lunedì 31 ottobre 2011

Traduzioni di fortuna: A dream within a dream (E. A. Poe)



Accogli questo bacio sulla fronte! 
E partendo da te ora
lascia che confessi –
Non hai torto, tu che credi
siano stati sogni i giorni miei;
eppure se la speranza volò via
in una notte, o in un giorno,
in una visione, o in nient’altro,
è forse per questo meno svanita?
Tutto ciò che vediamo o sembriamo
è solo un sogno dentro a un sogno.

Sto nel ruggito
di una riva tormentata dalle onde
e stringo dentro al pugno
granelli di sabbia dorata –
Pochi! E come scivolano via
tra le mie dita verso l’abisso
mentre piango – mentre piango!
O Dio! Potrò mai trattenerli
con una stretta maggiore?
O Dio! Potrò mai salvarne
uno dall'onda spietata?
E’ davvero tutto quello che vediamo o sembriamo
solo un sogno dentro un sogno?

giovedì 27 ottobre 2011

Traducendo Tolkien: Il Lay di Leithian


I, 1-43

Un re vi era nei giorni più antichi:                                                     1
prima che gli uomini venissero al mondo
il suo potere fu accresciuto nell’ombra della caverna,
la sua mano era sopra valle e radura.
Di foglie la sua corona, il suo mantello era verde,                             5
le sue lance d’argento lunghe e affilate;
il chiarore delle stelle nel suo scudo era impresso
prima che la luna fosse fatta o il sole forgiato.
Nei giorni successivi, quando verso le rive
della Terra-di-Mezzo tornarono                                                         10
schiere di Elfi potenti da Valinor
e fluttuarono gli stendardi e le torce avvamparono,
quando i re degli Èldamar giunsero
nel furore della guerra, sotto il cielo
le sue trombe d’argento suonavano ancora                                       15 
quando il sole era giovane e la luna era nuova.
Lontano, poi, nel Beleriand,
nella tormentata terra di Doriath,
Re Thingol sedette su un trono protetto
in aule di pietra dalle molte colonne:                                                 20
lì berillo, perla e pallido opale,
e metallo lavorato come maglie di pesce,
scudo e corsaletto, ascia e spade
e luccicanti lance giacevano in cumulo:
tali cose egli possedeva e considerava sparute
poiché più preziosa di tutte le ricchezze                                            25
e più bella tra tutti i nati da Uomo
una figlia lui ebbe, Lúthien.

Così flessuose membra mai più si muoveranno
sulla terra verde sotto il sole;
così bella fanciulla mai più potrà essere                                             30
dall’alba al crepuscolo, dal sole al mare.
La sua veste era blu come il cielo d’estate,
ma grigi come la sera erano i suoi occhi;
il suo mantello trapunto di gigli in fiore,
ma scure come l’ombra erano le sue chiome.                                    35
I suoi piedi erano leggeri come ali di uccelli,   
il suo riso gioioso come primavera che viene;
il salice sottile, la canna archeggiante,
la fragranza di un prato fiorito,
la luce sulle foglie degli alberi,                                                             40
la voce delle acque, più di tutto questo
erano la sua bellezza e la sua beatitudine,
la sua gloria, la sua leggiadrezza.

giovedì 20 ottobre 2011

L'affondamento del 'Laetitia'

Il marinaio.

Altrove, pure, aveva
una vita.
   Solingo
solamente partiva;
il mondo sconosciuto,
diceva al sacro mare,
poter ammirare;
ma la sua immensità
così strana rapì
quel suo giovane corpo
e con sé lo portò:
incosciente rovina
della meravigliosa,
inquietante scoperta:
troppo grande per lui,
dolcemente si perse.

lunedì 17 ottobre 2011

Camus (Intermezzo Culturale)

Associazione a demergere

Fra breve sarò Presidente. Un gallo sgargiante
Fautore d’ex-cadetti ora con la spada puntuta,
tiratori steccati dal male secolare.

A detta loro, noi resistiamo. Contro cosa, critico dirlo.
Basta tirar in ballo l’escrescenza salvifica della Poesia
Per ubriacarsi al solo parlare.

Loro non sanno che tu ne fosti Causa prima.
Sciabolata che resiste all’assalto della vita.

Camus (Parte prima)

Albert Camus, morto in un incidente stradale.
Pius Enea, alla ricerca della patria perduta.

Trova il nesso.


Quel che accadde

Citavi Albert, al primo sgelo di cristallo nelle
                                                                 Mura.
Io replicai con Virgilio e i suoi versi
Che nell’intrusione dei secoli parlavano di te.

Ovvio, bazzichi Roma e il mito potrebbe ripetersi.
In mezzo a discorsi persi, frasi ultra-dotte
E referenziali – nocciolo di cólto autodafé.

In mezzo al magma. Tuo assentire o disdegnare,
Nel modo in cui vero si dimostra ciò che pare.

False citazioni

‘Pazzo Caligola… per avere troppo amato.’
E giù il raggio solare, rapido moto d’enigma.
Ma la memoria gioca brutti scherzi.

Il ‘pazzo’ era ‘mostro’. Stando alla lingua francese,
Da sempre attenta al distintivo – battagliera sbirra
Di sé palafreniera contro gli stranieri screzi.

Il tuo fu errore veniale, una carta a caso del mazzo
Sinonimico. E a correggerlo, sarei mostro più
                                                                Che pazzo

A mille e più watt

La scossa elettrica di sapere che lo conoscessi.
Dio sa cosa mi si scrollò per la testa, all’epoca.
Non volontà di potenza ma certezza che io fossi

Tenebra e tu lampadina elettrica in fiamme
Che dia input al mesto silenzio che mi avvolge.
E dal giorno sento ancora un formicolare

Un rosicchiare di versi informi, alla Ezra Pound.
Così i fili rigovernati attendono il loro black-out.

