venerdì 29 aprile 2011

Strada

Trovarsi ad ogni nuovo giorno, di fronte
la solita e ormai nota strada; se la attraversi
la meta è sempre quella, quella che ieri
ti ha portato a nulla. Quella che oggi,
speri possa darti stimoli diversi.
Ma lo sai, e dopo un po’, pure, ci si stanca
di attraversare e non trovare il paradiso.
E poi, se anche questo dicono sia eterno
che differenza c’è col tanto odiato inferno?
Solo la vita non è mai la stessa, e quando l’inferno
e il vacuo paradiso, sono la chiave dello stesso viso
con che coraggio, tra gli autobus e l’inferriata
ancora puoi tentar di attraversare quella strada? 

Edgar Allan Poe, "Il corvo"

Una volta, sul fare di una desolata mezzanotte, mentre meditavo, debole e stanco,
su alcuni desueti e curiosi volumi di una dottrina dimenticata,
e, quasi assopito, reclinavo il capo, a un tratto un tocco lieve si produsse,
come se qualcuno bussasse sommessamente, bussasse sommessamente all’uscio della mia stanza.
“ È qualche visitatore ” mormorai, “ che batte l’uscio della mia stanza,
solo questo e nulla più. ”

Ah, io distintamente ricordo che era nello squallido dicembre,
ed ogni morente particella di brace rabescava col suo spettro il pavimento.
Impazientemente anelavo il giorno; vanamente mi ero sforzato di trarre
dai miei libri tregua al dolore, al dolore per la perduta Leonora,
per l’unica raggiante fanciulla che gli Angeli chiamano Leonora,
e che quaggiù nessuno chiamerà mai più.

Ed il fruscio serico triste ed incerto di ogni tenda di porpora
mi faceva trasalire, mi riempiva di terrori fantastici mai provati prima d’ora;
cosicché a questo punto, per calmare i battiti del mio cuore, mi alzai ripetendo
“ è qualche visitatore che implora di entrare all’uscio della mia stanza –
qualche tardo visitatore che implora di entrare all’uscio della mia stanza;
è questo e nulla più. ”

Allora la mia anima si sentì più forte; non esitando oltre,
“ Signore – io dissi – o Signora, in verità io imploro il vostro perdono;
ma il fatto è che io sonnecchiavo e così sommessamente siete venuto a bussare,
e così debolmente siete venuto a battere l’uscio della mia stanza,
che a stento mi convinsi di avervi udito. ” – Allora spalancai la porta;
ovunque tenebre e nulla più.

In fondo al quel buio sbirciando, a lungo rimasi lì a guardare, ad aver paura,
a dubitare, a sognare sogni che nessun mortale avrebbe mai osato sognare prima;
ma il silenzio era intatto, e la quiete non ebbe intralcio,
e la sola parola lì detta fu la sussurrata parola “ Leonora! ”
Questo sussurrai, e un’eco mormorò in risposta alla parola “ Leonora! ”
Solo questo e nulla più.

Ritornando nella mia stanza, con tutta l’anima bruciante in me,
ben presto udii un nuovo tocco un po’ più forte di prima.
“ certamente, – io dissi – certamente questo è qualche cosa all’inferriata della mia finestra;
vediamo, dunque, che cosa vi è lì ed esploriamo questo mistero;
lasciamo che il cuore si plachi un istante ed esploriamo questo mistero;
è il vento e nulla più. ”

Spalancai allora l’imposta quando, con spinta improvvisa e gran batter d’ali,
irruppe un maestoso corvo dei consacrati tempi antichi.
Non fece il minimo inchino; non sostò od esitò nemmeno per un istante;
ma col fare di un lord o di una lady, si posò sopra l’uscio della mia stanza,
si appollaiò sopra il busto di Pallade proprio sopra l’uscio della mia stanza,
si appollaiò e vi rimase, e nulla più.

Allora questo uccello d’ebano indusse al sorriso la mia triste immaginazione
col grave ed austero decoro del suo contegno,
“ benché il tuo capo sia senza ciuffo e spoglio, tu, ” io dissi, “ certamente non sei codardo.
Orribilmente sinistro ed antico corvo errante della Notturna sponda;
dimmi, qual è il tuo nome nobiliare nella sponda plutoniana della Notte! ”
Disse il corvo, “ Mai più. “

Mi meravigliai molto che questo goffo uccello intendesse così chiaramente il discorrere,
benché la sua risposta avesse così scarso significato e così scarsa pertinenza;
perché non possiamo fare a meno dal convenire che a nessun essere umano vivente
mai fin ora fu dato di vedere un uccello sopra la porta della propria stanza –
uccello o bestia sul busto scolpito sopra la porta della propria stanza,
con un nome come “ Mai più. ”

