giovedì 31 marzo 2011

Scene memorabili in Shakespeare (cap. I)

Romeo e Giulietta, atto II, scena seconda - Giardino dei Capuleti


(Entra ROMEO)

ROMEO: Ride delle cicatrici, chi non ha mai provato una ferita.

(Giulietta appare ad una finestra in alto) Ma, piano! Quale luce spunta lassù da quella finestra? Quella finestra è l'oriente e Giulietta è il sole! Sorgi, o bell'astro, e spengi la invidiosa luna, che già langue pallida di dolore, perché tu, sua ancella, sei molto più vaga di lei. Non esser più sua ancella, giacché essa ha invidia di te. La sua assisa di vestale non è che pallida e verde e non la indossano che i matti; gettala. E' la mia signora; oh! è l'amor mio!
oh! se lo sapesse che è l'amor mio! Ella parla, e pure non proferisce accento: come avviene questo? E' l'occhio suo che parla; ed io risponderò a lui. Ma è troppo ardire il mio, essa non parla con me:
due fra le più belle stelle di tutto il cielo, avendo da fare altrove, supplicano gli occhi suoi di voler brillare nella loro sfera, finché esse abbian fatto ritorno. E se gli occhi suoi, in questo momento, fossero lassù, e le stelle fossero nella fronte di Giulietta? Lo splendore del suo viso farebbe impallidire di vergogna quelle due stelle, come la luce del giorno fa impallidire la fiamma di un lume; e gli occhi suoi in cielo irradierebbero l'etere di un tale splendore che gli uccelli comincerebbero a cantare, credendo finita la notte.
Guarda come appoggia la guancia su quella mano! Oh! foss'io un guanto sopra la sua mano, per poter toccare quella guancia!
GIULIETTA: Ohimè!
ROMEO: Essa parla. Oh, parla ancora, angelo sfolgorante! poiché tu sei così luminosa a questa notte, mentre sei lassù sopra il mio capo come potrebbe esserlo un alato messaggero del cielo agli occhi stupiti dei mortali, che nell'alzarsi non mostra che il bianco, mentre varca le pigre nubi e veleggia nel grembo dell'aria.
GIULIETTA: O Romeo, Romeo! Perché sei tu Romeo? Rinnega tuo padre; e rifiuta il tuo nome: o, se non vuoi, legati solo in giuramento all'amor mio, ed io non sarò più una Capuleti.
ROMEO (fra sé): Starò ancora ad ascoltare, o rispondo a questo che ha detto?
GIULIETTA: Il tuo nome soltanto è mio nemico: tu sei sempre tu stesso, anche senza essere un Montecchi. Che significa "Montecchi"? Nulla: non una mano, non un piede, non un braccio, non la faccia, né un'altra parte qualunque del corpo di un uomo. Oh, mettiti un altro nome! Che cosa c'è in un nome? Quella che noi chiamiamo rosa, anche chiamata con un'altra parola avrebbe lo stesso odore soave; così Romeo, se non si chiamasse più Romeo, conserverebbe quella preziosa perfezione, che egli possiede anche senza quel nome. Romeo, rinunzia al tuo nome, e per esso, che non è parte di te, prenditi tutta me stessa.
ROMEO: Io ti piglio in parola: chiamami soltanto amore, ed io sarò ribattezzato; da ora innanzi non sarò più Romeo.
GIULIETTA: Chi sei tu che, così protetto dalla notte, inciampi in questo modo nel mio segreto?
ROMEO: Con un nome io non so come dirti chi sono. Il mio nome, cara santa, è odioso a me stesso, poiché è nemico a te: se io lo avessi qui scritto, lo straccerei.
GIULIETTA: L'orecchio mio non ha ancora bevuto cento parole di quella voce, ed io già ne riconosco il suono. Non sei tu Romeo, e un Montecchi?
ROMEO: Né l'uno né l'altro, bella fanciulla se l'uno e l'altro a te dispiace.
GIULIETTA: Come sei potuto venir qui, dimmi, e perché? I muri del giardino sono alti, e difficili a scalare, e per te, considerando chi sei, questo è un luogo di morte, se alcuno dei miei parenti ti trova qui.
ROMEO: Con le leggere ali d'amore ho superati questi muri, poiché non ci sono limiti di pietra che possano vietare il passo ad amore: e ciò che amore può fare, amore osa tentarlo; perciò i tuoi parenti per me non sono un ostacolo.
GIULIETTA: Se ti vedono, ti uccideranno.
ROMEO: Ahimè! c'è più pericolo negli occhi tuoi, che in venti delle loro spade: basta che tu mi guardi dolcemente, e sarò a tutta prova contro la loro inimicizia.
GIULIETTA: Io non vorrei per tutto il mondo che ti vedessero qui.
ROMEO: Ho il manto della notte per nascondermi agli occhi loro; ma a meno che tu non mi ami, lascia che mi trovino qui: meglio la mia vita terminata per l'odio loro, che la mia morte ritardata senza che io abbia l'amor tuo.
GIULIETTA: Chi ha guidato i tuoi passi a scoprire questo luogo?
ROMEO: Amore, il quale mi ha spinto a cercarlo: egli mi ha prestato il suo consiglio, ed io gli ho prestato gli occhi. Io non sono un pilota:
ma se tu fossi lontana da me, quanto la deserta spiaggia che è bagnata dal più lontano mare, per una merce preziosa come te mi avventurerei sopra una nave.
GIULIETTA: Tu sai che la maschera della notte mi cela il volto, altrimenti un rossore verginale colorirebbe la mia guancia, per ciò che mi hai sentito dire stanotte. Io vorrei ben volentieri serbare le convenienze; volentieri vorrei poter rinnegare quello che ho detto: ma ormai addio cerimonie! Mi ami tu? So già che dirai "sì", ed io ti prenderò in parola; ma se tu giuri, tu puoi ingannarmi: agli spergiuri degli amanti dicono che Giove sorrida. O gentile Romeo, se mi ami dichiaralo lealmente; se poi credi che io mi sia lasciata vincere troppo presto, aggrotterò le ciglia e farò la cattiva, e dirò di no, così tu potrai supplicarmi; ma altrimenti non saprò dirti di no per tutto il mondo. E' vero, bel Montecchi, io son troppo innamorata e perciò la mia condotta potrebbe sembrarti leggera. Ma credimi, gentil cavaliere, alla prova io sarò più sincera di quelle che sanno meglio di me l'arte della modestia. Tuttavia sarei stata più riservata, lo devo riconoscere, se tu, prima che io me n'accorgessi, non avessi sorpreso l'ardente confessione del mio amore: perdonami dunque e non imputare la mia facile resa a leggerezza di questo amore, che l'oscurità della notte ti ha svelato così.
ROMEO: Fanciulla, per quella benedetta luna laggiù che inargenta le cime di tutti questi alberi, io giuro...
GIULIETTA: Oh, non giurare per la luna, la incostante luna che ogni mese cambia nella sua sfera, per timore che anche l'amor tuo riesca incostante a quel modo.
ROMEO: Per che cosa devo giurare?
GIULIETTA: Non giurare affatto; o se vuoi giurare, giura sulla tua cara persona, che è il dio idolatrato dal mio cuore, ed io ti crederò.
ROMEO: Se il sacro amore del mio cuore...
GIULIETTA: Via, non giurare. Benché io riponga in te la mia gioia, nessuna gioia provo di questo contratto d'amore concluso stanotte: è troppo precipitato, troppo imprevisto, troppo improvviso, troppo somigliante al lampo che è finito prima che uno abbia il tempo di dire "lampeggia". Amor mio, buona notte! Questo boccio d'amore, aprendosi sotto il soffio dell'estate, quando quest'altra volta ci rivedremo, forse sarà uno splendido fiore. Buona notte, buona notte! Una dolce pace e una dolce felicità scendano nel cuor tuo, come quelle che sono nel mio petto.
ROMEO: Oh! mi lascerai così poco soddisfatto?
GIULIETTA: Quale soddisfazione puoi avere questa notte?
ROMEO: Il cambio del tuo fedele voto di amore col mio.
GIULIETTA: Io ti diedi il mio, prima che tu lo chiedessi; e tuttavia vorrei non avertelo ancora dato.
ROMEO: Vorresti forse riprenderlo? Per qual ragione, amor mio?
GIULIETTA: Solo per essere generosa, e dartelo di nuovo. Eppure io non desidero se non ciò che possiedo; la mia generosità è sconfinata come il mare, e l'amor mio quanto il mare stesso è profondo: più ne concedo a te, più ne possiedo, poiché la mia generosità e l'amor mio sono entrambi infiniti. (La Nutrice chiama di dentro) Sento qualche rumore in casa; addio, caro amor mio! Subito, mia buona nutrire! Diletto Montecchi, sii fedele. Aspetta un solo istante, tornerò. (Esce)