Madrigale in fiamme

Altra domanda, altro errore. Adesso un Nietzsche
Scambiato per Euripide, la vittima per il carnefice.
A parte i due millenni e mezzo di differenza,

Non fece nulla. Come non fa nulla il mio estro
Di citatore dal latino. L’Enea sguinzagliato.
L’affabulazioni, l’oratoria, la capibile ingerenza.

Tizzoni di lettere infuocate esposte ai venti.
Come non faranno nulla questi madrigali spenti.

Electric Light 

Non sentore d’arcano la poca illuminazione.
L’assenza di luce – buio spolverante il portico
Fitto fino al non vedere oltre il palmo della mano

Era creato ad arte dal filare delle Parche.
Era voluto dal dio romano in caduta
Sulle nostre spalle scricchiolanti d’umano.

O da semplici fili elettrici compromessi.
Era per te, madame. Perché ne risplendessi.

The walk

Ex nihilo, ci fu la menata delle ‘o’ chiuse.
Il ‘come si pronuncia’, una sgallatura
Per chi cova nel sangue lo sbarro meridionale.

Strada di corsa, mancata prova di forza
Che sfumò in una sgambata malcapita
In battibecco di proporzione universale.

E, nel chiasso, ti perdesti. Il mio accento
                                             Senza cura – 
Questa mia dizione storta, ti cerca ancora.

Poetrino

T’avevo scritto una poesia. Simile ai molti
Che infangano fango o crosteggiano croste
Del proprio decadente versificare.

Eppure, io la scrissi per trovarti nella bolgia.
In quella Sodoma zigzagante, a lume di luna.
Non già per un morbido gloriare.

Ma il canto, lo sai, è diverso dalla vita.
Se per riaverti bastasse una rima.

Poetrone

E all’ora stabilita… rispuntavi. Il bicchierone
M’aveva preso i polsi, beoni sfrigolanti
Ai lati. La balera lanciava luci psicolabili.

Pensieri lungimiranti, sentieri interrotti
Noi due che parlavamo a viso aperto – sinceri,
non distanti da mediane confessioni impossibili.

Poi ancora la confusione ne stornò la volta
Rotante. La citazione data, e non colta.




Poetastro

Continuo tutt’oggi a imbottigliare il sacro
Traffico dei versi in vista dell’oblio.
Non foss’altro per un Te viscoso e gemmeo.

Cammino impagliato per la casa alla ricerca
Di parole. Le vedo scendere a muro dalle
Infiltrazioni atlantiche di scolo calcareo.

Consumo il mio otium sperando sia lieve
l’aria sillabica sputata dalle crepe.

Anάgkh

A volte mi chiedo se il nostro fu incontro utile.
Dalla tua parte, m’avvedo dello sgarbo di Déa
Necessità. Con le sue torsioni meccaniche poteva

Concederti qualcosa di più ligneo e ligustro di me.
Ma è invero necessario addentare col tocco
Di gengiva inferma il torso della mela,

Affondare il colpo dimezzato nella carne
Per capire se sia sangue il liquido colato?

sabato 15 ottobre 2011

W. Shakespeare, Sonetto LXV


Se bronzo e pietra e terra e immenso mare
son sopraffatti, quando morte afferra,
come bellezza potrà mai scampare
con la forza d’un fiore alla sua guerra?

Come salvare un alito d’estate
dal tempo che devasta e reca assedio,
se cedon le città fortificate,
se duro acciaio è fragile rimedio?

Come togliere al tempo, dubbio atroce,
la gemma più pregiata dal suo scrigno?
Chi può arrestare il passo suo veloce,
chi può salvare il bello dal maligno?

Nessuno. Ma un miracolo redime:
dar luce al nostro amore, con le rime.


Due parole a caldo sugli scontri di Roma

Ancora una volta l’azione eclissa col suo manifestarsi l’idea e la sua motivazione, attirando sui suoi risvolti caotici tutta l’attenzione e l’indignazione. E quest’ultima non doveva associarsi a quella di tutto il resto del mondo verso un sistema economico? Così non sembra, o meglio, se pure si conserva l’idea iniziale, come non nutrire indignazione, ora, anche per quegli individui che hanno scatenato il caos nella città eterna, che hanno attaccato, non solo lo stato ed i suoi simboli, ma i semplici cittadini e le antiche strade di una città. Il risultato di una azione simile risulta dannoso per i suoi stessi ideali, instillando la paura nella gente – che allora si dissocia – e la sfiducia verso chi si batte per il futuro di tutti. Chi darebbe in mano il proprio futuro a sfascia vetrine incappucciati o a ballerini di sassi e bombe carta? Inoltre il potere, alla luce di questi gesti (di pochi) è giustificato a ricorrere a sua volta alla violenza ed a rafforzarsi, sviando l’attenzione da quelli che sono i problemi fondamentali, quelli per cui ci si era riuniti in piazza. Ciò nonostante pare che non esista altra maniera, in questo paese, per esporre le proprie idee che la violenza. E quale modello può scaturire da un violento scontrarsi, se non un modello di distruzione e semplicistico disfattismo pronto a tutto pur di sentire per un attimo una scintilla di calore. Non ci si costruisce il futuro con le bombe; sono necessarie le macerie, ma non i vetri rotti di un negozio o le lamiere bruciate di una macchina: le macerie che servono sono quelle di una forma mentis che non riconosce nulla oltre il potere, e di fronte ad un sistema sempre più lontano, cerca il Robespierre di turno per farsi aizzare contro tutto e tutti, pur di sentirsi parte di qualcosa; occorrono le macerie di un’ignavia e un’apatia che inducono la nostra e la precedente generazione ad accettare tutto, finché ci sia possibilità di espletare le proprie pulsioni profonde e soddisfare i propri bisogni primari. Ora tutto ciò sta venendo meno e il risultato lo si vede giorno per giorno.
Ma attenzione: come spesso accade in questi casi, è stato un gruppo ridotto di manifestanti che ha saputo tanto elegantemente attuare una rivolta che, se nutrita dalla violenza sconsiderata verso tutti, non è che una rivolta del potere medesimo volta a conservare, in un momento di instabilità, se stesso. Se non ci si unisce come tutto il resto del mondo ha saputo fare, in un unico e grande fronte in cui gli atti sconsiderati e inutili di violenza vengano sostituiti da un più saggio e cauto costruire nuove alternative, non c’è possibilità di uscire da una situazione in cui il potere occupa una posizione di dominio; e le idee di una civiltà, che forse si sta lentamente svegliando, non riusciranno a sovrastare il baccano di qualche selvaggio teppista.

