d’un uomo, non lo senti che ella t’ama?’. Vedrai, compagno di sbornie, quel che accadrà fra qualche anno…», disse in tono minaccioso uno ad un altro.
«In che senso è una necessità?», domandò l’altro all’uno.
«Nel senso che l’Eterno e l’Indissolubile hanno già stabilito, fin dalla notte dei tempi, il nostro legame. Le circostanze mi daranno ragione. Sono pronto a scommetterci…», dichiarò l’uno all’altro.
«Sicché tu credi nella predestinazione?», chiese l’altro all’uno.
«No. Ma credo nell’Assoluto», esclamò uno dei due.
«E il libero arbitrio?», s’udì un suono indistinto.
«Questo non saprei proprio. Ma ti assicuro che, sebbene ci dividano migliaia di assurdi chilometri, anni interminabili, secondi infami, luoghi invisibili, sebbene la Vicenda ci distolga dai reali avvenimenti, io ti dichiaro, compagno, che l’unione tra me e Odette sia certamente una necessità cosmico-storica…», gridò pieno di fervore l’uno.
«Può darsi che sia così, nessuno osa negarlo. Ma, razza d’istrione, vuoi essere serio una buona volta! Vuoi prendere un treno, un’automobile, un mezzo di locomozione, una qualsiasi ferraglia e correre incontro alla necessità? Sei qui, immobile, nell’ampia stanza scricchiolante a scrutare il mondo dal di fuori come una bacca spremuta nella mano del fattore. Ma i fattori muoiono, e le bacche restano nelle macchie selvatiche», sbraitò l’altro.
«La necessità busserà alla mia porta…».
«Vedi porte in questa stanza?».
L’uno si sporse dal divano, al sorriso dissennato dell’altro, e vide soltanto il lungo, interminabile corridoio.

sabato 11 giugno 2011

L’albero di Giuda


Stavrogin: Ohè!
Kirillov: Voi qui?
Stavrogin: Vado ad ammazzarmi.
Kirillov: Perché?
Stavrogin: Perché avrei voluto non nascere mai…
Kirillov: Anch’io.
Stavrogin: Siamo ridicoli?
Kirillov: Né sì né no.
Stavrogin: Il ridicolo uccide?
Kirillov: Né sì né no.
Stavrogin: Tu che farai?
Kirillov: Un colpo di rivoltella. E tu?
Stavrogin: Un nodo di corda.
Kirillov: Morrai col vento alla gola.
Stavrogin: Morrai col fuoco al cervello.
Kirillov: Eppure sarebbe bastata una sua parola.
Stavrogin: Di chi?
Kirillov: D’un salvatore!
Stavrogin: I salvatori non sono nati per salvare.
Kirillov: E per cosa, di grazia?
Stavrogin: Per levarsi la maschera.

Silenzio.

Stavrogin: Voglio soltanto morire, Kirillov. Morire fino a perdere qualsiasi legame con la realtà. Ma so che non sarà così semplice. Qualche voce lontana – un sibilo schiacciante, una sirena – mi tradirà proprio nell’attimo del trapasso. E sul mio albero, all’orlo della rama in primavera, nasceranno fiori bianchi.