ROMEO: O beata, beata notte! Stando così in mezzo al buio, io ho paura che tutto ciò non sia che un sogno, troppo deliziosamente lusinghiero per essere realtà.

(Giulietta torna alla finestra)

mercoledì 30 marzo 2011

Racconti: Metafisica nel boudoir

« Mah, secondo me, Dio non esiste… », disse sicuro Donatien-Alphonse-François, romanziere di quarta categoria.
« Da cosa lo deducete, mio caro Donatien-Alphonse-François? », rispose, dopo un’interminabile tirata di pipa, Carletto Baudelaire.
« Ma è chiaro, per tutti i simoniaci! », asserì volgarmente il romanziere, senza fornire alcuna delucidazione.
« La chiarezza è un concetto relativo alquanto. Pur tuttavia dovrete addurre una qualche dimostrazione di ciò che voi, Donatien-Alphonse-François, reputate così rilucente, mentre a me pare assai tenebroso… », proferì tutto d’un fiato il pensieroso Carletto, a seguito di un’altra interminabile tirata di pipa.
« E’ proprio qui l’errore, mio caro Charles, è proprio qui! V’ingannate, ah come v’ingannate! Scusate il mio sussiego, ma è necessario in quest’occorrenza, per tutti i simoniaci! L’Onnipotente non lo vediamo, né l’abbiamo mai visto; pertanto non v’è alcun bisogno del penarsi per dimostrare la sua esistenza, e nemmeno del contrario. L’Onnipotente va ignorato, per tutte le monache! », s’infervorò Donatien-Alphonse-François; e ciò parve oltremodo volgare a Carletto, che s’incupì definitivamente.
« Acuta osservazione, – disse, celando la sua ripugnanza – veramente molto acuta come osservazione. Sicché, proseguendo il cammino dialettico della vostra ratio, dovremmo pur supporre che i sentimenti non esistano, dato e considerato che anch’essi non si vedono ».
« Esattamente! ».
« E dovremmo poi asserire con fermezza che neppure la poesia, l’esperienza poetica, la passione amorosa, l’intrigo, la sagacia, la filosofia non esistano, poiché sono tutte, –  e voi dovrete convenire con me – sono tutte, ripeto, cose invisibili, impalpabili, ineffabili! ».
« Vedo che avete subito colto nel segno, caro Charles! ».
« Attendete la conclusione, caro Donatien-Alphonse-François. Se la filosofia in generale non esiste, poiché, sempre seguendo le conseguenze della vostra ratio, l’invisibile stesso, data la sua chiara invisibilità, non esiste, allora anche la vostra filosofia particolare, la vostra opinione del necessario ignorare la questione di Dio non esiste, né può esistere. O sbaglio? La vostra ratio conduce all’inesistenza della ratio, caro Donatien-Alphonse-François! E’ questo il punto ».
« In ciò non scorgo alcuna contraddizione. E inoltre, non me ne dogliate, il suo ragionamento è sofistico alquanto, per tutti chierici! ». A tal punto Carletto Baudelaire sobbalzò dal suo divano di mogano; la pipa scivolò rumorosamente sul tappeto, polverizzando un paio di peluzzi sporgenti. Carletto gettò celermente due gocce d’acqua dal bicchiere, che giaceva sul tavolino tarsiato da mano esperta proprio al suo fianco, per spengere il piccolo fuoco; poi raccolse con eleganza la pipa, e disse inaspettatamente:
« Aspetto Sartre… ».
« Sicché? », chiese incuriosito Donatien-Alphonse-François.
« Sicché sono costretto ad interrompere la discussione con voi… », rispose bruscamente Carletto.
« Ammiro la vostra schiettezza, ma temo di non poter esaudire il desiderio di mettermi alla porta. Sapete bene che non è possibile… », e qui Donatien-Alphonse-François sorrise di lieve amarezza.
« Ciò non significa che voi dobbiate prender parte alla nostra discussione… », chiarì, inviperito, Carletto.
« Mi riesce difficile di capire il perché non debba… ».
« Caro Donatien-Alphonse-François, noi si cerca la verità. Per voi, invece, ciò è indifferente, se ho ben compreso ».
« E da quando, caro Charles, voi cercate la verità? ».
« Da quando noi si cerca Iddio! », rispose con fermezza Carletto, deponendo quasi irrevocabilmente la pipa nel portasigarette inargentato.
« Iddio non esiste, lo sapete bene… ».
« Siete solo un diavolo, Donatien-Alphonse-François! Un diavolo perverso che inquieta i nostri sani discorsi di ricerca. Lasciateci in pace. Vedrete bene quanti intellettuali francesi entreranno ancora in questa malsana biblioteca e deporranno i loro volumi sugli scaffali vuoti. E vorrete prender parte alla deposizione, catalogherete i libercoli che avranno sottobraccio solo se idonei al tenore e all’eleganza tradizionali, sennò li getterete nel retromagazzino ad inzaccherarsi con altre decine di migliaia. A voi interessa il contegno mondano, e basta! », asserì Baudelaire con sguardo torvo.
« Mi state seccando, caro Charles. Dio, per me, è un gioco erotico al pari degli altri. Non vedo il problema. Se, poi, una marea ondeggiante di intellettuali francesi frequenta la biblioteca, che colpa ne ho io? », disse a chiare lettere Donatien-Alphonse-François. Si alzò dal suo sgabello di legno e prese a camminare per la stanza con accenno febbrile.