venerdì 14 ottobre 2011

'La Bovary c’est moi' di Giovanni Giudici

I

Deve essere stato l’abbaglio di un momento
un tac di calamita da una parola mia o sua.
E io che ci ricasco benché lo so come sono.
Ma ti amo – mi ha ripetuto e come faccio
a non riamarlo io che non chiedo altro.
Poi tutti a bocca aperta che uno come lui
con una come me che nemmeno col pensiero avrei osato.
Continuo a domandarmi come è possibile che.
Chissà cos’ha in mente chissà in me cosa vede.
Chissà cosa ama se pure ama.

Potrei supporre di non sapere come sono
e che anche lui si domandi come è possibile che.
Ma temo sia più vero quello che so di sapere
e lui se non oggi domani riaprirà gli occhi.
Forse ci sta già pensando a come cavarsene fuori
più avanti dei miei timori.
Non devo illudermi perché dopo sarà peggio.
Meglio dirglielo subito che se ha un sospetto è vero.
Che faccia conto sia stato come uno sbaglio al telefono.
Insomma niente – e che se vuole può andarsene.


da O beatrice

mercoledì 12 ottobre 2011

'Secondo congedo' Umberto Saba


O mio cuore dal nascere in due scisso,
quante pene durai per uno farne!
Quante rose a nascondere un abisso![1]



[1] U. Saba, Preludio e fughe, Firenze 1928.

domenica 9 ottobre 2011

La conversazione (parte 2)

Coperta solo da un ampio asciugamano da cui emergeva la punta dei piedi, il ventre e il seno floridi, nudi, assieme alla rotondità delle spalle scoperte – quella bianca visione albeggiava nel chiaroscuro della stanza come il sole che si fa timidamente largo attraverso l’oscurità delle prime ore del giorno.
I lunghi capelli sciolti le nascondevano parte del volto, del quale potei comunque cogliere la morbidezza dei tratti nel mento e nelle labbra appena dischiuse, contratte in un’espressione che increspava la serenità di quella figura. Un naso minuto e arrotondato emergeva da una visiera d’ombra che impediva agli occhi di mostrarsi.
Se ne stava così, accovacciata su un gradino in fondo alla stanza, pensosa, volta verso un angolo della stanza fuori dalla mia visuale. La contenutezza dei suoi gesti, fremiti quasi impercettibili, mi dettero l’impressione che sapesse di non essere sola. 

Una seconda voce allora pronunciò parole, ed era una voce identica a quella della ragazza, solo le vocali risuonavano in maniera tanto calda e suadente da sembrare echi di sogno:

‹‹Resta da decidere chi delle due sia degna di immergersi››.
‹‹Io sono reale›› rispose l’altra.
‹‹Non esserne tanto sicura››.

Colpito dalla stranezza di una tale conversazione, e attratto ancora più dal timbro di quella voce, scostai il finestrotto fino ad aprirlo del tutto. L’idea di essere scoperto nemmeno mi traversò la mente quando vidi cosa il vetro nascondeva.
A fianco della fanciulla sedeva un cadavere di donna, uno scheletro vestito solo della propria pelle, dai seni aggrinziti che parevano occhi socchiusi e il ventre incavato sotto le costole come fauci spalancate, dal volto di teschio e le labbra ritirate che scoprivano i denti in un sorriso di morte.
Il cranio calvo percorso da ciuffi grigiastri. Le orbite vuote, due cerchi d’oscurità.

‹‹Non esserne tanto sicura, sono l’unica a proiettare un’ombra qui dentro›› osservò la morta poggiando gli zigomi scarni su ciò che restava della mano, imitando la postura della sua ascoltatrice. E in effetti le ombre gettate in maniera innaturale, senza nessuna logica, sulle pareti si adagiavano tutte ai suoi piedi di scheletro.
‹‹Come puoi meritarlo?›› si difese l’altra ‹‹Il tuo ventre è un tronco cavo, le tue dita rami aguzzi…››.
‹‹La tua anima freme invece per il viaggio›› la interruppe la morta ‹‹il tuo corpo è pronto a dare e ricevere la vita; ma questa sera qualcuno ti osserva oltre la lucerna, qualcuno che ha visto anche me e perciò non potrà mai amare i tuoi seni, le tue forme buone, il tuo segreto soffrire senza amare anche la mia perfetta, insensata sterilità, né separare l’incanto quotidiano del tuo mutare dall’orrore che suscita la mia visione. Egli sa già chi di noi due è soltanto una vaga menzogna, un’immagine senza sostanza, sa già chi di noi due sarà costretto a scegliere, se mai vorrà farlo››.
Tacque.
Per lunghi minuti si udì soltanto lo scrosciare dell’acqua. La ragazza non rispose, né si mosse. Io non potevo far altro che guardare, gelato dal terrore, le orbite vuote del cadavere, temendo ogni istante che le volgesse verso di me.
Così doveva accadere, e questo sarebbe accaduto se la vasca, straripando, non avesse spezzato il maleficio che mi impediva di distogliere lo sguardo, inondando la stanza e avvolgendo le due figure in un denso vapore. Vidi la morta alzarsi e procedere in direzione dell’acqua, mentre il calore diveniva insopportabile e il sudore, grondando dalla fronte, mi cadeva sulle ciglia.
Mi destai nel disordine della mia camera, quando il sole era già alto oltre la penombra in cui avevo sognato. 