giovedì 9 giugno 2011

Il commissario Maigret nella draga

Quando il Maigret occhi di bragia che presaga, alla fine della saga, da Praga, passando fintamente per Braga, giunse nella draga, il suo interlocutore comprese ciò che stava per compiersi.
«Bien, mon ami, che facciamò?», disse Jules, accovacciandosi nel posto affianco del guidatore.
«Nullà…», rispose contro ogni previsione quel tizio, imitando il Française del commissario.
«Vous mi prendetè in girò?», e guardandolo al commissario venne un colpo: i due erano, fisicamente parlando, pressoché identici. La draga gialla voltava e svoltava sotto i comandi dell’ipostasi.
«Oh, non mi pemettereì maì, monsieur!».
«E invecè oui!».
«Non…».
«Oui!».
«Non…».
«Oui!».
«Oui!».
«Non…».
«Bien…».
«Bien un cornò! Vi statè prendendo giocò di moi?».
«Non, monsieur! Vous, forsè…».
«Non…».
«Oui!».
«Non…».
«Oui!».
«Oui!».
«Non…».
«Bien…».
«Abbiamò mischiatò le cartè in tavolà… chi sonò iò, monsieur, il commissariò o l’ipostasi?».
«Parbleu! Non sapreì propriò!».
«Bien, è quellò che volevò…».
«Allor vous sapetè chi sietè?».
«Certainement!».
«Se vous sietè così sicurò d’esser chi vous siatè, non potetè che esserè ciò che non sietè, ovverò l’ipostasi!».
«Argutò…».
Al che sopraggiunse un silenzio mortale tra i due. Confesso che nemmeno io, testimone oculare del dramma nella draga, sarei riuscito stabilire chi fosse l’ipostasi e chi il ‘vero’ commissario, poiché, nel bel mezzo del parapiglia linguistico, essi si scambiavano vorticosamente di posto, quasi che fossero sul punto di fare a cazzotti. Ma, infine, a che sapere la loro esatta identità? Cosa cambierebbe nel mondo? A chi interesserebbe? Agli uomini che camminano senza guardarsi per bianche strade, imprigionati nei loro pensieri? Forse che l’umanità guerriera, compiaciuta della risoluzione istantanea del caso, vivrebbe in pace con se stessa e con la natura? Nulla di tutto questo. In verità, codesto è solo l’episodio minore di un’esistenza fatta di episodi minori. E’ una bazzecola, una cronaca riportata per sbaglio, una mera curiosità da letterati. Ciò nonostante, sebbene lo scioglimento dell’enigma non incuriosisse neppure i due protagonisti, essi ripresero ad accusarsi l’un l’altro, col sole che colava a picco – sangue alla testa, fango incancrenito, draga giallo ocra, brughiera bruciata.
«Argutò un cornò! Vi statè prendendo giocò di moi?».
«Non, monsieur! Vous, forsè…».
«Non…».
«Oui!».
«Non…».
«Oui!».
«Oui!».
«Non…».
«Bien…».

Shakespeare, "Romeo e Giulietta", I, IV (La Regina Mab)


ROMEO
Ho fatto un sogno, stanotte.

MERCUZIO
Anch'io ho sognato.

ROMEO
E che hai sognato?

MERCUZIO
Che spesso i sognatori mentono.

ROMEO
Quelli che sono addormentati a letto sognano cose vere.

MERCUZIO
Ah, vedo che la Regina Mab è venuta a trovarti, lei, che tra le fate è la levatrice, e viene, non più grande d'un'agata al dito d'un consigliere, tirata da un equipaggio d'invisibili creature fin sul naso di chi giace addormentato.
Il suo cocchio è un guscio di nocciola lavorato dallo scoiattolo falegname o dal vecchio lombrico, da tempo immemorabile carrozzieri delle fate. I raggi delle ruote sono fatti con le lunghe zampe dei ragni, la capote con ali di cavalletta, le redini con la ragnatela più sottile, le bardature con umidi raggi di luna, la frusta con l'osso d'un grillo, la sferza d'impercettibile filo, il cocchiere è un moscerino dalla grigia livrea, più piccolo della metà del vermetto tondo colto dal dito delle fanciulle pigre.
Su questo cocchio, notte dopo notte, galoppa nelle menti degli amanti riempendole di sogni amorosi; oppure eccola sulle ginocchia dei cortigiani, che subito sognano riverenze; o sulle dita degli avvocati, che sognano allora parcelle; o sulle labbra delle donne, che sognano baci, e che invece spesso, la perfida Mab ricopre di bollicine, adirata per l'alito che sente di dolciumi.
Altre volte galoppa sul naso d'un gentiluomo di corte, e quello in sogno sente allora il sapore d'una supplica ben ricompensata; oppure s'avvicina, con la coda d'un porcellino della decima, a sfiorare il naso d'un curato addormentato, e costui subito sogna un benefizio ancor più grasso; altre volte, col suo cocchio, si spinge sul collo d'un soldato suscitando sogni di gole tagliate, d'imboscate, d'assalti e di lame di Toledo, di brindisi in coppe profonde cinque tese; poi, all'improvviso, è sempre lei che gli fa risuonare il tamburo nell'orecchio, svegliandolo di colpo, e lui apre l'occhio, impaurito, bestemmia una preghiera o due, quindi, assonnato, ricade addormentato.
Ed è la stessa Mab che di notte intreccia le criniere dei cavalli, facendo coi loro luridi crini nodi d'elfi che a scioglierli porta grave sventura. È lei la strega che se trova vergini supine le copre, insegnando loro come sopportare un peso, rendendole donne di buon portamento. È lei...

