venerdì 30 settembre 2011

Spazi IV

IV

Il rumore delle onde mi riporta un po’ di tranquillità. Penso a mio padre. Lo rivedo, stanco e con una vestaglia che manda odore di tabacco. I suoi occhi inespressivi fissi sul brusio della televisione, le mani abbandonate lungo la poltrona e due profonde rughe sulle guance; mia madre siede accanto a lui ma nessuno dei due sembra accorgersi dell’altro. Lei fa passare tra le dita un filo di lana che sembra portarsi dietro tutta la sua vita e cuce, con le sue mani ossute e grinzose, tutti i sogni di bambina, spezzati da ogni figlio cullato in grembo. No! non hanno ragione queste persone, non hanno affatto ragione. Ora li vedo, stanno tutti affondando nel mare. Gridano, si sbattono, cercano di salire in superficie per respirare, ma inesorabilmente il mare li inghiotte tutti, uno ad uno. Ah Ah! Ora sono io a ridere, sono io a guardarvi smarriti nell’illusione, a guardarvi fallire, a vedervi morire. A voce bassa sussurro a qualche passante che si intromette nei miei pensieri: “ vi state lentamente lasciando morire, vi state consumando”. Non so per quale motivo, ma quando mi guardano i passanti accelerano il passo e non mi ascoltano o fingono di non farlo. Allora vorrei rincorrerli, gridargli in faccia quello che si meritano e gettarli in mare, nel mare quello vero, così che si accorgano che stanno già affogando, quegli illusi.
Il sole comincia a calare, la brezza del mare mi accarezza la pelle. Mi addormento sempre di fronte al mare. Allora, un po’ rintronato e con un leggero mal di testa mi alzo, cammino fino al parapetto e mi sporgo ad osservare l’acqua, cerco di vedere il fondo, scavo, scavo con lo sguardo ma non lo riesco a raggiungere. Sempre mi coglie la voglia di gettarmi, mi trafigge il cuore una ventata di calore e lo stomaco mi si stringe. Che piacevole sensazione. Cerco di immaginare come sarebbe la mia morte se mi gettassi. Morirei annegato, come tutti, ma io lo farei davvero. Mi vedo precipitare sul fondo, senza opporre resistenza. Scivolare lentamente giù, sempre più giù, fino a toccare l’inferno. Che piacevole sensazione!
Il sole è ormai tramontato. Farlo di notte non avrebbe senso. Domani tornerò, domani.

 Fine

giovedì 29 settembre 2011

'Lo steddazzu' di Cesare Pavese

L’uomo solo si leva che il mare è ancor buio
e le stelle vacillano.  Un tepore di fiato
sale su dalla riva, dov'è il letto del mare,
e addolcisce il respiro.  Quest’è l'ora in cui nulla
può accadere. Perfino la pipa tra i denti
pende spenta.  Notturno è il sommesso sciacquio.
L’uomo solo ha già acceso un gran fuoco di rami
e lo guarda arrossare il terreno.  Anche il mare
tra non molto sarà come il fuoco, avvampante.
Non c'è cosa più amara che l'alba di un giorno
in cui nulla accadrà.  Non c'è cosa più amara
che l'inutilità.  Pende stanca nel cielo
una stella verdognola, sorpresa dall'alba.
Vede il mare ancor buio e la macchia di fuoco
a cui l'uomo, per fare qualcosa, si scalda;
vede, e cade dal sonno tra le fosche montagne
dov'è un letto di neve.  La lentezza dell'ora
è spietata, per chi non aspetta più nulla.
Val la pena che il sole si levi dal mare
e la lunga giornata cominci?  Domani
tornerà l'alba tiepida con la diafana luce
e sarà come ieri e mai nulla accadrà.
L’uomo solo vorrebbe soltanto dormire.
Quando l'ultima stella si spegne nel cielo,
l'uomo adagio prepara la pipa e l'accende.