Incontrai ancora la ragazza, a tarda notte, mentre aspettavo immobile il rintocco di qualche campana nel bel mezzo della piazza gremita di gente. Era ubriaca, blaterava frasi incomprensibili, mentre gli occhi senza riflesso si guardavano attorno senza realmente vedere nulla. Si reggeva in piedi solo grazie all’uomo cui si stringeva. 
Non dissi nulla, né tentai di ascoltare. 

La conversazione (parte 1)

‹‹Sono l’unica a proiettare un’ombra qui dentro›› osservò la morta poggiando gli zigomi scarni su ciò che restava della mano, imitando la postura della sua ascoltatrice.

*

Avevo seguito quella ragazza senza farmi vedere fino alla casa dove abitava. Ci eravamo incontrati per la prima volta quello stesso pomeriggio, in sala studio, e nemmeno ci eravamo parlati: è bastato che mi guardasse distrattamente, quasi senza intenzione, perché la fiamma della passione avvampasse in me; scorgerla di nuovo, a tarda notte,  mentre incedeva tra i viottoli e le piazze deserte di questa antica città, col bagliore dei lampioni che conferiva al suo portamento qualcosa della leggerezza severa e metafisica dei dipinti raffiguranti le sacre apparizioni – con le linee oscillanti e marmoree di quel corpo che si indovinava tra le pieghe del vestito – con la chioma fulgida sotto la volta stellata che fluttuava a ogni passo, riconoscibile, come un faro per i naviganti, anche alla grande distanza da cui la osservavo – questo molteplice incanto, questa fascinazione tanto spirituale quanto carnale, aveva fatto in modo che l’iniziale pudore cedesse all’insopprimibile desiderio di seguirla.
I suoi passi mi avevano guidato attraverso il dedalo di strade sempre più buie, sagome quadrate e spioventi, alte muraglie addormentate che ogni tanto si destavano di soprassalto, puntando in strada i loro occhi di feritoie infiammate da una luce asettica e giallastra.

Arrivata nel bel mezzo di una stretta salita, all’altezza di un portone il cui colore verde smeraldo era ben visibile nonostante l’oscurità, aveva estratto un mazzo di chiavi dalla borsetta, per poi accostarsi al palazzo ed essere inghiottita dai suoi muri secolari.

Per un attimo risuonarono soltanto il pesante rintocco della mia delusione e il potente sbattere dell’ingresso. Le nuvole, pasticciate di biacca, correvano veloci in quello stralcio di cielo, e sparivano oltre il tetto come se non ci fossero mai state.

Stavo già tornando sui miei passi, quando, accompagnata da un sottile cigolio, una luce si accese timidamente su un lato del palazzo, all’altezza del seminterrato. Mi avvicinai: un finestrotto opaco non consentiva di guardare all’interno, ma qualcuno lo aveva lasciato socchiuso, forse a causa dell’afa che aleggiava immobile in quella notte. Lo apersi ancora un poco e scorsi la fonte di quell’illuminazione così fioca: una lampada ad olio poggiata su un tavolinetto rudemente intagliato. La stanza aveva l’aspetto di una sala da bagno: le pareti, ricoperte per tre quarti della propria altezza di mattonelle biancastre, davano una tinta malata all’atmosfera già cupa di quell’ambiente, e dalla posizione rialzata del mio punto di osservazione potevo scorgere il bordo di una vasca stagliarsi sul pallido pavimento grigio screziato. Qualcosa turbò il tremolio regolare delle ombre, una sagoma nera, indistinta, sconvolse il disegno sulle pareti, e un braccio roseo, stagliandosi sull’oscurità, si protese verso la vasca, per girare la manopola e ritirarsi allo scrosciare dell’acqua. Udii lo stridio di una sedia sul pavimento, e poi una voce femminile che annunciava tristemente: ‹‹Tra poco il bagno sarà pronto››. Le ombre si acquietarono. 
Schiusi il finestrotto ancora un poco e mi scostai per vedere chi si nascondeva dietro il suo schermo. Fu così che riconobbi la ragazza di poco fa.


sabato 8 ottobre 2011

Detesto la superficie

Detesto la superficie
in cui troppo spesso mi blocco.
Ha tentacoli di versiera, di Gorgone,
l’aspetto lusinghevole
di una maliarda sirena –
ti inghiotte nel suo gorgo di fuoco.

Ho sempre il timore di non andare a fondo,
di restare in superficie e perdermi
nelle sue lugubri spire, nel dedalo
della sua scianca monotonia –
la superficie che mi avvolge quando
tace la tua pupilla e la parola
non rivela il suo segreto, non consola.

Uno come tanti

Luce ed ombra come dentro un sogno.
Il ragazzo che galoppa da ardente purosangue
ha gli occhi fissi sulla strada, come fari,
non inciampa: troppa vita lo rincorre;
cerca furibondo l’abbraccio della folla,
il brusio del tacito vociare, il laccio
di un facile pretesto per mollare. Crolla
di fronte al nulla, alla parola che cancella.
Ombra e luce, come dentro il mondo.
E il solitario appella dio, lo cerca
tra una lacrima ed una bestemmia:
del fratello non ascolta la miseria,
dimentico che la sua stessa fioca fiamma
gli è sorella.

venerdì 7 ottobre 2011

Heaney e il concetto di ‘trascendenza nel reale’

‘[…] Nothing surpassed
That quick unburdening, backbreak’s truest payback,
A letting go which will not come again.
Or it will, once. And for all.’