ROMEO
Basta, basta, Mercuzio, calma. Tu parli di nulla.

MERCUZIO
È vero, parlo dei sogni, io, figli d'una mente oziosa, generati da un'inutile fantasia fatta d'una sostanza tenue come l'aria e più incostante del vento, che spasima ora per il gelido grembo del nord, ma poi, gonfia di rabbia, si svolge sbuffando verso un nuovo amore, il sud umido di rugiada.

mercoledì 8 giugno 2011

'L’udienza' di Marco Ferreri (1971)


Una storia di tutti, che in fondo però, non interessa nessuno. Uno dei film più maturi di Marco Ferreri, profondo e ricco di riflessioni sul potere, in cui il regista, nel suo consueto stile ricco di grottesco, rappresenta attraverso una sorta di parabola la vita umana. Amedeo è un timido ragazzo cattolico il cui più grande desiderio è avere un colloquio personale con il papa; il suo non è un desiderio puerile e guidato dal timore, egli afferma che ciò che ha da dire al santo padre sia di grande importanza per entrambi, egli ha un messaggio che deve essere a tutti i costi recapitato, ma la sua avventura alla ricerca del ‘Padre’ ricorda il Castello di Kafka: il suo tentativo di scalare dal basso la scala gerarchica della chiesa si trova ad essere interrotto sin dai gradini più bassi della burocrazia, sin dai più piccoli funzionari, che diventano muri impenetrabili oltre i quali non si può procedere. La parabola di questo film, pur essendo, nella sua interpretazione più prossima, una accusa alla volontà della chiesa di conservare, soprattutto con la figura del papa, la sua aurea di sacralità e lontananza, può essere tranquillamente ampliata fino a diventare parabola della vita umana, come già Kafka ci ha mostrato in racconti come il già citato Il Castello e Il Processo, nei quali la condizione umana è vista come un eterno tentativo di oltrepassare la propria miseria cercando di raggiungere il proprio ‘padre’, il proprio significato.
Amedeo, come i personaggi Kafkiani, si accorge che per raggiungere il proprio obbiettivo, l’assoluto, si deve fare i conti con quanti da questo assoluto ci separano: qui entra in gioco il Potere, con la sua capacità di far leva sulla imperfezione umana fino a creare muri e scale dove non c’è che l’abisso. Oltre alla burocrazia di un sistema creato dall’uomo e dimentico dell’uomo, entrano in gioco, contro di lui, anche la passioni più proprie dell’essere umano, quelle più viscerali, come l’amore. Tutto sembra muovere contro questo incontro, nessuno vuole che il giovane portatore del messaggio possa raggiungere il destinatario. Giungerà questo messaggio a destinazione? Riuscirà l’uomo comune a raggiungere l’assoluto, la fine della scala gerarchica, il senso delle cose? E se il fallimento sarà il compimento di questa vita di ricerca e di lotta, sarà sufficiente questo sacrificio a placare la volontà umana di spezzare la propria miseria? Oppure ogni volta avrà un nuovo inizio ed ogni uomo dovrà far fede alla propria natura ed affrontare, come il povero Amedeo, la sua personale e condivisa condanna?    

Essere se stessi

Perché non sono quella musica che ascolti per caso da un registratore ambulante, con gli aghi di pino e lo scirocco nell’aria di vetro, – sguardi nocciola a fronte di tempesta galoppante, ch’io possa dimenticare i miei stessi sensi.
Perché non sono quella musica.
Perché non sono quella parola, il detto autorevole vieppiù se catartico. Non attenderei il gelo di Febbraio per sparire dai quartieri generali, – il tuo viso travagliato un suono di parola.
Perché non sono quella parola.
Perché non sono la natura d’impatto – richiami di falchi, fasce d’azzurro inghiottite, fiori virginali, che il mondo ti prenda e non mi restituisca quel tuo essere altro da me.
Perché non sono quella natura.