Ma il corvo, appollaiato solitario sul placido busto, disse solo quell’ unica parola,
come se riversasse in quell’unica parola la sua anima.
Null’altro quindi proferì, non scosse una sola penna –
finché io mormorai appena: “ Altri amici un tempo s’involarono;
sul fare del giorno egli mi lascerà, come le mie speranze un tempo s’involarono. ”
Allora l’uccello disse “ Mai più. ”

Riscotendomi per la quiete turbata da una risposta tanto appropriata,
“ senza dubbio ” io dissi, “ ciò che esso esprime è il suo unico patrimonio e fondo di sapere,
preso da qualche maestro infelice al quale la spietata Sventura diede una caccia ostinata,
incalzandolo sempre più accanitamente finché i suoi canti non ebbero che un unico ritornello –
finché i canti funebri della speranza non ebbero che il malinconico ritornello
di “ Mai – mai più. ”

Ma mentre il corvo ancora induceva al sorriso tutta la mia anima triste,
io spinsi risolutamente un sedile imbottito di fronte all’uccello a al busto e all’uscio.
Quindi, sprofondando nel velluto mi diedi ad incatenare fantasia e fantasia,
pensando che cosa questo infausto uccello antico –
che cosa questo sinistro, goffo, orribile, sparuto ed infausto uccello antico
intendesse dire gracchiando “ Mai più. “

Questo ero intento a congetturare, senza esprimere sillaba all’uccello
i cui occhi fiammeggianti si imprimevano indelebilmente nel profondo del mio cuore;
questo e ancora di più ero intanto ad indovinare, con la testa reclinata riposante
sulla fodera di velluto del cuscino su cui la luce della lampada con perversa gioia guardava,
ma la cui fodera di velluto viola che la luce della lampada con perversa gioia sta guardando,
ella non permetterà, ah, mai più!

Allora mi sembrò che l’aria si addensasse, profumata da un incensiere invisibile
oscillato da mano d’angeli il cui suono di passi tintinnava evanescente sul pavimento felpato.
“ Infelice, ” io gridai, “ il tuo Dio ti ha prestato – con questi angeli egli ti ha inviato
un momentaneo sollievo, un momentaneo sollievo e del nepente ai tuoi ricordi di Leonora!
Bevi a gran sorsi, oh, bevi questo gentile nepente e scorda questa perduta Leonora! ”
Disse il corvo, “ Mai più. ”

“ Profeta! ” io dissi, “ creatura del male! uccello o demone, ma sempre profeta!
Se ti ha mandato il Tentatore o se è la tempesta che ti ha scagliato su questa sponda,
desolato ma sempre intrepido, su questa deserta terra incantata,
su questa casa frequentata dall’Orrore, dimmi la verità, io t’imploro,
 vi è, vi è balsamo in Galaad ? dimmi, dimmi, io t’imploro! ”
 Disse il corvo, “ Mai più. ”

“ Profeta! ” io dissi, “ creatura del male! uccello o demone, ma sempre profeta!
Per quel Cielo che s’incurva sopra di noi, per quel Dio che adoriamo entrambi,
dì a quest’anima colma di dolore se, entro il lontano Eden,
essa abbraccerà una fanciulla santificata che gli Angeli chiamano Leonora –
Abbraccerà l'unica e raggiante fanciulla che gli Angeli chiamano Leonora?
Disse il corvo, “ Mai più. “

“ Siano queste parole d’addio ” alzandomi gridai, “ Uccello o creatura del male,
ritorna alla tempesta e alle plutoniane rive della notte!
Non lasciare una sola piuma in segno della tua menzogna!
Lascia inviolata la mia solitudine, libera il busto sopra la mia porta!
Togli il becco dal mio cuore e porta via la tua forma fuori dalla mia porta! ”
Disse il corvo, “ Mai più ”.

E quel corvo senza un volo siede ancora, siede ancora
sul pallido busto di Pallade, proprio sopra l’uscio della mia stanza;
ed i suoi occhi hanno tutta la parvenza degli occhi di un demone che sogna,
e la luce della lampada che gli fluisce addosso proietta la sua ombra sul pavimento;
e la mia anima, da fuori di quest’ombra che giace fluttuante sul pavimento,
non si risolleverà – Mai più!

domenica 24 aprile 2011

Il germe di un 'vizio'