Il poeta parla; e nel parlare compie un passo decisivo nella cosiddetta ‘Ricerca’. Di cosa poi riesce sempre difficile da esemplificare, soprattutto da quando l’umanità, per mano degli anti-metafisici, è certa di andare verso il suo Nulla. Eppure, nello Human Chain heaniano vi è un concetto nuovo, di cui si parlerà molto fra qualche anno: la trascendenza nel reale.
L’immanente non è anche il trascendente, non è l’attimo eterno che soppianta il dopo del metafisico né una questione di univocità nel visibile, come vorrebbe Nietzsche e la sua allegra combriccola di materialisti. Ma il trascendente è immanente. Heaney canta in Human Chain la complessità inedita della realitas che, lungi dall’umiliarsi di fronte al trascendente, si rende auto-trascendente, compiendo l’infinito nella memoria poetica.

A letting go which will not come again.
Or it will, once. And for all.


Cos’è la Catena Umana? Una solidarietà tra uomini? E poi: cos’è solidale? Quale sarà la ‘volta per tutte’? La volta della catena preconizza la ‘volta per tutte’: non è solo una precognizione; è già parte di quel che sarà. Ciò appare totalmente inedito nella poesia e nella cultura. La volta della catena non si presenta come vuota imago della ‘volta per tutte’, bensì è già compenetrata in essa. Quegli uomini che si passano di mano in mano sacchi di vettovaglie non sono ‘purificati’ dalla visione del poeta, né vittime di una più ampia metafora sul Kingdom, il quale è costantemente oggetto dell’intera silloge. Gli uomini partecipano del ‘vero’ (parola-chiave) che sarà ed è. Gli è che la divinità non si manifesta, né dev’essere dimostrata. Dio esiste o non esiste. Dio non muore, perché Invisibile. Dio è già in quello che si vede come il solidale. Il poeta, rivendendosi nella Catena, guardandosi dal di fuori, vede la realtà ultima nella realtà normale, per cui il cosiddetto quotidiano, tipico del poeta che vanga, è quanto di più metafisico si possa immaginare.
Secondo Russell, «in un certo senso, naturalmente, ogni esperienza è esperienza del divino, ma in un altro e opposto, poiché tutta l’esperienza è nel tempo, e il divino è senza tempo, nessuna esperienza è esperienza del divino»[1]. Nulla di più falso e meschino. Ma d’altronde Russell voleva far passare per lodevole anche la sua copiosa attività di adultero.
Il fisico, come Heaney insegna (e non c’è ragione per credere in maniera indefessa alla verità ‘scientifica’, disdegnando a priori quella ‘poetica’[2]), non attende al metafisico, né lo sottende. Or it will, once. And for all. L’uno di quella volta coincide col tutto dell’eternità.
Il fisico è metafisico.


[1] B. Russell, Perché non sono cristiano, trad. it., Milano 1972.
[2] Secondo Popper, il criterio di significato proposto dai neopositivisti come principio per distinguere la scienza dalla metafisica, riesce sì ad eliminare la metafisica, ma al contempo distrugge anche le proposizioni universali su cui si basa la scienza. Inoltre, la scienza non è verificabile, ma falsificabile.

martedì 4 ottobre 2011

Caldo referto

Dovevo fare anch’io la mia inchiesta sui timori e tremori dei nuovi iscritti al Borgo urbinate. E senz’altro l’avrei fatta a sangue freddo, nudamente, se non fosse stato per un accidente insolito, uno di quei casi clinici che innalzano il termometro corporeo.
Ero sull’uscio dell’edificio-segreteria: via Saffi, numero imprecisato. Camminavo a passo svelto, pur scrutando gli eventuali passanti volto-di-matricola che avrebbero dovuto, nell’ipotesi, aggirarsi con occhi lessi e spaesati, incollati alle anse dei corridoi. Di fatti, il volto-di-matricola presenta, per dirla con Lévi-Strauss, alcuni ‘tratti distintivi’ ricorrenti in ogni Ateneo: fifa atavica per qualsivoglia ‘forma professorale’, senso di dispersione cinematica mista ad euforia prontamente castigata, lungimirante fitta al costato da esame, e appunto occhi lessi. 
 Da questi sparuti indizi sarebbe partita l’inchiesta, se una ragazza biondo-platino, tutt’altro che occhi lessi, non avesse preso a conversare candidamente, con altri tre, di questioni assai vicine al mio intendimento.
«E voi a cosa siete iscritti?», disse.
«Io a Lingue, – rispose una morettina – e loro a Economia», indicando due tronchi d’abete, che non spiccicavano parola nemmeno a pagarli. Io, intanto, tornato indietro con un balzo incerto, annegavo nell’impaccio di orecchiare, squadrando i manifesti alla sinistra dell’entrata.
«Tu, invece?», rincarò la morettina. I tronchi, muti ma non tonti, avevano messo le radici.
«Forse Lettere…»
«Perché ‘forse’?»
«Non so. Non c’è lavoro…»
«Allora vieni a Lingue…»
«A fare il corso di ‘Culture per l’impresa’? No, non mi interessa. Vorrei studiare i classici, la letteratura… ma poi fare l’insegnante precaria, avvilita…in un liceo dove ci sono più docenti che alunni…»
«Si può sempre combattere…»
«Combattere per cosa? Per Petrarca? La verità è che per i letterati ci vuole una specie di vitalizio. Uno stipendio a sé che ripaghi delle loro letture. Poiché non è un lavoro il ‘letterato’…». Almeno in termini di produzione, credo intendesse. Cosa mai può produrre un conoscitore accanito di Leopardi, se non la perpetuazione del suo pensiero e della sua bellezza lirica? Niente. Corrono le ore nello studio. La palpebra cala. Le gambe ronfano. La schiena si spezza. E cosa rimane di ‘pronto’ e ‘fatto’ nella mano? Niente. E in questo niente, però, c’è lavoro.
«Bisogna inventarselo il lavoro!», dichiarò seccamente uno dei due abeti, prendendo floreale coraggio. Bel colpo, amico! L’hai mai visto un letterato che rigoverna i fili schizzati citando Les Fleurs du Mal?
«Io credo, – riprese con mestizia Blonde on Blonde – credo che, alla fine, non m’iscriverò»
«E cosa farai?», chiese di getto la morettina, mentre io, al culmine della commozione e della compartecipazione umana, non ero più di spalle, ma ascoltavo incurante dell’ingerenza, viso a viso-di-matricola.
«Lavorerò per avere qualcosa di ‘pronto’ e ‘fatto’ nella mano, qualcosa di concreto. E Petrarca avrà un lettore in meno». Il lettore giusto. 