« Siete lo spirito maligno della Francia! », gridò fuori di sé Carletto.
« Ah, ah! – rise di cuore Donatien-Alphonse-François – attendete il fremito d’un secondo, vado alla toilette! Torno subito, mio caro Charles, torno subito… abbiate la compiacenza di attendermi… ». Egli uscì di getto dalla camera, taglio tre quarti dell’immensa biblioteca – deserta com’era, in quella domenica autunnale – in un batter di ciglia. Raggiunse il lurido bagno bibliotecario, all’interno del quale giaceva uno spogliatoio violetto; vi era un inenarrabile odore di piscio che aleggiava agli spigoli del bugigattolo e che immediatamente lo disgustò. Poggiato su di una sedia metallica inchiodata a terra e coperto a brani da un panno di pizzo tremendamente infangato, era custodito un librone dalla copertina rossastra, simile al più imponente dei codici medievali. Al che lo prese e tornò con la stessa rapidità indietro sui suoi passi. Carletto aveva stranamente ripreso a pipare.
« Ebbene? », chiese non appena vide rientrare il furtivo Donatien-Alphonse-François.
« Ecco la vostra metafisica. Leggete, leggete. Almeno così ingannerete l’attesa di Sartre e il tempo che scorre… ».
« Portatemi dell’assenzio, per favore. Mi concilierà la lettura… », disse Carletto con rinnovata gentilezza. E mentre Donatien-Alphonse-François usciva in cerca d’un bicchiere d’assenzio possibilmente verde, l’altro gli rivolse un ultimo interrogativo.
« Chi l’ha scritta, caro Donatien-Alphonse-François? ».
« Ma come? Non leggete il nome dell’autore sul frontespizio? ».
« E’ coperto dal fango… ».
« Per forza, era sepolto nel boudoir. L’ho riesumato poco fa, non senza conseguenze. Ma voi raschiate col dito, caro Charles, raschiate… », ordinò con sicurezza il romanziere da quattro soldi.
« E’ Dio l’autore… », disse tremante Carletto, dopo aver raschiato assai impazientemente.
« Esatto. Leggete, leggete, caro Charles… e non me ne dogliate, ma purtroppo manca proprio l’ultima pagina, per tutti i simoniaci, l’ultima pagina! », e qui uscì, ridendo di cuore, l’enigmatico Donatien-Alphonse-François.

sabato 26 marzo 2011

La 'poesia' di De André

 
Via del Campo, ci va un illuso
a pregarla di maritare,
a vederla salir le scale
fino a quando il balcone ha chiuso.

Ama e ridi se amor risponde,
piangi forte se non ti sente:
dai diamanti non nasce niente
dal letame nascono i fior.
            
Nella società moderna i cantautori stanno via via soppiantando il ruolo dei poeti, perlomeno tra i giovani, i quali oggi, sempre più di frequente, associano alla Poesia nomi che con essa hanno poco a che fare. Se da una parte questo fenomeno di confusione tra cantautore e poeta è un sintomo quanto mai negativo dello scarso valore che la Poesia detiene nella nostra società, è anche vero d’altra parte − e almeno in questo possiamo trarne consolazione − che ci sono stati alcuni cantautori, come Fabrizio de André, che proprio attraverso le loro canzoni hanno saputo risvegliare la sensibilità poetica in molte persone.
Perché se è vero che De André non fu un poeta (precisazione che i poeti contemporanei tengono a sottolineare) è altrettanto vero che alcuni suoi ‘testi’ sono poesia. Non è solo la sua grande capacità stilistica, l’abilità nelle rime e nelle consonanze, la raffinatezza metrica ad avvicinare questo cantautore alla qualifica di poeta: le canzoni di De André posseggono, infatti, quella profondità e quella capacità evocativa che pertengono solo alla vera poesia.
Nella celebre Via del campo, ad esempio, la triste realtà della prostituzione diventa fonte di riflessione sull’autentico valore delle cose, sull’ambiguità della realtà e la falsità dell’apparenza (‘dai diamanti non nasce niente, / dal letame nascono i fior’). E così l’immagine scandalizzante della prostituta viene addolcita e trasportata in un'aura che trascende la bieca apparenza, l’insensata realtà: la donna costretta alla prostituzione riacquista, come solo potrebbe accadere nei versi del ‘poeta’, la sua essenziale purezza (‘Via del campo, c’è una bambina / dalle labbra color rugiada, / gli occhi grigi come la strada: / nascon fiori dove cammina’).
Allo stesso modo in Ho visto Nina volare, come spesso accade in De André, una realtà prosaica e apparentemente ‘impoetica’ diventa qualcosa di più profondo allo sguardo intenso del ‘poeta’:

Mastica e sputa, da una parte il miele;
mastica e sputa, dall'altra la cera;
mastica e sputa, prima che venga neve.
Ho visto Nina volare 
tra le corde dell'altalena:
un giorno la prenderò
come fa il vento alla schiena... 
luce, luce lontana
che si accende e si spegne,
quale sarà la mano
che illumina le stelle?

