giovedì 24 novembre 2011

Sogni, Akira Kurosawa (1990) - recensione metodica e accurata


Once I had a dream... E’ stata la curiosità del bambino a condurmi per prima tra le trame di questo Mistero, tra l’odore di humus e pioggia.
Fitto del bosco – Volpi dal mistico incedere, nobili fiere dai movimenti predatori che procedono all’erta; i miei occhi di intruso. La Natura ha i suoi riti a cui è proibito assistere – eppure in barba alla sempiterna sacra legge ecco sfilare davanti a me, cucciolo immobile e atterrito, quelle selvagge gentili apparizioni, vestite del solenne e terrifico fascino della divinità. Tremo – un soffio solo può tradirmi.
Se il nascondiglio è scoperto e lo sguardo di Loro mi scova, allora altro non sarò che un uomo. Mutata in conoscenza e peccato la mia ingenuità, avrò orrore di quello che ho veduto e dovrò fuggire nel mondo, odiato dai miei simili, senza più un tetto, cacciato da chi mi ha dato alla luce. Potrò sempre redimermi, e due sono le vie: fendermi il ventre – coraggioso, inumano rifiuto – o tornare dalle Volpi e implorare perdono – sperare.
Con il tantō tra le mani, la lama che invisibile come un presagio nel fodero mi accompagna, mi avvio verso la Loro dimora. Another dream. Kurosawa indaga l’Altro, e lo fa attraverso il senso di colpa e l’assunzione di responsabilità che negli anni trasformano il fanciullo in uomo. Impossibile non scorgere nell’onirismo di questi Sogni un pretesto per raccontare una realtà più vera del vero, un percorso che riguarda tutti noi sia come individui sia come società. Si parte dal mito, dalla favola; chi sogna è bambino, l’Altro è la Natura – composta non solo di paesaggi idilliaci e presenze soprannaturali, ma di tutto ciò che ne può far parte, compresi gli stessi esseri umani – Origine  e Doppio, fonte lontana, sacra, temuta presenza. Si svela il dramma dell’Occidente moderno e tecnologico, lanciato a tutta velocità verso la conquista, il sopruso del prossimo. Chi sogna cresce e diventa adulto, la fiaba pare farsi realismo per poi subito prender le sembianze della nuda catastrofe – ma si tratta di allucinazione, profezia o lucida previsione? Ancora il bambino tenta di rimediare al suo peccato, vorrebbe riconciliarsi con l’armonia della primavera, insegue la veste rosa di uno spirito, piange per gli alberi in fiore, ma non ottiene che una breve visione di pienezza prima di ricadere nel verde deserto di un pescheto tagliato a morte. Ancora Van Gogh marcia tra campi e boschi, vuole sparire nei luoghi che ‘trascendono la realtà’, diviene Altro lui stesso, ma è costretto alla fine di ogni dipinto a tornare nella sua dimensione di intimo, cocente vuoto, e si scontra con l’assurdo di un orecchio che non riesce a ritrarre. Nessuno potrà mai cogliere una minima traccia dell’uomo che ha dipinto le tele; il Turista-Giapponese-Appassionato-Di-Pittura può solo fermarsi sconcertato e confuso davanti all’enigma ‘oggettivo’ del capolavoro. Questi sono i titanici quanto fallimentari tentativi di tornare alla dimora dell’Altro che abbiamo offeso. Il resto dell’umanità, perduta in un inesorabile inferno terrestre, si impegna in una lotta folle e senza speranza. Molti di loro sono già pronti a eseguire il seppuku. Ma è proprio a questo punto che il Turista-Giapponese-Occidentalizzato-Medio – esponente di una società destinata a schiantarsi in fondo a questa corsa insensata che tutti ci trascina –  incontra un vecchio tornato bambino – esponente a sua volta di una piccola comunità che ha rifiutato l’imperativo del Progresso – ovvero qualcuno che ha implorato perdono e l’ha ottenuto. Un facile e utopistico ripiego? Con il tantō tra le mani, la lama che invisibile come un presagio nel fodero mi accompagna, cerco ancora la Loro dimora.

domenica 20 novembre 2011

'Lavorare stanca' di Cesare Pavese


Traversare una strada per scappare di casa[1]
lo fa solo un ragazzo, ma quest'uomo che gira
tutto il giorno le strade, non è più un ragazzo
e non scappa di casa.
                                   Ci sono d'estate
pomeriggi che fino le piazze son vuote, distese
sotto il sole che sta per calare, e quest'uomo, che giunge
per un viale d'inutili piante, si ferma.
Val la pena esser solo, per essere sempre più solo?
Solamente girarle, le piazze e le strade
sono vuote. Bisogna fermare una donna
e parlarle e deciderla a vivere insieme.
Altrimenti, uno parla da solo. È per questo che a volte
c'è lo sbronzo notturno che attacca discorsi
e racconta i progetti di tutta la vita.