***

E invece son costretto ad essere solo me stesso, un tipo barbuto e scarno che bazzica dietro a libri e manoscritti in disuso, sempre alla ricerca dello stabile; e tutto a causa d’un frammento, che mai avrei conosciuto e per il quale mai avrei patito, sprofondato nell’ignoranza dell’altro ad un’anti-memoria, se non fosse stato per te.
Perché, dunque, sono me stesso?

martedì 7 giugno 2011

Una liaison letale

«Polizia, il russo è qui…», gridò la locandiera, prima di deporre il telefono della cucina e uscire dal retrobottega.
«E ora, alla volta di Roma!», disse a se stessa con strenua decisione. Ma il suo progetto d’affrancamento era destinato a fallire, perché la polizia provinciale raggiunse l’autobus nel quale la donna giaceva e la invitò con cortesia a scendere.
«Cos’è successo?», chiese ella, atterrita da tanta serietà e rigore.
«La sua telefonata brusca c’ha inquietato. Abbiamo ragionato per molto tempo sulla sua frase sprezzante, ma non siamo riusciti a cavar fuori nulla di che…».
«Ciò che ho detto fu una sciocchezza!».
«Lei ha parlato d’un russo senza preambolo e poi è fuggita lasciando l’intera locanda priva di guarnizione…».
«Ho da colmare una liaison!».
«Bene, bene. Nessuno di noi vuol entrare nelle schermaglie amorose della sua vita da disadattata. Sappia, però, che non è possibile inquietare la polizia a questa maniera. Noi siamo al servigio dei cittadini, ed essi ci debbono rispettare, per cui abbia la compiacenza di seguirci in caserma: la sua deposizione contra il russo diverrà necessaria, o pagherà cara l’insolenza…».
«Non posso seguirvi, signori poliziotti. Ho un bel gran daffare quest’oggi!».
«Fare all’amore con un amante le sembra un gran daffare? – osservò con arroganza uno dei due sbirri – La vita chiede questo alle giovani locandiere, finché un errato battere di ciglia non isterilisce la visione d’insieme e il giro che governa le vite infangate non torna a dar noie…». Ma nessuno degli astanti avrebbe mai potuto immaginare che la donna fosse armata e ancor di più che avesse una confidenza tale con pistole e rivoltelle da sorprendere gli accorti sbirri e ferirli a sangue. In breve, risalì sull’autobus e ordinò al conducente di ripartire senza indugio.
«E ora, alla volta di Roma! La Vergine Maria possa perdonare la mia intemperanza!». Sarebbe poi riuscita ad attraversare i monti, giungere alla città eterna e passare per via Alba Longa? 

lunedì 6 giugno 2011

Anime in pena

Ho l’anima nera come Johnny Scalera, – l’anima scura come l’occhio di prua. L’anima bruna giace a un guizzo di Fortuna. Ho l’anima bianca se manca la vita arlecchina; un cappotto beige per i miei – compagni, andate a ramengo!, ma tu, señorita, spezza per me la rosa, – la mia Fortuna un colpo di frusta.
Sicché quest’anime in pena non tralascerebbero di scapicollare nel primo roveto di collina, se non fosse per qualche ottuso sciacallaggio che le ha traviate, le ha impiombate alla ratio. Eppure, lo si sa, lo spirito viaggia e vaga; s’impelaga sulla grossa scogliera.
Al che la lingua stanca, scorgendo la sua rosa sfiorita, dice: «Ho l’anima nera come Johnny Scalera. Ho l’occhio di prua. Señorita. La Fortuna il mio colpo di frusta».

sabato 4 giugno 2011

«Dichi, Vendola, dichi»