mercoledì 28 settembre 2011

Spazi III

III

Ora ricordo, mi sovviene finalmente il motivo per cui partì tanti anni fa. Ero ancora un ragazzo, e quanto ero giovane allora e poetico; che tenerezza il ricordo! Ma sì, volevo fuggire il deserto, volevo dimostrare a me stesso e al mondo che qualche cosa si poteva edificare, si doveva edificare! che sarebbe bastato trovare nuovi spazi. Partì con l’illusione del bambino che attraversa per la prima volta lo steccato, con la gioia del poeta che sfiora l’assoluto, con l’anima più pura di una sorgente. Ed ora, che mi ritrovo a calpestare strade nuove che puzzano di bistecche arrostite e di rumori bianchi, mi pare di non essermi mai mosso dalla mia città. Dove, dove posso trovarli nuovi spazi? Ora che ho viaggiato tanto, conosciuto le più diverse vite, non so, certo non so. Dopo aver attraversato terre aspre dove l’uomo è un ospite o un fantasma; dopo aver superato città in cui l’uomo è il sovrano di un inutile regno di caos e macerie, dopo aver sviscerato i più disparati occhi e aver discoperto i più remoti scrigni, le labbra più serrate, mi accorgo che in tutti esisteva soltanto una paura immensa, una inconfessabile paura per la vita, che non portava ad altro che a cadere nel più meschino accontentarsi. Mi accorgo che l’amore e la paura sono, in fondo, la stessa cosa. Mi accorgo che è impossibile costruire verità, edificare sul nulla, sulla sabbia; soltanto gli asceti e i dotti sono capaci a edificare sul nulla, i poveri di spirito lo fuggono semplicemente, sbaragliandosi nel mare immenso e camminando sull’acqua, passeggiando come nulla fosse in mezzo ad una tremenda tempesta. Ma io non voglio fuggire, non posso accettare una casa, neppure un castello, se le fondamenta su cui è poggiato sono il nulla. Io voglio vivere, la mia forza vitale mi impedisce di costruire, di vendermi al demonio, all’avversario e mi impedisce di accettare quest’assurdità. Non mi resta che sorridere, un po’ a forza devo ammetterlo, ma non ho altro. E tu, Sara, ora anche tu nella mia mente. Quale candore poter credere che fosse una donna a potermi dare una ragione, quale pretesa e quale, in fin dei conti, ingenuità!
Questo mare, com’è eterno questo mare!


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lunedì 26 settembre 2011

Da 'La terra desolata' di T. S. Eliot

La sepoltura dei morti[1]

Aprile è il mese più crudele, generando
lillà dalla terra morta, mischiando
memoria e desiderio, eccitando
spente radici con pioggia di primavera.
L'inverno ci tenne caldi, coprendo
la terra di neve smemorata, nutrendo
una piccola vita con tuberi secchi.
L'estate ci sorprese, arrivando sullo Starnbergersee
con un rovescio di pioggia: ci fermammo sotto il colonnato,
e procedemmo nel sole, nel Hofgarten,
e bevemmo caffè e parlammo per un'ora.
bin gar keine Russin, stamm' aus Lituaen, echt deutsch.
E quando eravamo bambini, e si stava dall'arciduca,
mio cugino, lui mi portò fuori su una slitta,
e io ero atterrita. Disse, Marie,
Marie, tieniti stretta. E giù andammo.
Sulle montagne, là ci si sente liberi.
Leggo, gran parte della notte, e vado a sud d'inverno.
[...]



[1] T. S. Eliot, La terra desolata, cur. A. Serpieri, Rizzoli, Milano 2007. 