L’ombra di un pensiero può celarsi nei labirinti di una mente per anni, rimanere nascosta, svelata solo da intensi e fulminanti attimi creativi, nei quali quel pensiero, se così doloroso, se così estraneo alla vita, diviene arte: quasi una sorta di riscatto verso se stesso. Ed è proprio questa l’arte per Cesare Pavese: il riscatto dal pensiero di una vita che non riesce a vivere, a godere fino in fondo; così tutti i suoi dolori, le sue pene, tentano una sublimazione in forme artistiche. Questo rimedio letterario sarà sufficiente a sopprimere nell’ombra la sua ossessione, il suo ‘vizio’, per quarantadue anni; ma quando raggiunto l’apice del successo con il riconoscimento del ‘premio strega’, si renderà conto del vuoto che si ostina a fiancheggiare la sua vita, non vissuta: «non si può bruciare la candela dalle due parti – nel mio caso, l’ho bruciata tutta da un lato e la cenere sono i libri che ho scritto»[1], e la letteratura non è più sufficiente a confortarlo:  «se avessi imparato a vivere invece che imparare a scrivere!»[2], decide, allora, di compiere quell’atto che prepara da tutta una vita, e sull’ultima pagina del suo diario, come fosse l’ultima pagina della sua vita, scrive: «non parole. Un gesto. Non scriverò più»[3]. In questo modo si conclude il 27 agosto del 1950, all’hotel Roma di Torino, la vita di Cesare Pavese quando i suoi anni erano soltanto quarantadue. Accanto a lui, sul comodino dell’anonima stanza d’albergo, un libro di Majakovskij – altro grande poeta che scelse la  morte anziché un lento trascinarsi in un mondo così assurdamente malato – e accanto a questo una copia della sua ultima opera, quella verso cui sentiva maggiore vicinanza, i Dialoghi con Leucò[4],  sulla cui copertina lasciò scritta questa breve frase: «perdono tutti e a tutti chiedo perdono. Va bene? Non fate troppi pettegolezzi». Sembrerebbe, questo, un monito a dimenticare la sua precoce fine, l’addio ad un mondo in cui l’arte, a quanto pare, non è sufficiente a riscattare una vita non vissuta; ma nonostante l’esplicita richiesta, come è possibile mettere da parte una così terribile fine, nasconderla sotto la polvere e cancellarla dalla memoria: questa morte che non avvenne, come la storia vuole farci credere, in quella serena notte d’estate del 1950 ma che già da tempo covava il suo veleno all’interno della mente travagliata del poeta, infatti quelle ultime richieste del suicida Pavese non vennero ascoltate e le cause di quel gesto così terribile furono per molti critici e per molti studiosi materia di approfonditi studi, diretti sia alla vita sia all’opera dell’autore e dell’uomo Pavese. Una su tutte, l’opera che più delle altre ha indagato profondamente su questo argomento, è il frutto del lavoro di un amico dello scrittore, Davide Lajolo: un saggio biografico nel quale sono messi in luce i travagli che accompagnarono Pavese, la crisi entro la quale portò avanti tutta la sua vita, e soprattutto vi è svelato il Vizio assurdo[5] (giustamente usato come titolo) che Pavese non abbandonerà mai, e cioè, il pensiero del suicidio, sempre presente nella travagliata mente del poeta come una vera e propria ombra dalla quale non è possibile scappare. 




[1] C. Pavese, Vita attraverso le lettere, cur. Lorenzo Mondo, Einaudi, Torino 1966.
[2] C. Pavese, Il mestiere di vivere, Einaudi, Torino 1952.
[3] Ibid.
[4] C. Pavese, Dialoghi con Leucò, Einaudi, Torino 1947.
[5] D. Lajolo, Il vizio assurdo. Storia di Cesare Pavese, Mondadori, Milano 1960.

giovedì 21 aprile 2011

Sonetto 116 di Shakespeare


Non sia mai ch'io ponga impedimenti 
all'unione di anime fedeli;
Amore non è Amore se muta quando scopre un mutamento 
o tende a svanire quando l'altro s'allontana.

Oh no! Amore è un faro sempre fisso 
che sovrasta la tempesta e non vacilla mai;
è la stella-guida di ogni sperduta barca,
il cui valore è sconosciuto, benché nota la distanza.

Amore non è soggetto al Tempo, pur se rosee labbra e gote
dovran cadere sotto la sua curva lama; 
Amore non muta in poche ore o settimane,

ma impavido resiste al giorno estremo del giudizio:
se questo è errore e mi sarà provato,
io non ho mai scritto, e nessuno ha mai amato.

martedì 19 aprile 2011

L'io

Gli affollamenti si diradano
e pian piano non rimane
che la cima dell’Appennino
con la sua cuspide in avorio

non c’era forse un io slegato
in quei Karamàzov, in quelle
visioni eteree
nel mezzo d’una guerra
psicologica e intenzionale?