Nichi Vendola in Urbino al Festival della felicità, perdindirindina.
Precisiamo: il presente non è un articolo polemico contro l’arguto rètore apulo, il quale ha ultimamente dimostrato d’esser il vero campione della democrazia, dopo l’assai schietto ‘fanculo’ in virtù del quale ha ridotto al silenzio il portavoce del Pdl, Gaspare; fatta questa inutile premessa, certo è che qualcosa da dire la dovremo pur dire.
Sicché: a parte il fastidioso sibilo con cui è solito condire le sue ‘frassssssssi’, non esiterei a definire Vichy un demagogo misticheggiante, un metropolita glossocratico, una menade del rococò lessicale (tanto per fornire un assaggio del suo stesso background linguistico).
Un esempio su tutti:
«Quessssto mito della bellezza fassscinosssa! Ma di quale bellezza sssi parla? Delle sssinuose gambe della $$$$antanchè, del favolissstico ideal-tipo delle veline? Forssse che i malati, gli sssstorpi, le persssone con handicap sssiano da conssssiderarssssi e da definirsssi ‘brutti’? La bellezza giace e perdura nel lavoro, nella fatica (et cetera et cetera)…». Pioggia d’applausi del pubblico urbinate, logikw^j[1]. Quichi ghigna, soddisfatto della sua performance.
E’ lampante che quel serpente d’un Michi sia un abile venditore dei suoi stessi traumi, ma il punto è questo: nessuno di noi ha mai detto che quel dirigibile della Santanchè sia appetibile, né tanto meno che sia pudica e leggiadra (lo stesso dicasi per le veline, attanagliate come sono da una dislessia direttamente proporzionale alla sobrietà dei loro stacchetti); in parallelo, nessuno di noi s’è mai sognato di prendere in giro un infermo per via della sua presunta ‘bruttezza’. Ergo: Chichi s’è inventato di sana pianta un problema inesistente (perlomeno a livello locale), pur di ciondolarsi edonisticamente nello scroscio degli applausi montefeltreschi. Questa la nostra interpretatio[2].
Ciò nonostante, qualcosa di buono Zichichi l’ha fatto: ha citato Gesù, Isaia, Ezechiele, Zaccaria e metà Antico Testamento, strappando anche in tal frangente un deciso plauso agli astanti urbinati, i quali, lo si sa, per noti motivi storico-metafisici, vomitano ettolitri quadri di bestemmie al giorno. Quindi, riprendendo un antico proverbio rinascimentale, diremo: meglio un terrone cristiano e sibilante in casa, che un marchigiano ubriaco che bestemmia dietro la porta.
Comunque sia, sembra davvero che Psychi, quando non è incalzato dal nemico autocrate, dia il meglio di sé in fatto di vernacolo oclocratico. Riportiamo parte della sua arringa finale:
«Il porgi l’altra guancia del Cristo è stato intessuto d’una semantica strutturale acerba e, a grigi tratti, variopinta. Pensateci. Quando uno mi tira uno schiaffo (e farebbe bene NdR) e io gli rispondo con due, battendolo (non credo che ci vogliano solo ‘due schiaffi’ NdR), non oppongo al vero alcun sistema culturale a quello di base, impostomelo. Sì certo, ho vinto in termini militari, ma non relativi alla cultura, istruttivi, formativi, poiché ho soggiaciuto alla sua precedente ingiunzione di porre un linguaggio somatico e una comunicazione univoca e solipsista[3]: egli quindi mi ha vinto[4]. Invece col porgi l’altra guancia avrebbe vinto me medesimo, in quanto avrebbe istituito una differente facies (di schiaffi NdR) allocutiva e performativa. Ecco tutto». Perdincibacco, che chiarezza esplicativa!
Dopo qualche secondo di panico nero e smarrimento, l’uditorio urbinate risponde ancora con un plauso a carattere torrentizio.
Gli è che, a onor del vero, non possiamo lamentarci troppo della te/knh r9htorikh\ del Tychi per un semplice motivo: a ognuno il Presidente del Consiglio che si merita: a ognuno l'opposizione che si merita.