domenica 25 settembre 2011

Spazi II

II

Mi alzo presto la mattina, quando il cielo ancora buio è bagnato da appena un po’ di viola sopra l’orizzonte. La sera mi ritiro che nessuno più passeggia per strada, se non qualche brigata di ragazzi euforici di alcool, e pochi e strani uomini avvolti di mistero. Non dormo. Giaccio e poltrisco sotto le coperte pulite; mi giro e rigiro cercando di scacciare i rumori che non sento e che tuttavia non mi lasciano dormire. Odio il rumore quando c’è silenzio. Di prima mattina scappo subito di casa, non potrei sopportare la vista odiosa dei mobili polverosi e dei muri giallastri. Galleggio per le strade, vago senza meta. Odio avere obbiettivi. Mia madre mi diceva sempre, nella sua candida ingenuità, che nella vita è indispensabile avere degli obbiettivi, quando li hai allora non conta che tu sia ricco o povero, grande o piccolo, bello o brutto, la tua vita allora avrà un senso. Ma io vago senza obbiettivi e in fin dei conti non sto male. Non mi interessa nulla, non mi arrabbio per nulla, nulla mi spaventa o mi da gioia. Vivo forse una vita tra le più equilibrate che ci possano essere. Non giudico nessuno. Non mi importa niente degli altri, tuttavia mi diverto a passare le ore osservando vivere le altre persone. Sento una pietà infinita per quelle vecchiette che la mattina presto vedo pellegrinare in chiesa; che belle che sono, tutte intimorite e scure; hanno paura della morte, la sentono vicina e cercano, sforzandosi oltremodo, di credere che dio le salverà e che la vita sia eterna. Forse qualcuna tra loro ci crede veramente. Queste le si riconosce al primo sguardo: mentre le altre se ne vanno a testa china e pensose, queste ultime sembrano più serene, chiacchierano tra loro di sciocchezze: “Gina, sai che la figlia di M. ha trovato lavoro come badante.” “Lo so Pina, quella sì che è una brava ragazza” Oppure: “Maria, hai visto il figlio di E. come va in giro? Con quei capelli lunghi, sembra una donna, che gioventù!” Quando una dopo l’altra spariscono dietro la grande porta della chiesa come una fila di formiche nere, con una breve risata mi alzo e vado verso la stazione. Anche qui mi siedo e rimango ad osservare. è strano vedere le persone partire o tornare: grandi abbracci, lacrime, baci. Certi giorni sembra proprio di guardare un film. Bah! Quando sono stanco di tutto questo guardare me ne vado al bar della stazione. Lì Giovanni mi serve il mio solito bicchiere di vino, magari due, o tre. Dopo che quel rosso veleno comincia a fare effetto tutto pare più bello. Le persone che passeggiano per strada mi sorridono tutte, mi prende un senso di vertigine quando, giunto in piazza del popolo vedo quell’affollarsi di persone, quell’enorme statua e ripenso a come tutto assomigli ad un grande formicaio in cui si agisce senza senso e senza alcun obbiettivo. Che strano. Povera mamma, lei ci credeva alla vita. Continuo a passeggiare fino al lungo mare, fino al molo. Mi siedo di fronte al mare e allora mi coglie un profondo senso di libertà. Ancora inebriato dal vino bevuto a stomaco vuoto mi metto ad osservarlo: quell’immensa distesa d’acqua, quel deserto azzurro. Penso a quanto sarebbe bello perdersi nel mare, gettarvisi. Nuotare fino a poter toccare l’orizzonte. Dopo qualche minuto mi sento male, comincia a girarmi la testa, mi prende un senso di nausea, forse la stessa di cui parlava lo scrittore francese, non so. Mi sembra di vedere il mondo, le persone, mia madre, la processione di vecchiette, gli amanti alla stazione, tutti li vedo camminare sulle onde di quel mare. Perché lo fanno? Perché non affondano, mi chiedo. Dove trovano la forza, il coraggio di andare avanti? Di sorridere? Allora mi sento ancora più male. Mi sembra che la mia vita sia sbagliata, che sia corrotta e loro sembrano avere ragione. Mi guardano con i loro visi pieni di scherno, con sorrisi più amari di un ghigno. Ridono di me, mi insultano. Mi indicano alle spalle, mi prendono a calci, mi porgono il braccio quando cado e poi lo ritirano quando sto per afferrarlo. Perché lo fanno? Perché? 