Il cantautore ricorda una pratica antica svolta nel Materano da alcune donne anziane che lavoravano nell’arnia: la loro azione descritta con un realismo che potrebbe sfiorare il greggio, si immerge in realtà in un’atmosfera arcana e simbolica, dove la stessa reiterazione della frase ‘mastica e sputa da una parte il miele, mastica e sputa dall'altra la cera’, «sembra rappresentare l'andamento faticoso della vita: come api operaie è necessario costruire passo dopo passo le proprie esperienze prima che venga neve».[1] L’attenzione si sposta poi su un’altra immagine altamente poetica, quella di una ragazzina guardata di nascosto mentre ‘vola’ sull’altalena, da un io che può essere identificato con il cantautore da adolescente: questa contemplazione del ragazzo innamorato prelude, infine, all’immagine del ragazzo che guardando le stelle e contemplando il mistero della creazione, si interroga sull’Assoluto (‘quale sarà la mano / che illumina le stelle’), che diventa quindi il vero protagonista della canzone, preannunciato dall’atmosfera arcana dei primi versi.  
Ma è La Buona Novella, probabilmente il capolavoro del cantautore genovese, il luogo in cui maggiormente si può cogliere l’essenza poetica di De André: nel riuso dei Vangeli apocrifi la poesia del testo viene quasi a sopraffare la musica, anch’essa di grandissimo valore, di modo che il suono delle parole stesse sembra dettare la melodia dei brani. E soprattutto la figura della Madonna, che De André tenta di umanizzare, che acquista ancora maggiore splendore nei versi del cantautore. Nella bellissima Ave Maria, dal suono dolce e sacrale, i versi anche sciolti dalla musica posseggono quella essenzialità della vera poesia: De André immortala nel brano la madre di Gesù, nel momento più importante della sua esistenza, quello della maternità, la maternità del Messia per l’appunto. E con ineffabile dolcezza il testo della canzone diventa un inno a tutte le donne, che almeno una volta nella vita sono come Maria, «femmine un giorno e poi madri per sempre, nella stagione che stagioni non sente»:

E te ne vai, Maria, fra l'altra gente
che si raccoglie intorno al tuo passare,
siepe di sguardi che non fanno male
nella stagione di essere madre.

Sai che fra un'ora forse piangerai,
poi la tua mano nasconderà un sorriso:
gioia e dolore hanno il confine incerto
nella stagione che illumina il viso.

Ave Maria, adesso che sei donna,
ave alle donne come te, Maria,
femmine un giorno per un nuovo amore
povero o ricco, umile o Messia.

Femmine un giorno e poi madri per sempre
nella stagione che stagioni non sente.


[1] Matteo Borsani - Luca Maciacchini, Anima salva, p. 163.

venerdì 25 marzo 2011

La parola, l'immagine. Il verso omerico

Omero, Iliade 1, 188-195:

Così parlò [Agamennone]. Nel Pelide sorse violento il dolore, il suo cuore
nel petto irsuto si spezzò in due:
o, tratta dal fianco la spada tagliente,
respingere gli altri e uccidere l’Atride,
o bloccare la bile e frenare l’impulso del cuore.
Mentre tali cose scuoteva in petto e in cuore
e già estraeva dal fianco la spada possente, giunse Atena
dal cielo. […]


La scena riportata rappresenta il celebre episodio del dubbio di Achille nel I canto dell’Iliade,  e costituisce uno snodo fondamentale per lo sviluppo delle vicende successive, dal momento che prelude allo scoppio dell’ira, motivo conduttore del poema. Nei versi precedenti Agamennone ha pesantemente offeso Achille, annunciando di restituire la propria concubina Criseide secondo il volere del dio, ma pretendendo in cambio Briseide, bottino di guerra dell’altro. I versi sopra riportati descrivono la reazione immediata di Achille a questo insostenibile sopruso. Istintivamente egli si sente sospinto in avanti, a farsi strada fra gli altri e ad uccidere l’autore dell’offesa; tuttavia un’altra forza lo trascina nella direzione opposta e gli impone di riporre la spada e, con essa, di frenare la collera.
Il dubbio fra questi opposti modi di agire presuppone innanzitutto uno stato di malessere fisico (akos, v.188) dovuto ad una situazione esterna particolarmente molesta, in questo caso la minaccia di Agamennone, insostenibile per un eroe e per la sua etico aristocratico-militare. Lo stato di incertezza che ne segue non si verifica in uno spazio mentale astratto, ma viene avvertito in una zona del corpo ben precisa, il cuore (etor, v.188). Il cuore di Achille si trova spinto in due direzioni opposte da due istanze qui incompatibili: da una parte l’esigenza istintiva di punire l’offesa, dall’altra il divieto etico di uccidere un superiore. Queste due forze letteralmente trascinano l’etor dall’una e dall’altra parte, fino a lacerarlo.
Il dubbio in Omero non è altro che una frattura fisica del cuore diviso fra due possibili azioni, uno status di paralisi nel quale l’eroe si trova improvvisamente e che subisce in modo del tutto passivo, senza sapersi in alcun modo risolvere. Sarà infatti l’apparizione esterna di Atena a ‘sbloccare’ Achille spingendolo, attraverso un ordine, nella direzione imposta dal suo codice etico (non uccidere Agamennone). 
L’espressione utilizzata per significare questa condizione, diandika mermerixen (v.189), è di enorme interesse, tanto più perché, se compare spesso in Omero,  non sarà più riscontrata nella poesia greca successiva, se non per parodiare il lessico omerico stesso (come in Aristofane, Vespe, 5) Se tale espressione viene oggi perlopiù tradotta con “oscillò nel cuore”, conformemente all’etimologia modernamente accettata che fa risalire mermerizo alla forma poetica mermera (‘ansia’), può essere proposta un’interpretazione più fedele ad un livello arcaico di significazione. Come supportato dalla scoliografia antica e dal commento di Eustazio, è possibile riscontrare nel verbo mermerizo un raddoppiamento della radice –mer, legata al concetto di ‘parte’, ‘porzione’ (meros = parte, Moira = porzione di vita assegnata, merizo = dividere). L’espressione diandika mermerixen, riferita al cuore di Achille, significherebbe pertanto ‘si trovò in due parti’, dunque ‘si spezzò in due’.