[1] Dal greco classico, significa: «logicamente».
[2] Dal latino classico, significa: «interpretazione».
[3] Dal vendoliano classico, significa «un cazzo».
[4] Sillogismo dalla dubbia linearità.

venerdì 3 giugno 2011

Qualcuno briga qualcosa al 'Metropolitan' di New York

Nikolaj Stavrogin fu l’ultimo a comprare il biglietto. Con enorme ritardo fu scortato dalla maschera nelle retrovie del teatro, quando il secondo atto era già bell’e finito. La platea cominciò ad esprimere senza condizioni il suo disappunto per la sfacciataggine del giovane. Una signora, imbellettata da cima a fondo, sprezzante della compagnia errante che recitava di gran lena, si voltò verso Stavrogin e gridò:
«Razza di screanzato, dovresti vergognarti del tuo comportamento malsano! Avevano già chiuso le porte del teatro, ma tu le hai fatte riaprire celermente. Credi che tutto si possa fare, passandola liscia? Non meriti d’essere qui…».
«Lasciate stare quel povero diavolo!», sentenziò un altro in sua difesa, dal fondo della platea. Ma Stavrogin non rispose all’offesa, né ringraziò di cuore il suo avvocato. E quando si sedette, ebbe fine il clamore. Nondimeno la vicenda era destinata ad aleggiare ancora un po’, benché le risa degli spettatori parevano aver attutito il colpo a sangue. Un tedesco coi capelli lisciati e i baffetti gonfi si avvicinò al giovane, intento a godere dello spettacolo. Schioccò le dita per ricevere la sua attenzione.
«Ebbene, è questo il modo, è questo?», chiese infervorato.
«Il modo di cosa?», domandò Stavrogin con coraggio.
«Il modo di vivere. Così, seduto su di una poltrona nera. Occhi fitti. Moria penetrante d’intorno. Geli a cui nessuno può rispondere. E sguardi in direzione d’un dramma che si svolge…».
Al che il giovane Stavrogin disse:
«Avrai ben poco d’accusare nei momenti di squallore, perché il cielo rimarrà dov’era, il tempo rimarrà dov’era, il posto in poltrona rimarrà. Se è vero che un giorno si assisterà ad un lungo processo contro gli atti compiuti dal tuo fare impuro, tu non sarai il solo imputato, credimi, perché avrai vissuto quei momenti di squallore tuo malgrado».

giovedì 2 giugno 2011

E. Rostand, 'Cyrano', atto III, scena del balcone

(Rossana, al balcone. Cirano e Cristiano, nascosti dietro gli alberi)


CIRANO:
                    Lasciatemi coglier questo pretesto
dell'occasione che qui ci offre il potersi
parlare sì dolcemente, così.

ROSSANA:
                                               Senza vedersi?

CIRANO:
Ma sì, è incantevole, ci indoviniamo appena.
Voi sentite un mantello che del nero si svena,
io intravedo un biancore di veste che vapòra.
Io non sono che un'ombra, voi l'eco di un'aurora.
E immagino di non avervi mai parlato avanti…

ROSSANA:
È vero, i vostri toni erano meno stimolanti.

CIRANO:
Sì, perché nel buio che mi va proteggendo
io oso essere me stesso e oso… Stavo dicendo?
Ah, non so, è così tutto… scusate l'emozione…
così delizioso, così nuova occasione.

ROSSANA:
Così nuova?

CIRANO:
                       Sì, d'essere sincero. La paura
di essere dileggiato contro di me congiura.

ROSSANA:
Dileggiato?

CIRANO:
                      Ma… per uno slancio. Sì, il mio cuore
del mio spirito sempre si veste per pudore.
Ah, lo spirito è inutile in amore! È da canaglia
prolungare in amore l'inutile battaglia.
Il momento poi viene, senza un ripensamento,
e rimpiango coloro a cui non tocca un tal momento,
quando sentiamo in noi che un amore nobile esiste
e che anche un lieve cenno lo può rendere triste.

ROSSANA:
Sì, il momento è questo e ci offre ora il suo frutto.
Che cosa mi direte?