sabato 1 ottobre 2011

Alfa e omega

Ver Sacrum

Mano a mano che il sibilo di quella palla di fuoco si perde in lontananza, deformandosi, nel vano tentativo d’adattarsi alle immensità siderali, per colmarle, un gemito si leva sempre più forte, acuto, simile al lamento d’un gattino disperato, impaurito al cospetto della poltiglia d’ossa e pelo, che giace in una pozza di sangue, che era sua madre, prima che il repentino passaggio d’un auto la travolgesse, schiacciandola, come l’immensa palla di fuoco ha fatto con tutto sulla terra, vivente o no. “Tutto o quasi”, sembra dire l’acuto gemito, che proviene da un angolo, di quello che era un possente edificio, con alte colonne marmoree: rocce d’origine vulcanica, ora, in parte, nuovamente fuse. Tuttavia quella casuale incandescenza non è arrivata ovunque: c’è un minuscolo anfratto rimasto integro e il gemito continua sempre più intenso, acuto, come il sibilo del globo infuocato, si dilata e deforma, cercando di colmare gli spazi dell’infinito universo, fino a sembrare un ghigno, finanche una risata.
Qualcuno su qualche altro pianeta con una sofisticata apparecchiatura, che gli consente di captare i rumori dell’universo, pensa: “senti come si divertono là” e battezza quel luogo come: “Gioia”.
In un angolino di quell’immensa distesa di rovine si muove qualcosa, esattamente da dove proviene quel gemito, paffute piccole dita rosa spuntano da un cumulo di macerie e, contemporaneamente, si leva uno straziante urlo di dolore: intorno a quell’isola, tutto è incandescente, non c’è possibilità di muoversi per quella piccola creatura, che nell’oscurità dell’anfratto dove è incastrata, si ritrae immediatamente, non appena sente che la mano brucia, ma ora non geme più in quel modo ferino, escono lacrime dagli occhi, mentre s’accartoccia sempre più in quell’angolino, per stare più lontano possibile dal dolore.
Tutto tace ora e là, su di un pianeta lontano, l’osservatore sta modulando su altre frequenze alla ricerca d’altri suoni, non senza sorridere, nel tentativo di immaginare cosa possa generare, quelle gustose risate in un mondo così distante dal suo.
Per quanto l’ascoltatore scandagli l’universo con il suo congegno, rilevando suoni di diversissima natura, non può fare altro che pensare a quanto ha ascoltato nella frequenza del Pianeta Gioia, ritornandovi, finalmente sente di nuovo fragorose risate.
La creatura nell’angolino emette lancinanti urla di dolore, mentre s’addenta le dita d’una mano, quasi contemporaneamente geme grugniti di piacere, dovuti alla soddisfazione di quell’istinto che l’aveva spinta a tentare d’ allontanarsi da dove si trova. D’improvviso una luce negli occhi e quell’essere sporge il braccio, facendolo uscire da sotto le macerie, appoggiandolo ove prima aveva posto la mano, urla mentre gira e rigira l’arto, ormai monco dell’estremità, sul pavimento incandescente, poi fulmineo lo ritrae e di nuovo l’addenta: minore è il dolore causato dai morsi maggiore la soddisfazione, mano a mano che i bocconi scendono nello stomaco. Intorno rovine. Quei rumori salgono al cielo si dilatano nello spazio e si deformano, ed ancora là lontano sul pianeta l’ ascoltatore, sente delle risate e si interroga su cosa le possa generare, divertito.
Un altro istinto ora spinge il piccolo a girarsi e rigirarsi, in quell’angusto spazio, fino a che non si rende conto che, oltre ai suoi grugniti e gemiti, c’è un altro rumore, un cadenzato “ciac…..ciac…ciac”. Da un tubo di piombo, cadono alcune gocce, lecca il pavimento, poi la cannella, avido, come lo era della carne del suo braccio, che dopo un po’ espelle, sotto altra forma, ma comunque è altro cibo e così continua, languendo sempre più, fra i propri escrementi, rosicchiandosi le membra e, cercando di dissetarsi, con quelle gocce, così dà fondo alle ultime forze rimastegli, spirando. Non è una morte vana: dagli escrementi e dalle membra in decomposizione, nascono piccolissime creature, che riavviano il ciclo vitale sulla terra. Una vegetazione rigogliosa accoglie gli esseri che giungono, guidati dall’ascoltatore, trasportati da navi spaziali, atterrano ed esce da uno di quei congegni volanti un umanoide, con un viso gioviale, dal sorriso sincero, ma un po’ stolido, per un momento volge lo sguardo là: verso il pianeta di provenienza,  poi, insieme a gli altri, inizia a correre, saltando e ruzzolandosi, emettendo lo stesso tipo di urla, gemiti, grugniti che emetteva la piccola creatura chiusa nell’angolo, si diffondono nello spazio quei suoni, deformandosi nel tentativo di colmarne l’immensità, fino a raggiungere il pianeta lontano, ma là non c’è più nessuno ad ascoltare e sui volti di quei viaggiatori siderali, compare un’espressione di malinconia: sono soli, infinitamente distanti anche l’uno dall’altro, ma è la coscienza d’un istante, prima che si ritrovino uniti, nuovamente, dalla volontà di volere raggiungere il punto esatto da dove provenivano quei suoni, con i quali si esprimono, per farlo devono salire l’erta pendice d’una montagna, avvolta da una intricata vegetazione, che si materializza, mano a mano che procedono, uscendo da una fitta nebbia. In lontananza si odono urla ferine, spesso qualcosa passa, velocemente, alle loro spalle o, vicino, sibilando e strisciando, altri rumori improvvisi, fanno sussultare il gruppo. D’un tratto si sente un suono, come gli altri inusitato alle loro orecchie, ma diverso: non genera terrore, affanno, ma è confortante, anzi sembra chiamare a sé quello sparuto drappello di creature: è un gorgoglio, che proviene da più in alto, lungo quell’erta, che sembra infinita e che si fa più intenso, quanto più salgono, fino ad arrivare ad un piano. La vegetazione è ancora intricata e la nebbia fitta, ma ormai la direzione da seguire è chiara, dopo un breve momento di pausa, il gruppo riprende deciso, verso quel suono, si inizia ad intravedere qualcosa, attraverso gli alberi e il folto sottobosco: un chiarore, che filtra attraverso quel groviglio vegetale, facendolo luccicare. Si trovano ora in una radura, investiti dai raggi del sole. Il gorgoglio è ancora più forte e proviene dall’alto d’una lieve pendenza, giunti al colmo della quale si voltano istintivamente a guardare il cammino percorso. Emergono le cime degli alberi, da uno sconfinato mare bianco, sotto il quale sentono i gemiti della fauna che popola quella landa. Il gruppo contempla per un po’ l’immane spettacolo, fino a che l’attenzione non viene nuovamente destata dal gorgoglio: una fonte scaturisce, proprio al centro di quella radura, rilucendo dei raggi solari, l’ascoltatore vi si avvicina, mette una mano sotto il fiotto dell’acqua, la ritira, sfrega le dita, ad ispezionare la consistenza di quella sostanza, l’annusa, emette d’istinto, modulandolo, sottovoce, con reverenza un suono: “apsu”; poi appoggia lievemente le labbra alla mano, mentre compie queste operazioni, comunica le sue sensazioni al gruppo, tramite i soliti gemiti e grugniti, beve dalla fonte; infine d’istinto, forse a causa dei riflessi cangianti dell’acqua, rivolge il proprio sguardo verso il cielo e pronuncia: “ausel”; si volta verso quanti l’hanno seguito e si rivolge loro così:

bellum ingens geret Italia populosque feroces
                          contundet moresque viris et moenia ponet[1].

Mundus

Si aprì improvvisamente una voragine, esattamente nel centro: vuoto assoluto. Inizialmente i telegiornali diedero la notizia, poi approfondimenti e dibattiti televisivi fecero crescere la febbre del vuoto, ma non era paura: solo uno di quei tanti isterismi collettivi, montati ad arte dai mezzi di comunicazione, come un nuovo film in 3d o l’amore di qualche fantoccio televisivo o cinematografico. Si era pienamente convinti che, in breve, gli scienziati avrebbero trovato una soluzione a questo fatto insolito, ma non fu così. Fu tentato di tutto e mano, a mano, che ogni espediente falliva, ci si preoccupava di sminuire la notizia, camuffare i fatti, il che diede naturalmente adito ad una immane stampa complottistica, che tendeva a svelare le menzogne raccontate dagli organi ufficiali, ma spesso con risultati piuttosto grotteschi, venivano chiamate in causa associazioni segrete, che avrebbero creato quella voragine, per tenere sotto scacco l’intero pianeta, in tal modo oscure lobbies capitalistico-massoniche-giudaiche avrebbero fatto grandi affari, vendendo quelle stesse apparecchiature, che sarebbero state usate per chiuderla, ma senza successo, avviando così un ciclo di sempre maggiori guadagni, tenendo al contempo la popolazione nella paura, quindi, rendendola meglio controllabile.
Si decise di usare un ordigno atomico, ciò non destò grande panico, né terrore, se non in pochi. La continua dialettica fra stampa ufficiale, che filtrava le notizie e stampa alternativa, che le ingigantiva, deformava e filtrava a sua volta, mantenne la popolazione in uno stato di torpore confusionale, tale da fare sì che ognuno preferisse continuare a farsi trascinare dal flusso della vita quotidiana, piuttosto che preoccuparsi di una fine che, se anche ci fosse stata, di lì a poco, sarebbe stata comunque inevitabile. Macchine, autobus, persone d’ogni sesso, razza, età passavano sul ciglio di quella voragine, buttando solo uno sguardo furtivo, quasi a rassicurarsi che quel immenso vuoto, che riempiva ormai le loro vite fosse ancora lì, non si fosse anche minimamente contratto. Non c’è dubbio che, se fosse scomparsa la voragine, in breve, l’attenzione sarebbe stata dirottata su qualcosa d’altro, magari altrettanto apocalittico: un disastro ecologico, un’imminente epidemia d’influenza assassina, ma si trattava di ipotesi, vagheggiamenti d’un futuro del quale non si poteva essere certi, mentre la voragine era lì. Il vuoto c’era, lo si vedeva tutti i giorni, tutti i giorni se ne parlava, tutto sommato meglio quello, d’una non chiaramente definibile tragica eventualità futura, alla quale affidare il proprio isterismo, perché: se dopo quel vuoto non ci fosse stato niente? A questo punto meglio una bella esplosione nucleare, che avrebbe travolto tutto, cosa sarebbe cambiato?
La bomba fu lanciata nella voragine e tutto quello che ne uscì fu: un rumore simile a un peto, di non fortissima entità, ne scaturì anche un pessimo odore, tutti gli astanti iniziarono a ridere, ridere sempre più forte: le più alte autorità planetarie ridevano, ridevano le forze armate di quasi tutto il mondo ivi riunite, rideva chiunque, sempre più forte, quasi tutti quelli che non erano presenti all’avvenimento risero, appena appresero la notizia dai telegiornali, sentendola soffocata dai singhiozzi della sgrigna dei giornalisti di tutto il mondo. Non pochi furono i casi d’infarto dovuti alle risate: morirono decine di migliaia di persone. La bomba atomica aveva fatto le sue vittime, tutto sommato, ma ancora di più ne avrebbero fatte le risate, derivanti dall’idea che l’umanità avrebbe potuto essere annientata, in poco tempo, da un riso incontenibile, generato da un peto puzzolente, scaturito da uno dei più temibili ordigni di morte, che l’uomo avesse mai inventato.