Se il linguaggio poetico ha il potere di creare, suscitare, evocare immagini, la parola poetica di Omero è immagine essa stessa. In una fase linguistica così arcaica e, soprattutto, nell’ambito di una performance orale in cui il poeta canta dinnanzi ad un pubblico di ascoltatori, è l’immagine a farsi parola, conservando nel verso tutto il carattere visivo e quasi tangibile che le è proprio.
Omero dispone, nel suo greco del IX-VIII sec. a. C.,  di una sfera semantica prevalentemente sensoriale, legata al mondo della fisicità e della materialità, e di quella si serve per significare l’immagine del dubbio che, prima di essere un conflitto astratto fra istanze mentali, è uno stato fisico di paralisi e di incapacità di agire nell’una o nell’altra direzione, dunque una vera e propria frattura.
L’immagine del cuore o dell’animo che oscillano nell’incertezza avrà grande fortuna in poesia,  ma acquisirà un valore metaforico del tutto assente in Omero.
Si vedano a tale proposito questi bellissimi versi di Virgilio, in Aen. 8, 20 ss.:


[…] Quae Laomedontius heros
 cuncta videns magno curarum fluctuat aestu,
atque animum nunc huc celerem nunc dividit illuc
in partisque rapit varias perque omnia versat,
sicut aquae tremulum labris ubi lumen aenis
sole repercussum aut radiantis imagine lunae
omnia pervolitat late loca, iamque sub auras
erigitur summique ferit laquearia tecti.


Vedendo tutto ciò l’eroe
 laomedonteo fluttua in una grande tempesta d’impulsi
e divide il veloce pensiero a vicenda qui e lì
e lo trae in diverse parti e lo volge ad ogni espediente:
come il tremulo lume dell’acqua in un vaso di bronzo
che riflette il sole o l’immagine della raggiante luna
volteggia ampiamente per tutti i luoghi, e s’innalza
nell’aria, e colpisce i riquadri dell’alto soffitto.
[trad. di Luca Canali]


In Virgilio l’oscillare incerto del pensiero genera l’immagine metaforica di un vertere fisicamente inteso, ma a monte vi è pur sempre un’operazione di natura mentale e astratta, che riguarda non a caso l’animum (‘animo’, ‘mente’, ‘pensiero’).
Al contrario, quando Omero descrive il dubbio come una lacerazione del cuore non sta trasferendo un’operazione mentale astratta in un’immagine fisica concreta, ma intende dire alla lettera che l’eroe viene fisicamente trascinato in due direzioni opposte fino quasi a provare la sensazione di una frattura.  L’idea del cuore spezzato in due parti opposte non ha in sé nulla di metaforico, ma coincide esattamente con la violenta sensazione che colpisce il cuore dell’eroe, espressa nel greco arcaico dal mermerizein. L’immagine della frattura è insomma fisiologicamente insita nell’espressione diandika mermerizein, è un tutt’uno morfologico e semantico con essa. Non è un caso che il termine scompaia nella letteratura successiva: la sensazione del dubbio assumerà nell’immaginario connotati più astratti, introspettivi, e il mermerizein non potrà che apparire desueto (tanto da essere addirittura oggetto di parodia linguistica).
Se la poesia conoscerà di lì a poco la grande conquista della metafora, il verso omerico, nato in seno all’oralità, si trattiene ancora legato ad un immaginario semplice e scarno, estremamente naturale eppure incredibilmente fecondo, quello delle cose di cui possiamo fare esperienza con i sensi.
Ma di fronte a noi lettori moderni è forse proprio questa naturalissima fisicità a rendere  la parola poetica di Omero nuda e incontaminata, schietta, pura, estremamente vera, eppure (o forse proprio per questo) sorprendentemente immaginifica.

Prima Zaffata (o Lo Martedì Urbinate)


Lo martedì da Duzzo al Karaoke
v’è l’usanza d'andare in quel d’Urbino
a cantar con le voci chiocce e roche.

Smaltiscesi così il cotanto vino,
che in casa beviam pria d’uscire fuori
e di andar per i pub a far casino.

Ma se troppo le vene di liquori
pervase son spiacevole serata
si prospetta, e con postumi peggiori.

Così a lo grande Zaffo è capitata
esta sventura un martedì trascorso:
or canterò la sorte sciagurata.

La luna era a metà de lo suo corso
quand’io mi dirigeva a la magione
del buon Pietro per rapido percorso.

A sua insaputa quivi una gran festone
avea quel dì Braiano organizzato
per cui folla adunavasi al portone.

Ma poi che nella casa fummo entrati
Lambrusco e Nero d’Avola si stappa
e vin beviam furiosi ed assetati.

Più d’un bicchier a la calata scappa,
ma la disgrazia fu quando pigliare
Pietro vediam da la scansia la grappa.

Allotta il liquor videsi assaltare
da cotanti beoni e il vincitore
Zaffo fu che si mise a tracannare.

E godendo di quel bestial sapore
la bottiglia non lascia se non quando
ha tutto terminato il suo liquore.

Ebbri da Duzzo dirigiamci intanto
e già scegliamo insieme le canzoni
su cui avremmo intonato il nostro canto:

scegliam ‘Domani’ e grandi le ovazioni
son di tutto il pubblico ch'ascolta
e che perdona pure li stecconi.

Cantiamo insieme ancora un’altra volta
finché ciascun di noi al fin si stanca,
né più la lode ormai ci vien rivolta.

Ma ci accorgiamo allor che Zaffo manca,
e già temendo il peggio lo cerchiamo:
vicino lo troviam che in terra arranca.

E poi che un po’ di più c’avviciniamo,
guatando in terra il pozzo ch’avea fatto,
di farlo rinsavir e alzar tentiamo.

Ma invano! Quelli par dal suolo attratto
e più noi lo proviamo a sollevare
più egli casca e inizia a dar di matto.