CIRANO:
                                  Ma tutto, tutto, tutto,
così come sarà darò ciuffo per ciuffo
senza farvene un fascio. Vi amo, e mi ci tuffo,
t'amo! Son pazzo, non ne posso più, è troppo!
Ed il tuo nome in gola è un nodo, un cappio, un groppo.
Di te io mi ricordo ogni fatto, tutto ho amato.
Io so che un giorno, il dodici maggio l'anno passato,
cambiasti, per uscire al mattin, pettinatura.
Fu come un nuovo sole, la tua capigliatura.
Ti è chiaro allora adesso? Infin lo vuoi capire?
Senti l'anima mia nell'oscurità salire?
Oh, è vero che stasera c'è un sogno intorno a noi.
Io che vi dico questo, voi mi ascoltate, voi.
Be', è troppo. Nella speranza più modesta
mai ho sperato tanto. Per questo non mi resta
null'altro che morire. È per i miei sussurri
ch'ella trema furtiva lassù, tra i rami azzurri?
Scende il tremor bramato dalla tua mano insino
all'ultimo dei fili di questo gelsomino.

ROSSANA:
Sì, io tremo, e io piango, e cedo alla tua corte,
tu mi hai inebriata.

CIRANO:
                                Allor venga la morte…
Quell'ebbrezza, è la mia, che ha espugnato la rocca.
Io non domando altro che chiedervi…

CRISTIANO:
                                                                la bocca!

ROSSANA:
Eh? Cosa? Voi chiedete…?

CIRANO:
                                              Sì, io… vai troppo in fretta!

CRISTIANO:
Visto che è tanto scossa, e diamoci una stretta!

CIRANO:
Sì, io ho chiesto, è vero… ma santo cielo!…
però quello che dico non è sempre vengelo.
Il bacio… no!… fa niente, la richiesta è precoce.

CRISTIANO:
Perché?

CIRANO:
                  Crepa, Cristiano!

ROSSANA:
                                                 Che dite a bassa voce?

CIRANO:
Sono andato lontano, e non ho un'attenuante.
Io mi dicevo: "Taci Cristiano, un istante!"

CRISTIANO:
Ottienimi quel bacio!

CIRANO:                     Aspetta!

ROSSANA:
                                                      Sono sola?

CIRANO:
Parlavamo di un bacio…

ROSSANA:
                                         No…

CIRANO:
                                                      Sì, è dolce la parola.

ROSSANA:
Tacete.

CIRANO:
              Un bacio… ma cos'è, così d'un tratto?
Un giuramento reso tra sé e sé, un patto
più stretto... È come un traguardo che insieme è un avvio,
un punto rosa acceso sulla "i" di "amore mio",
un bisbiglìo alle labbra perché l'orecchio intenda,
il brivido del miele di un'ape che sfaccenda,
una comunione presa al petalo di un fiore,
un modo lungo e lieve di respirarsi il cuore
e di gustarsi in bocca l'anima poco a poco.

ROSSANA:
Tacetevi, vi prego.

CIRANO:
                               Sì, taccio o vado a fuoco!
Sali!

CRISTIANO:
           Però adesso mi sembra che sia male…

ROSSANA:
Ci siete sempre?

CIRANO:
                             E monta, gran pezzo d'animale! (Rossana e Cristiano escono)



[trad. it. di Oreste Lionello]

mercoledì 1 giugno 2011

La poesia è «morta», ma i poeti «resistono»?

Intervista rilasciata dal poeta Massimo Gezzi, assistente alla cattedra di Letteratura italiana dell’Università di Berna, al termine dell’aperitivo letterario «Montale vs. Pasolini?», in cui sono stati presentati i libri Diari del '71 e del '72 di Montale a cura di Massimo Gezzi, e In corso d'opera. Scritti su Pasolini di Antonio Tricomi.
                                
Professor Gezzi, abbiamo visto come sia nella produzione di Montale che in quella di Pasolini a partire dagli anni ’70 inizi una fase di decadenza, determinata principalmente dalla sfiducia e dalla disillusione dei poeti nei confronti del loro ufficio. Quanto questo atteggiamento di ‘rinuncia della poesia’ manifestato da alcuni dei maggiori poeti del nostro Novecento ha influito sulla «morte della poesia» nella società contemporanea?