Non è certo attendendo nella piazza deserta
che s'incontra qualcuno, ma chi gira le strade
si sofferma ogni tanto. Se fossero in due,
anche andando per strada, la casa sarebbe
dove c'è quella donna e varrebbe la pena.
Nella notte la piazza ritorna deserta
e quest'uomo, che passa, non vede le case
tra le inutili luci, non leva più gli occhi:
sente solo il selciato, che han fatto altri uomini
dalle mani indurite, come sono le sue.
Non è giusto restare sulla piazza deserta.
Ci sarà certamente quella donna per strada
che, pregata, vorrebbe dar mano alla casa.


[1] Cesare Pavese, Lavorare stanca, Torino 1936.

venerdì 18 novembre 2011

Keepsake

Preludio

Alësa Karamàzov
                 torna al monastero
tra le forre ghiacciate della sera.
Vigila Dmitrij oltre la siepe della izbà;
attende che il vecchio canti

un notturno per Grùsen’ka.
Ivàn è nella tormenta,
                                      incuneato
di rivelazione: al processo
orzo non sarà, ma dannazione.

Myškin incipriato fino al collo
sbuccia la foto di
                                Aglaja Ivanovna:
il samovar si gela e si piega.

E Raskol’
                      si trastulla
nel suo chiassoso, criminale delirio.
Di Goljad’kin si sa poco o nulla.

Composizione

Una sciantosa fa la corte a Stavrogin
dai capelli corvini; s’apre l’impiantito
all’incedere di Pëtr Stepanovic.
Vedrà se stesso in
                                  Trifomovic?

Kirillov traffica colpi di rivoltella:
s’alza Scigaliov per parlare.
Sâtov – questa è bella – cede a Dio
e non agli
                    indemoniati.

Ma squilla la sveglia tremenda,
Grusen’ka sa di non andare
da nessuno dei due: e ride a
                                              crepapelle,

benché il vecchio vegli.
Pullula il tribunale di riottosi muzikì,
che s’azzuffano per un
                                        copeco.

Fine

Katerìna, anima russa, rizza in arcioni.
Una presenza bussa alla porta

di Fëdor Pavlovic,
affettato di paura.

Smerdjiakòv muore per un rublo blu:
guarda indietro, e non torna più.

mercoledì 16 novembre 2011

Le strade (poesie senza installazione)

Canzone e dedica

Passi… passi…
Scarpe basse, gioie embrionali. Questo posto
è sorto un po’ alla volta, l’architetto ha idee semplici
butti una lastra tortuosa, sconnessa, ed è fatta. Il resto
spunta come funghi. Il borgo riposa
un oceano di rifiuti_ disteso sui tetti ti baciava il mattino
quel sapore amaro, sigarette già spente.

Le campane martellano, forzano il giorno
lo spezzano_ misure preventive. Nel vicolo d’ombra
i muri hanno occhi, le dita nervose
un ticchettio. Non fosse liceale
fidanzatissima, si potrebbe pensarla dentro una stanza
gli stessi abiti… Vengono giù i tetti, con la notte
tutta insieme_ le vie che si stringono, una rete
invisibile sotto di te. Sara è contenta.

Ho visto santoni allacciarti le scarpe
e mani di piombo traversarmi la mente.
La signorina sa bene la parte, il vestito le dona.
Conato di vomito, pugno-latte e ferro, si muove sinuosa
ma l’abito non fa il monaco (dicono). Cosa farsene
di una serata estiva, una risata isterica
un manipolo di amici? Eri ferito
il tuo non era_ non voleva essere
un lancio di dadi. Muori frainteso.
Così sia.


Non-dedica

Incarti gli allori, ti piace odorarli. Sanno
di complimenti, applausi, belle parole
strette di mano, canzoni, e altre
altre mille
vanità salmodianti. La tua vanità
la pelle che indossi_ ora per strada c’è solo
una gatta, si fa carezzare. Ammiri gli allori
li metti in cornice. Vorresti specchiarti: tra superfici
piatte vi capireste. Ma hai sbagliato poeta.