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mercoledì 21 settembre 2011

Spazi


I

Lo dico a te perché, lo sai, mi hanno detto che è sempre colpa di una donna, che alla mia età un uomo certe follie le può fare soltanto per una donna. Altrimenti, dicono, vista la mia condizione sarei un pazzo a fare ciò che faccio. Non sarebbe giustificabile, dicono. Mio padre mi ha rincorso fin giù dalle scale e fermo sull’uscio, già con il fiato corto e una lacrima sulla guancia mi ha gridato dietro come fossi un delinquente, mi ha gridato tutto il suo amore ed odio insieme “cosa credi di fare! Torna qui, ti prego. La fuori non c’è nulla per te, la tua è un’idea folle. Torna qui!” Povero padre, lui ha sempre lottato nella sua vita, si è sacrificato per me. Diciamo che ha saputo essere un pilastro nella nostra città: è stato importante e ha lasciato un impronta sul suo tempo, ma il suo tempo è finito. La sua vita non è la mia. Sento che il suo fiato pesante e il suo respiro affannoso, quando a sera sonnecchia con le pantofole sulla poltrona, mi opprimono; le sue storie lacrimose o avventurose mi lasciano un senso di vuoto, non mi parlano più come quand’ero bambino. La tv che ronza inosservata mi provoca una rabbia assurda, inspiegabile e tutta concentrata verso quel vecchio che paradossalmente, mi ha generato. Io sono il futuro, e come tale, non mi vedo ancora, non posso vedermi, nessuno lo può. So soltanto che la sua vita non andrà sprecata, ma di certo non è la mia. Sento che col suo amore e i suoi sacrifici, mio padre ha distrutto tutto lo spazio attorno a lui, lo ha reso arido e pieno di nulla. Infinito e inutile, come un deserto. Io non posso vivere nel nulla. Sento di avere una missione, sento di essere importante, di poter fare qualcosa per gli uomini che, come mio padre, vagano abbagliati dal chiarore sterminato del deserto.
Ho deciso di partire, proprio così. Devo cercarmi nuovi spazi; temo che sarà un’impresa ardua, lo sento quando le viscere cominciano a tremarmi al pensiero di cosa potrò incontrare lungo la strada: paesi, storie, facce, forse altri deserti; ce ne sono tanti in giro, lo sento. Sono sicuro che cadrò lungo il cammino, i miei avi cadono da sempre; spero soltanto che saprò rialzarmi, spero di averne la forza. Forse all’inizio, quando ancora dovevamo darci un nome, secoli e secoli or sono qualcuno ha parlato di una età dell’oro, di un paradiso perduto; è forse proprio per questi, per ritrovarli che noi cademmo sempre.
Sento però che me ne pentirò. Ho paura di non giungere da nessuna parte, ho una strana impressione, come se il viaggio fosse infinito o che la vita di un uomo non sia sufficiente a percorrerlo. Ho in odio l’idea che un giorno dovrò tornare in ginocchio, sporco e puzzolente di fallimento qui, da mio padre, da te; in questa città sempre perfetta, dove tutti amano tutti, dove le leggi sono sacre e le persone, andando cieche per le strade si lasciano lentamente e dolcemente morire. Sento di appartenere a questo luogo ma io, Sara, non voglio rassegnarmi ad essere un burattino sul palco di questa città. Qui ormai si vive soltanto per sentito dire, i modelli, i miti sono morti, sono poveri, vagano anche loro smarriti nel deserto e come può essere forte un uomo che ha come sua gloria un cimitero. Sì perché qui tutti sono orgogliosi dei meravigliosi giacigli riservati ai morti. Le statue costruite ad arte sopra un cadavere sorridente, sì, perché qui si muore con il sorriso, Sara. Dopo morto tutti ti ameranno più di quanto non l’abbiano fatto in vita. Piangeranno per te, ti elogeranno pure se mai ti hanno incontrato una sola volta ed una hanno parlato con te. Qui si gioca in contropartita, si seminano querce che mai si vedranno fiorire e nessuno ci pensa, nessuno se ne accorge. L’amore per la vita: che oppio incredibile! capace di rendere amorevole la morte.
Scusami, ho finito per divagare come al solito. Devo partire Sara. Sento l’armonica del galeotto suonare quando sono qui, a sera o all’alba; tant’è che, guarda, ieri ho comprato un’armonica. Non la so suonare granché ma imparerò lungo il cammino. La suonerò ogniqualvolta il mio pensiero si dirigerà a te. Perché? Te l’ho detto: mi hanno assicurato che il motivo è e deve essere sempre una donna. 


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La Femme Révoltée (Strambotto)

Donne Amazzoni guidate da megafoni altoparlanti
Con voce tetra. Questa – la rivolta femminile?
Oh, ma c’è un gran daffare nell’inghiottire rollanti
Tizzoni d’erba e bere a tracanno un punch servile.
Grande fantasia, grande estro – pensiero elevato
Per giovani debosciati ancora al primo mandato!
E tu, ministra e fautrice dell’assurdo riarmo,
scricchioli di morte se solo ti penetra uno sguardo.

martedì 20 settembre 2011

Donne per tempi grami (Strambotto)