Credo che esso in realtà abbia influito molto poco. Il problema è che è cambiata la società in cui la poesia esiste. Montale nei suoi saggi descrive chiaramente quello rappresentava la nascita della società di massa per i poeti: la sconfitta e la fine di quello che c’era stato fino allora, la distruzione del privilegio dell’intellettuale. Il suo atteggiamento di fronte a questo cambiamento è ambivalente: dapprima egli sembra predicare una resistenza nei confronti della ‘società del consumo’, affermando che gli intellettuali «devono restare ad occhi aperti», ma poi cede e mostra un’estrema sfiducia nei confronti del ruolo che la poesia può avere in tale società. Sul finire della vita, però, non senza indispettire i giornalisti e i critici, Montale finirà per mostrare una certa comprensione nei confronti della nuova società, rinnegando le sue precedenti posizioni.
Tuttavia l’atteggiamento dei poeti, a mio parere, è stato solo la naturale reazione a qualcosa di molto più grande che agito di fronte a loro: la nascita della società di massa che ha tolto il mandato ai letterati, affidandolo ad altri, come ad esempio i cantanti. Ma la poesia sa resistere a tutto perché non è un’arte sociale.

Si suole dividere, come lei ha ricordato oggi, la poesia di Montale in due fasi, la cui cesura è rappresentata da Satura, raccolta che segna il passaggio dalla ‘poesia dell’assenza’ a quella che può essere definita una ‘assenza della poesia’. In che senso si può parlare di ‘assenza della poesia’ nell’ultimo Montale?

Fino alla Bufera ed altro Montale ha una concezione altissima della poesia: essa ha per lui un compito importante. Con Satura cessa la possibilità di considerare la poesia come qualcosa di alto: essa da fine diviene un semplice mezzo per parlare di altro. Questa raccolta segna la fine per Montale della fiducia nella poesia come compito: in questo senso si può parlare di ‘assenza della poesia’.

Passando da Montale a una considerazione più ampia, la poesia, secondo lei, può tornare oggi a svolgere un ruolo importante nella società, come ha sempre fatto nel tempo, e se sì, in che modo?

La poesia può riaffermare il suo valore e lo può fare esclusivamente restando quello che è. In questo momento storico globale essa non può convincere più di tanto, tuttavia conserva in sé un nucleo di resistenza. La poesia deve restare ‘Poesia’, misurandosi però con il nostro tempo. Solo così essa può fungere da contravveleno della società moderna e riaffermare il suo valore: restando se stessa.

Oggi i giovani si mostrano sempre meno interessati alla parola poetica. I cantanti  hanno sostituito in gran parte il ruolo che era dei poeti. Cosa si sentirebbe di dire a questi ragazzi Massimo Gezzi? Perché leggere la poesia, cosa si può trovare in essa che un’altra arte non può dare?

La poesia ha la capacità unica di reinventare la lingua. La parola non è inerme, si muove, costringe la lingua a rapportarsi con la realtà quotidiana. Questa capacità creativa e comunicativa è unica della poesia. Quando questa capacità si unisce alla ‘virtù pensante’ ecco che la poesia diventa una grande Arte.

Quali sono le sue aspettative per la poesia oggi?

Oggi, ancora di più che ieri, serve una poesia che continui a pensare e a creare. C’è bisogno di una poesia di profonda interrogazione, che abbia un effetto sulla realtà. Con questo non voglio sminuire il valore della lirica: non è detto, infatti, che le poesie impegnate siano le più dirompenti in ambito politico ­­− questo ce lo ha insegnato Gianfranco Fortini − e a volte una poesia di vena lirica può avere un’influenza maggiore di una poesia dichiaratamente impegnata.

«Pensare e creare» dunque: due capacità tipiche della poesia e insite nell’uomo. Forse proprio per questo la poesia resiste e non può che resistere in quanto essa è arte «umana» per eccellenza. Quali che siano le forze che agiscano contro di essa, uno stroncamento completo dell’uomo dalla poesia non può realizzarsi poiché la poesia è un bisogno dell’uomo, essa risponde alla necessità di interrogarsi tramite il linguaggio che crea, giusto?

Concordo pienamente.