E’ un chilo, lascio?

Cumuli in tumuli
Ti credevi leggera. Ti annidavi strisciando
tra i punti e le virgole, lo facevi da te
per vederti farfalla. Ma non capisci:
farli a pezzi è il mio mestiere.


Canto stonato (Notturno_ 30 aprile)

Sotto il cavalcavia alza
La testa e vedrai
Tra le travi di cemento gli
Angeli
Dormire
Col becco sotto l’ala
Sognerai antichi saperi
Mentre la luna svela
Linee di nuvola
Errano nel buio del cielo
Dritte da chissà dove
Macchine sfrecciano impalpabili
Urlano canzoni dimenticate
Spariscono in uno
Strano effetto ottico
                                 Corde
Di violino gli archi del tuo petto

Le bottiglie gettate all’angolo
traboccano, cadono, percorrono
il selciato. Colloquio silenzioso.
Un passo vibrante, l’altro un abisso
la sera continua a rincorrersi. In braccio
alla notte, in seno alla terra
c’è silenzio, c’è dell’acqua
e da qui posso vedere le tombe
vicino alla mia_ il satiro
zoccoli esausti, non intona melodie
il gufo lo ammonisce.
Sembra saggio.
                        Sotto il cavalcavia
i gatti cantano con voce umana.

Dalle vetrate
Le cattedrali sorridono. Grida di ubriachi
(mandare al diavolo dio, farsi bello
davanti a una lanterna)
a soli due isolati­_ le vie senza nome
non hanno segreti.
Chi ha preso taccia, chi parla
abbia lingua in catene, chi cerca
trovi un rimorso. Delirio, visione poetica
stravolgimi ancora in queste ultime
ore di follia.

Le vie senza nome non hanno segreti
le ho battute una ad una, le ho prese
a sassate_ la chiave di queste
notti buttate al vetro, le carte mancanti
si sono smarrite tempo fa. Dalle stanze
nere di rimorso non leva
un respiro, solo il battito
arcano di fiori rossi.
                                                      E pure
brindiamo, se devo. Buonanotte
ai farabutti, alle stronze inseparabili
agli amori, ai dopo-cinema _ eco di altalene lugubri.
Questa città immobile mi spaventa ora.
Finisce qui la vostra strada?
                                              Sotto il cavalcavia
i gatti strillano con voce umana.


La via sepolta

Il vociare dei vivi è sempre lo stesso, non termina mai
una baraonda, tutto confuso, come le piante
dei loro piedi: una sull’altra, strato su strato, la strada
è segnata da tutti e nessuno. Pensano, loro
di lasciare una traccia.
                                    Sono stanca,
non distinguo  più un passo_ il bambino
dal vecchio, l’uomo dal cane, la donna
l’ubriaco, l’omicida_ non vidi mai un santo
nei vicoli. I palazzi del centro, orrendi crateri
materia immortale che spinge e si scontra.
Non sento più nulla. Secoli fa
qua all’angolo, un macellaio_ passi confusi
divenne poeta, graffiò versi sul muro. Non ricordo
cosa scrisse, ma fui contenta. Ora il vento li ha lavati.

Mi sorprendo a pensarci ogni tanto. Ancora
gli dei camminavano sulla terra.


Liturgia

Mai più schiuderò gli stessi timori
che tengono i giorni quando l’ombra
dei boschi si allunga sui colli.
Sulle nubi, tombe d’aria
volti ingialliti
l’erba ricresce.

Le case, pastelli, anime al sole.
Nella periferia verde e grigia
luminosa, le ragazze che passano
leggere a marzo, non sono le stesse.
Orme tra i colli, lingue, memoria. Odora
un giorno chiaro dietro tende annerite.

Insegui quei passi, solcati nel tempo
fascìna in spalla, muti al domani. Nel rito del tutto
le vecchie radure sono rottami, i luoghi
vissuti restano estranei. Si è persa
la traccia, lavati via i segni. Riluce l’oblio.
Rimangono foglie - polvere umana?