Matteo lo prova allora a confortare
e parla molto, ma con fievol voce
Zaffo risponde: «Lasciami crepare!».

Ci giunge quindi Alberto assai veloce
e prima parla amabile e pacato,
ma poi con tono micidiale e atroce

grida e minaccia l'ebbro disgraziato:
«Alzati, orsù!», ma egli non è Cristo,
né Zaffo è Lazzaro, e riman sdraiato.

Ch'ei farcela non può s'è ormai ben visto:
in tre pertanto in braccio lo prendiamo,
­i volti di pietà e di rabbia un misto.

Per l'erta via Mazzini scarpiniamo;
giunti a la Piazza Pietro io ammonisco,
ché mezzi morti omai noi tre arranchiamo:

«Aiutami, ti prego, ché perisco!»,
e Alberto dietro a me in tribolazione:
«Ahimè, m’è uscita fuor l’ernia del disco...».

Di Pietro per fortuna a la magione
al fin giungiamo e su per l'alte scale
con sforzo micidial portiam Zaffone.

Omai sentiamci tutti un poco male;
ma finita che fu la scalinata
dentro casa potemmo riposare.

E il sonno pose fine alla Zaffata.

Racconti: Varia Umanità

Io sono qui a scrivere. Mio padre legge dianzi a me. Alle spalle gente confusa. Risuona il tramestio della macchina da caffé, – la guida un lacché. Un pitocco sbevazza, nel mio raggio d’ombra. Un gaglioffo, suo pari, lo asseconda. La sciantosa canta l’aria perduta. Il Figlio dell’Uomo balla alla destra del Padre invisibile. Il neghittoso giace in disparte, – sua moglie gioca a carte. ‘Siam tutti birbanti!’ pensa Pitou. ‘Il cielo non me ne voglia!’ grida una poco di buona lungo la strada. Il conte Mosca teme il frastuono di barche in rada. Dall’altra parte del globo gentaglia s’infiamma: l’aristocrazia ha bell’e concluso il corso opaco. Robinson Crusoe, invece, prosegue la sua tirata in solitaria. ‘La plebe sarà patrizia, la Patrizia sarà plebea!’ dicono i malinformati. Il Medio Oriente chiama. Ma Del Dongo corteggia, patisce, ama: e si muove come un chiaro segnale di vanità. Giorgio, suo parente, gira bel bello in bicicletta per le vie incognite di Ferrara. Micol non l’ho attende. L’Alfa e l’Omega si chinano alla Necessità: almeno così dice il filosofo meccanicista, figlio d’un qualche patema pregresso. La vita dei giovani, il sabato sera, arriva all’eccesso, – ne faranno un gran processo al Governo Italiota che ha dato un così cattivo esempio.
Il Maestro è invecchiato; Johnny pure. Gli imperi musicali sono sfaldati dalla pirateria occulta. Anche i bucanieri scelgono la comoda Cadillac: bianca o nera, nulla fa.
Tutto questo succede, mentre scrivo; sicché mi riesce difficile di registrare ogni movenza. Ma chi avrebbe il coraggio di dire che qualcosa è accaduto?
 E la donna, di cui si ha un gran parlare nella mia testa, sorride a qualche anima sconosciuta, – anima che evidentemente non sono io. Ella ride, nel farsi dei suoi gesti consueti: e l’umanità, mossa dal nonsenso, continua a fluire, nonostante un cotanto sorriso!

Racconti: K.

K., riesumato se stesso, tornò al mondo. Decise di lasciare la pratica agrimensoriale, la Mitteleuropa e i casi cui s’era occupato anni or sono. Si trovò un impiego tranquillo a Saint-Rémy-de-Provence, la città di Nostradamus e Van Gogh, nel sud della Francia, coperta da oliveti selvatici. Il suo non era un lavoro sciocco: consisteva nel concludere il manoscritto de Das Schloß, che lo vedeva protagonista di avventure sconcertanti. Comprò una stecca di sigari, tre pacchi di penne a sfera e si chiuse nel suo stanzino in Avenue Folco de Baroncelli, deciso a non uscire che per pranzare. La faccenda gli era stata commissionata dal commissario Jules Maigret, che aveva incontrato su di un treno provinciale. Maigret s’era concesso una vacanza in Boemia, giacché di lavoro non se ne parlava proprio: era troppo vecchio per gli enigmi polizieschi. 
Seduto comodamente sul sudicio schienale della cabina numero 113, il commissario scrutava K. Caricò la sua splendida pipa in ottone, e gli disse cautamente: « Monsieur, ci conosciamò? Ci siamo vistì da qualche partè? ».
« Credo di no. Gli è che, forse, lei conosce i miei trascorsi; ma d’oggi non si sa niente. E’ probabile che anch’io abbia letto qualcosa sul suo conto, pur tuttavia è difficile poter dire qualcosa. Nemmeno i nostri signori potrebbero aggiungere un che alle vicende. E’ giunta l’ora della responsabilità: non sarà idiota l’aver parlato, dopo che s’è taciuto per così tanto tempo! ».
« Cosa intende dirè, monsieur? », bofonchiò il commissario, accennando un sorrisetto sarcastico.
« Intendo dire, – sospirò K., osservando a lungo i mustacchi di Maigret, i quali roteavano in maniera assai bizzarra, quasi volessero intimargli la chiarezza del discorso – intendo dire che noialtri viviamo dei nostri frammezzi essenziali, e non del quotidiano. E non è gran bella cosa! Siamo sempre presi al vischio, per Dio! ». Maigret aggrottò le sopracciglia.
« Lei vuole affermarè che conosce assai la sua Storià da poterne parlarè coscientementè e con cognizionè di causà? », inferì.
« Suppongo di sì… ».
« Oui! Bien! Allorà le dico, monsieur: vadà a Saint-Rémy-de-Provence e finiscà lì il suo roman! ».
« E’ un ordine o un consiglio? », chiese con leggerezza K.
« Oh, no – si affrettò a chiarire il commissario, perdendo ogni vestigia di accento francese – oh, no! Non asserisco questo. Gli è che, come già lei ha detto da gran tempo, è facile trovarsi nell’imbarazzo di non poter riferire granché delle vicende personali. Se lei è bravo, lo faccia. Ma il mondo ci chiede la testimonianza. Eppure quel che succede è frutto di movenze particolari, particolareggiate. Non crede? Molti saprebbero sintetizzare le proprie faccende, ma non riuscirebbero per nulla a dare, con una parola – le ripeto con una parola – un sentore di pienezza ».
Da quel giorno, ogni volta che passo per l’Avenue, nell’attimo in cui il tramonto rosseggia sulle schiere di alberi scarni e autunnali, vedo una tiepida luce rischiarare lo stanzino di K. e immagino l’agrimensore, angosciato e solo nella penombra, che scrive le ultime pagine della sua Storia.

martedì 22 marzo 2011

'Un abisso di luce'. Lettura dei racconti di F.Kafka.