Esplode a rasoiate la contestazione studentesca.
Tu sei in prima fila – a muso duro
Contro il governo ladro la Riforma fresca
Gli sbirri bardati straniati al loro muro.
Tutti picchiano tutti, alcuni s’autoflagellano
Li guardi ridente da un vicino lontano,
Calata in pieno al ruolo – ‘sobillatrice’
Illusa da ciò che la Storia non dice.

venerdì 16 settembre 2011

Il Male

Senti il Male che cerca uno sbocco.
Scorre, levigando le pietre,
fa tremare le foglie, passando,
lo senti nel canto sui rami?
In un urlo che svanisce lontano
è vago presagio di morte.
Fulminei, gelidi sussurri
si scambian’ le fronde nel bosco,
il cuore è cristallo di ghiaccio,
pe’l flusso del sangue più fresco,
che leviga pietre,
tremar’ fa le foglie
e nell’eco lontano svanisce,
monito di morte che assale:
Io stesso son’ fatto di Male. 

giovedì 15 settembre 2011

A. M. Ripellino, "Vivere è stare svegli"


Vivere è stare svegli
e concedersi agli altri,
dare di sé sempre il meglio
e non essere scaltri.

Vivere è amare la vita
coi suoi funerali e i suoi balli,
trovare favole e miti
nelle vicende più squallide.

Vivere è attendere il sole
nei giorni di nera tempesta,
schivare le gonfie parole,
vestire con frange di festa.

Vivere è scegliere le umili
melodie senza strepiti e spari,
scendere verso l'autunno
e non stancarsi di amare.

sabato 10 settembre 2011

Quartine sghembe I

Danzava dietro ai tavoli ridendo
velava dietro ad abiti di sguardi
di un dio lascivo il fragile tempio.
Gli asceti ai tavoli domandano l’amore.

mercoledì 7 settembre 2011

Il processo 'economico'

Giudice: Lei chi è e cosa vuole?
Poeta: Sono poeta. E non voglio niente.
Giudice: Essere poeta non è una giustificazione.
Poeta: Di fatti, attendo con ansia la mia condanna.
Giudice: E chi l’ha coronato ‘poeta’?
Poeta: Non sono gli uomini a dirlo. Ma i tempi.
Giudice: E quale tempo le pare mai questo?
Poeta: Un tempo senza poeti, né poesia.
Giudice: Da dove viene la poesia, allora, se non dai tempi?
Poeta: La Poesia viene da Dio.
Giudice: Quale dio? Zeus, Elì, Allah, Anubi, Sòter, Thor, Baal, Buddha, Siddharta, Sitting-Bull, Muflone?
Poeta: Sa bene di quale dio parlo.

Silenzio.

Giudice: Come si permette di giungere fin qui, nell’orbis oeconomicus, a parlare di Poesia?
Poeta: Non conosco altro di cui valga la pena parlare.
Giudice: Parlare di poesia è, forse, cosa utile?
Poeta: No, lo è parlare di Dio. La Poesia è un mezzo.
Giudice: Lei è solo un millantatore.
Poeta: Se credere in Cristo è millanteria, io sono millantatore.
Giudice: Lei canta a voce alta di speranze bugiarde e deleterie.
Poeta: Se cantare di Cristo è menzogna, io sono bugiardo e deleterio.
Giudice: Lei è fuori dal tempo, ostacola il progresso, infanga la scienza, deturpa l’economia.
Poeta: Se discorrere di Cristo è fuori dal tempo, io ostacolo il progresso, infango la scienza, deturpo l’economia.
Giudice: Sarà castigato a dovere per queste bestemmie contro la società.
Poeta: Se fare il nome di Cristo è bestemmia contro la società, io sono il grande bestemmiatore.

Silenzio.

Giudice: Per il male che fa al mondo intero, la condanneremo al silenzio.
Poeta: Sarà la vostra stessa condanna.
Giudice: Perché?
Poeta: Perché la Poesia è dentro di ognuno.
Giudice: E cosa dovremmo fare per evitarla?
Poeta: Dovrete torcervi le orecchie, rigarvi gli occhi, serrare la bocca per non ascoltare.
Giudice: La sua parola graffiante?
Poeta: No.
Giudice: Il suo timbro assordante?
Poeta: No.
Giudice: E cosa?
Poeta: Il silenzio di Dio.