Ricordi qualcosa che mai
hai passato, un cosmo inespresso
che inghiotte ogni vita.
Sulle nubi, tombe d’aria
faraoni azzurri
l’erba ricresce.

domenica 13 novembre 2011

Primo giovedì del mese di novembre di non ricordo più quale anno

Per me è finita, diceva l’amico
lascio la scena prima della disfatta.
Eroico è l’abbandono. Dall’articolo
ho intuito la fedele nostra rotta,
ma il mare ha grandi onde, verdi,
e ciò che lasci non è mai quello che perdi.

giovedì 10 novembre 2011

L’Hsdfhdfhdfh


Bene, bene. Ora si sperimenterà la Lingua nel nero oltre la Terra. Si lasciano gli uomini e le loro bazzecole, e s’arriva nella quiete oltre il silenzio. Tanf! Nero, nero e ancora nero.
E questo l’Universo? No. Esso è l’insieme dei corpi celesti. Me, non si sta fra questi ultimi. Me, ci si mantiene nell’Hsdfhdfhdfh – la rappresentazione scremata dello spazio. Francamente parlando, l’unica parola che sale alla mente è ‘cionf’. Di fatti: ci si cionfa nel Hsdfhdfhdfh.
E oltre a ciò?
Poco. Si può solo cionfare nel Hsdfhdfhdfh. Il resto sarebbe un aggiunta, un pleonasmo, una caricatura del cio-che-è assieme al ciò-che-si-fa qui e ora. Si cerca di torcere la Lingua. Ma in essa è assente il nero della quiete: la rappresentazione scremata dello spazio. Si provi un’altra frase.

Ci si screma nel ‘cionf’ del nero
Meglio detto ‘Hsdfhdfhdfh’!!!!!

Bene. Al di là di queste torsioni, di queste acrobazie vi è zero da dire. Zero del firmamento. O più adeguatamente:

Ci si screma nel ‘cionf’ del nero
Meglio detto ‘Hsdfhdfhdfh’!!!!!,
nel punto-tempo ‘zero’.

Poesia di meteorite. Eppure si è fallito. Si è dilungato il discorrere intorno a qualcosa sulla quale non c’è granché da dire. Si è rotta la quiete d’oltre-silenzio. Dove arriva la parola, arriva l’uomo e la mente. E l’uomo, con le sue bazzecole, è arrivato pure qui.

lunedì 7 novembre 2011

Becchin'amor di Cecco Angiolieri

– Becchin’amor! – Che vuo’, falso tradito?
– Che mi perdoni. – Tu non ne se’ degno.
– Merzé, per Deo! – Tu vien’ molto gecchito.
– E verrò sempre. – Che sarammi pegno?

– La buona fé. – Tu ne se’ mal fornito.
– No inver’ di te. – Non calmar, ch’i’ ne vegno.
– In che fallai? – Tu sa’ ch’i’ l’abbo udito.
– Dimmel’, amor. – Va’, che ti vegn’un segno!

– Vuo’ pur ch’i’ muoia? – Anzi mi par mill’anni.
– Tu non di’ ben. – Tu m’insegnerai.
– Ed i’ morrò. – Omè che tu m’inganni!

– Die tel perdoni. – E che, non te ne vai?
– Or potess’io! – Tègnoti per li panni?
– Tu tieni ’l cuore. – E terrò co’ tuoi’ guai.

mercoledì 2 novembre 2011

Traduzioni (tradite): L'Impalcatura di S. Heaney

I muratori, quando iniziano a costruire,
sono attenti nel collaudare l'impalcatura;
s'accertano che non scivoli l'asse nel punto critico,
fissano la scala, stringono il bullone alla giuntura.
Eppure, tutto questo vien giù quando il lavoro è fatto,
scoprendo di sicura e solida pietra le mura.
Così, mia cara, se a volte sembrerà ci siano
vecchi ponti infranti tra me e te,
non aver paura. Lasceremo che cada l'impalcatura,
sicuri di aver costruito il nostro muro.

martedì 1 novembre 2011

Traduzioni: 'Le cose' di J. L. Borges

Il bastone, le monete e il portachiavi;
la docile serratura; gli appunti tardivi
che i miei pochi giorni rimasti
non leggeranno; le carte e la scacchiera sola;
un libro e fra le carte una scolorata viola
monumento d’una sera, senza dubbio
inobliabile ed obliata; il rosso specchio occidentale
in cui arde un’illusoria aurora. Quante cose:
lime, soglie, atlanti, coppe, chiodi,
servono a noi come silenziose chiavi,
cieche e stranamente segrete!
Perdureranno oltre il nostro oblio;
ignare dell'estremo nostro addio.