Un viaggio dentro il nostro tempo, dentro l'abisso di un autore come Kafka. Con la sua scrittura egli ha saputo, con grande preveggenza, parlare del nostro tempo quando ancora esso era in germe. Ne parla come solo un grande scrittore può fare, gettandovisi dentro e riportandolo sulla carta soltanto per accenni e parabole enigmatiche e inquietanti. I racconti di Kafka sono forse alcuni dei testi più oscuri e più emblematici del novecento e della storia contemporanea; in essi si cela quel lato oscuro della storia, della vita, che può essere manifestato solo con parabole e allegorie grottesche: nessun realismo sarebbe capace di mostrare la realtà come il grottesco kafkiano. La scrittura di Kafka non vuole dare risposte, non vuole essere capita, essa è oscura in quanto oscuro è l'uomo, e tutte le interpretazioni che possono essere date ai suoi racconti saranno sì, utili per comprendere il Kafka scrittore, ma mai sufficienti a poterlo sviscerare e rendere chiaro. Un emblema del modo di pensare kafkiano è senz'altro la risposta che, alla domanda di Gustav Janouch, durante intervista in cui gli viene chiesto il suo parere riguardo alla figura di Cristo. Lo scrittore risponde con una risposta lapidaria: 'un abisso di luce. Bisogna chiudere gli occhi per non precipitarvi.' La realtà kafkiana è come Cristo: un abisso di luce, e in questo ossimoro si racchiude tutta la forza dei suoi racconti, tutta la loro misteriosa chiarezza; in essi è presente una realtà che colpisce, ma allo stesso tempo abbaglia e costringe a chiudere gli occhi su ciò che mostra.

domenica 20 marzo 2011

I silenzi di Bergman

I films d'oggi ci hanno abituato alla rapidità e alle ciance, come se la già la nostra frenetica vita non lo facesse abbastanza. Lo stile hollywoodiano, ricco di suspense, di effetti speciali e di lieti fine d'opera, impera senza quasi rivali; e il mondo economicus gli è grato, poiché riproduce fedelmente (ma superficialmente) il caos del fare e del dichiarare, che contraddistingue l'epoca e il pretesto. A pochi 'pazienti' pertanto rimane in eredità quel cinema fatto di gesti essenziali e di lunghi silenzi, nel quale la mimica e la 'prestanza scenica' contava molto più di mille vacue parole e di duecento capovolgimenti di fronte. Non mi riferisco soltanto alla nouvelle vague, ma anche ai grandi capolavori del genio Bergman, morto meno di quattro anni fa. 
Chi oggi avrebbe l'accortezza e il riserbo di non sbuffare dianzi ai lunghi mugugni del professor Isak Borg ne Il posto delle fragole? Chi non si annoierebbe di fronte alla cauta vendetta del proprietario terriero Tore ne La fontana della vergine?
Ciò perché i cosiddetti 'stilemi' cinematografici sono cambiati irreversibilmente; ma non per questo deve mutare radicalmente  il nostro modus essendi e la nostra capacità di attesa e riflessione, di analisi e rielaborazione. Il cinema di Bergman, infatti, permette allo spettante di comprendere le difficili trame dell'esistenza nell'esatto istante in cui essa si svolge per opera dei personaggi. Le immagini bergmaniane non sono 'sparate' come un tiro schioppato di fucile sulla mente spenta e inerte, bensì fuoriescono in maniera spontanea e aggraziata dalla cinepresa per poi depositarsi nella coscienza di chi guarda. Sicché diviene per noi quasi naturale capovolgere le suddette domande, e dire: cosa sarebbe Il posto delle fragole senza la straordinaria espressività di Ingrid Thulin, nel mentre che guida l'automobile diretta a Lund? E cosa sarebbe La fontana della vergine se non fosse per la quieta taciturnità di Max von Sydow, che attende l'attimo giusto per scannare gli assassini?
Soltanto adesso, forse, soltanto nell'epoca del chiasso e della rapidità supersonica ci riesce di capire quanto siano preziosi e intelligenti i silenzi di Bergman.

venerdì 18 marzo 2011

"Signori, spengete il nucleare!"

Il Giappone, anni or sono, ha già scorto lo spettro dell'olocausto nucleare. Ma gli uomini, la storia lo dimostra, hanno serie difficoltà d'apprendimento e la loro stessa recente esperienza non li aiuta in alcun modo. 
Pur tuttavia i Signori delle Tenebre, i Masters of War, i palafrenieri del progresso scientifico hanno deciso, seduta stante (e senza consultare le parti in causa), che l'umanità intera debba proseguire il suo cursus evolutivo e che il nucleare sia essenziale a tal fine, salvo catastrofi tipo quella di Chernobyl, il cui progresso tecnico-tattico è stato quello di mettere al mondo figli deformi. Anche in Italia, paese notorio per la sua innata capacità nello scegliere il momento sbagliato, si tira a campare e c'è stato chi ha dichiarato con notevole aplomb: "Il piano per il nucleare va avanti" oppure "No a scelte dettate dalle emozioni". Difficile poter attribuire una corbelleria di tal fatta. Sarà stato il ministro della Semplificazione (di che cosa non lo sa neanche lui!) o quello per l'Attuazione del Programma (non dovrebbe essere il premier ad 'attuare il programma'? Ah no, è vero! Lui è impegnato nel dirigere il Milan e il suo prestante harem)?