Ovunque si vedevano persone stravolte dai crampi per le risate, con le lacrime agli occhi, il volto deformato da quel irrefrenabile moto di riso, ormai diventato letale. Il mondo s’era pressoché paralizzato, nessuno riusciva più a fare niente o quasi, s’erano verificati tragici incidenti ferroviari, aerei, stradali, a causa delle risate: si potevano veder treni che avevano preso fuoco, essendosi scontrati, erano quasi completamente carbonizzati; c’erano cumuli di macchine che erano finite le une contro le altre, spesso avvolti dalle fiamme, o ancora fumanti, fra questi ammassi metallici, anziché i lamenti dei feriti, si sentivano strazianti ululati di riso.
Molti cercarono la salvezza, asserragliandosi in casa, isolandosi completamente, cercando di pensare a cose poco divertenti, ma tutto quello a cui pensavano era parte di quella società  che stava andando in frantumi, a causa delle risate generate da un peto puzzolente, emesso da uno dei più terribili e sofisticati ordigni prodotti da quella stessa società. Non era possibile non ridere e dalla disperazione dovuta all’incontinenza del riso, molti di quegli anacoreti preferivano suicidarsi, per evitare la lenta agonia, molti morirono, sbattendo, furentemente, la testa contro le pareti delle stanze entro le quali s’erano rinchiusi.
Alcune donne morirono mentre partorivano e con le loro strazianti risate si confuse il pianto dei neonati, molti dei quali perirono nel giro di poche ore, altri sopravvissero, tratti in salvo da un ristretto gruppo di persone, immuni da quell’epidemia di riso letale. Si trattava di pochissimi individui che ricordavano a memoria: Omero, Virgilio, Dante. Fu la poesia a salvarli: quella delle tradizioni avite. Mentre costoro compivano i loro atti di devozione, nella liturgia di Omero, sul ciglio della voragine, un giovane sui venti anni salì a cavallo e vi si gettò volontariamente, venendo inghiottito dalla terra che si richiuse immediatamente sopra di lui, altrettanto improvvisamente, in quel punto, prese a zampillare una fonte.
Quanti ancora si contorcevano per le risate rinvennero, si sottomisero volontariamente al ristretto gruppo, che non aveva mai ceduto a quella letale euforia, riconoscendone nei componenti, un’innata superiorità. La civiltà che si sviluppò aveva il proprio centro sacro nel luogo ove s’era aperta e richiusa la voragine. Prima ci fu un boschetto, con la fonte d’acqua, al centro, ove gli alberi si aprivano, lasciando che fosse investita dai raggi solari. In questo boschetto ogni venti anni, veniva portato un neonato, che imparava, in un mutuo scambio con l’acqua splendente, di vagiti e gorgoglii, ad esprimersi in versi, pronunciando i quali, garantiva la sopravvivenza della sua stirpe, il significato era negato ai più e riservato agli eletti. Al raggiungimento del ventesimo anno d’età il giovane diveniva capo della casta dei guerrieri e, in caso di pericolo estremo, si sacrificava spontaneamente per la salvezza della comunità, proprio come era avvenuto all’epoca della voragine.
Col tempo il boschetto fu sostituito da un edificio, prima in legno, poi in pietra, con decorazioni sempre più fastose, realizzate con marmi provenienti da tutte le parti del mondo, l’antica fonte, venne decorata con mosaici policromi, ritraenti la vicenda del giovane che si immola per salvare il proprio popolo, gettandosi nella voragine, venne coperta se non per un’apertura lasciatale sopra, per permettere ai raggi del sole di entrare, ma questi si disperdevano, riflettendosi, sulle tessere vitree, i marmi policromi, inondando quell’immenso e fastoso edificio, con mille riflessi cangianti: un incredibile spettacolo per gli occhi, un gioco di luci, ombre, colori, luccichii: un gioco e per gioco venivano ormai portati tutti i neonati alla fonte, “che un tempo credevano parlasse”, così diceva quella gente, che non aveva più poeti e leggeva gli antichi versi nei libri, tradotti in una lingua sempre più lontana dalla originaria matrice.


[1] Verg. Aen. I 263-264 “ guerra grande farà in Italia, combatterà popoli fieri, darà usi civili e mura alla sua gente”