Certo, il nucleare può avere i suoi vantaggi. Ma è pericolosissimo. Si stima che lo smaltimento delle scorie radioattive non sia stato risolto in alcun paese al mondo; sulle generazioni future questa pesante eredità graverà forse irrimediabilmente. "Il Governo italiano", se fosse un tantinello democratico, "dovrebbe decidere di sospendere il progetto nucleare, o almeno di bloccarne l’attuazione fino all’effettuazione del prossimo referendum che punta a cancellare la legge 99/2009, aspettando il responso degli elettori", come sostiene a ragione Alfiero Grandi, presidente del comitato "SI alle energie rinnovabili NO al nucleare".

Nulla di tutto ciò, per adesso. Si continua a pensare all'economia, alla scienza, alla volontà di potenza, ai progetti, alla partita IVA, finanche alle caldarroste e a Mastrolindo, senza tener conto dell'humanitas e dei suoi derivati. E questi bricconi, questa gente senza scrupolo, questi 'birbanti' (direbbe Moliére) hanno anche l'ardire di mettere in dubbio l'essentia della poesia e dell'arte, inferendo che essa non serva a nulla e a nessuno e che, anzi, sia d'impaccio per la ricerca della verità. Razza di canaglie e di avvelenatori!

Di questi tempi, la poesia ha il compito di rammentare agli infami e ai furfanti che l'uomo è pur sempre un essere umano (scusate il necessario bisticcio di parole) e che la sua esistenza è più importante del suo progresso. Per cui, signori, spengete il nucleare!


http://www.youtube.com/watch?v=izSOv0492zo


http://www.youtube.com/watch?v=07DYbmQ37VU

Luzi: "Italia mia fra incubo e sogno"

Luzi parla dell'Italia e della sua 'utopica' e 'linguistica' unità. Ne parla come solo un poeta riesce a fare, come la coscienza storica di un popolo intero.


Sì, l'Italia è tenuta insieme da un sogno. 
Un sogno che ha tenuto in piedi il nostro Paese
quando si è cominciato a parlare italiano e gli uomini di cultura
hanno parlato per tutti dell'Italia da farsi. 
Un'Italia virtuale, l'unica possibile. 
Non siamo mai stati un Paese che potesse riposare
sulle proprie ragioni, acquisite una volta per tutte. 
L'Italia è stata sempre vera e indubitabile nella tensione 
verso un'idea di sé da raggiungere. 
E' stata una perpetua utopia, oppure non è stata niente.
L'anima della nostra gente è progettuale, non asseverativa. 
L'identità non è un dato ma un punto da raggiungere. 
Senza l'antico sogno di un paese da costruire, 
di un'Italia perennemente da fare, illimitatamente futura, 
la nostra nazione si disgrega e il suo popolo torna a essere
un volgo disprezzato.

martedì 15 marzo 2011

Il Giappone, la Libia e la terra del non-detto

Il terremoto ci ha scosso, lo tsunami ci ha sommerso, gli immigrati ci sommergono: ciò nondimeno nessuno dice o prova a dire il perché queste cose accadano. Le spiegazioni più usuali (e più usurate) sono: "La natura si ribella" oppure "Dio ci punisce" oppure "Lo sa il diavolo cosa sta succedendo" oppure "L'uomo è sanguinario e il terremoto dipende dalle faglie acquifere". Communis opinio è che i nipponici stanno dimostrando al mondo una grande dignità e i ribelli libici un gran coraggio - pur tuttavia si mostra ancora oscuro il Leitmotiv delle due faccende. Resta oscura la caducità dell'uomo, il quale pretende di governare l'universo in virtù del progresso scientifico, di fronte a ciò che egli crede di tener saldo con mirabile fierezza; resta oscuro il suo progetto di rivolgimento della situazione socio-politica. 
Immaginate un po' un nipponico tre ore prima del disastro (o forse anche due ore, o semplicemente venti minuti): "Ora vado a lavoro, poi faccio la pausa pranzo, poi ritorno a lavoro - tra un mese mi promuovono - stasera ho una cena di lavoro, domani sto a casa con la famiglia, dopodomani torno a lavoro". Basta un'onda anomala per spazzare via qualsiasi 'umana tensione al futuro'. Cos'è un'onda anomala per il mare immenso? Niente. Cos'è un'onda anomala per quel nipponico? La fine di tutto. Sartre, uno dei maître à penser del Novecento, ontologo di professione, voce di generazione, diceva che l'uomo è progetto; ebbene adesso il venerando pensatore sa dirmi dove è andato a finire un tale nipponico progetto, e dove andrà a finire il libico progetto, ora che Gheddafi mani-di-forbice si avvicina alla capitale dei ribelli? Nessuno può dirlo. Ciò rende l'uomo, dominatore dell'universo secondo il suo spirito, l'essere più esposto ai capricci e alla danza del caso; ciò lo consegna alla terra del non-detto, il luogo in cui scienza, sapienza e progetto si ammutoliscono e risuona un'unica domanda: perché tutto questo?

lunedì 14 marzo 2011

Pace non trovo e non ò da far guerra (sonetto CXXXIV)



Pace non trovo e non ò da far guerra,
e temo e spero; ed ardo e son un ghiaccio;
e volo sopra ‘l cielo e giaccio in terra:
e nulla stringo, e tutto ‘l mondo abbraccio.

Tal m’à in pregion, che non m’apre né serra,
né per suo mi riten né scioglie il laccio;
e non m’ancide Amor e non mi sferra,
né mi vuol vivo né ni trae d’impaccio.

Veggio senza occhi e non ò lingua e grido;
e bramo di perir e cheggio aita;
ed ò in odio me stesso ed amo altrui.

Pascomi di dolor, piangendo rido;
egualmente mi spiace morte e vita:
in questo stato son, Donna, per voi.

venerdì 11 marzo 2011

La belle dame sans merci

Forse non sai che Montale è il poeta per noi.
(Egli non sputò mai un blabla ingrommato
ai fondi della lingua nostra puerile;
egli disse ciò che di remoto fra greti
                                               v’è da dire).

Ciò nondimeno, i tempi passano
e critici e letterati caldeggiano,
rame d’alloro alla mano,
l’incoronatio nova dei sommi
che soffochi i latrati
alla stolta tregenda,
e sveli quel sospirato
             quid, il solo che non menta.

Invero, la Giustizia è ai corvi
e il guizzo per pochi è di troppi;
ma tu non cessare il cammino
coi tuoi sguardi cantonali:
di pochi passi misurati
è il volo nostro senz’ali.