Non eri tu, dichiara Karamàzov.
Non eri me, dichiara il Troiano.
Non camminasti con me,
afferma Enoch.

Non m’incontrasti,
sibila mio nonno.

Ero io quella calca,
era Me stesso il segugio 

lunedì 18 aprile 2011

La maschera

Non verrò solcando il nero mare
con navi ammainate, chiglie di pece.
Né sarò castigato da crudele
destino o dèi beffardi, ubriaco
di flutti. Nessuna pila di torba
attizzerà il ricordo di città
bruciate al vento, di padri in groppa.

Mi tocca star quieto nell’autobus
e guardare strisce serie di colline,
in silenzio fino allo stupore
del Gran Raccordo Anulare, preso
da uno smog che ha poco di venereo,
inghiottito dalle verdi marrane
e dal suo corso, ingrigito dal tedio.

E sempre invisibile, non muoverò
guerra contro alcuno, ma il male
che striscia sul manto della veccia,  
sarà tutto interno, un riflesso,
affine al ristagno nei miei scuri.
E sarò guerriero pio e devoto,
quasi che fossi nemico di me stesso.

Sprofonderò nella metropolitana,
in un Ade assurdo che gorgoglia
di gravosi impiegati in divisa,
con ventiquattrore in pelle che
celano l’istinto di stirpe regale.
Forse allora vedrò un mezzobusto
che somigli al ritratto imperiale.

E dopo aver vagato per pochi
secondi che parranno lunghi anni,
dopo aver combattuto tra fumi
di sterro, con soldati senza scudo
in fila per il biglietto col timbro,
o di là dal frutto conosciuto,
io così verrò alla tua giustizia.

E tu, donna, attrice di te stessa,
reciterai la parte che ti spetta.

giovedì 14 aprile 2011

Il filologo è un grande scienziato

Il filologo è un grande scienziato.
Si alza di buon’ora e subito si chiude nel suo laboratorio. Indossa il camice bianco e, armato di microfilms, guanti di lattice, laser, bisturi e garze prende a vivisezionare l’unico frammento superstite di Nonno di Panopoli, in tutte le 1638 copie esistenti. E’ da 49 anni che ci lavora, ma lui sa, sa che prima o poi riuscirà a debellarne le corruttele. E se anche non dovesse portare a termine la missione, ci penseranno i suoi adepti, unica consolazione in una vita di stenti.
Il filologo è un grande scienziato.
E’ sempre al passo coi tempi e si serve solo di strumenti di ultima generazione, nonché degli studi più aggiornati: le Derivationes di Osberno, il De compendiosa doctrina di Nonio, il De morte bovum di Endelechio. Se gli si chiede un parere sulla poetica di Nonno, molto professionalmente risponde: ‘Ci deve essere un equivoco: io sono uno scienziato’.
Il filologo è un grande scienziato.
Il suo percorso di studia humanitatis sfiora quasi l’onniscienza: Tecniche paleografiche della proto-scoliografia pre-bizantina, Biochimica pseudo-organica della pergamena antiochide, Statistica e Calcolo delle probabilità delle forme metriche prototipe, Stratigrafia dell’inchiostro medievale, Teorie antiche e moderne sulla correptio iambica. Le sue ricerche scientifiche coprono tutta la meglio classicità, da Pappo di Alessandria a Pomponio Mela,  passando per Giovenco, Marcellino, Modestino, Ignazio Figidulo, Teodette di Faselide, Egesia di Magnesia.
Il filologo è un grande scienziato.
Rigore ed abnegazione sono prerogative del suo mestiere. Se si imbatte in una corruttela in stadio avanzato si auto-flagella per giorni e non mangia né dorme finché non ha scoperto la cura. E se, pur avendo fatto tutto il possibile,  non riesce in alcun modo a salvare il verso in questione, non può che constatarne il decesso e porgli accanto due cruces desperationis, cosa indicibilmente frustrante per uno scienziato. E tuttavia la missione deve continuare e così, osservati 3 giorni di lutto, egli si fa coraggio e torna al lavoro per il bene dell’umanità, come tutti gli scienziati.
Il filologo è un grandissimo scienziato.
La notte si corica esausto accanto alla moglie immaginaria. Con sforzo immane dei suoi ultimi neuroni ancora funzionanti le racconta minuziosamente i progressi di quest’oggi: 2.300 codici visionati, 17.547 varianti esaminate, 64.913 studi confrontati, 798.824 corruttele individuate, 1 punto critico risolto. Un altro tassello nel progresso della civiltà umana. A dire il vero non si ricorda più perché sta facendo tutto questo, ma deve essere qualcosa di molto importante visto che ci lavora dalla laurea, dunque ne va proprio fiero. Anche la moglie è molto contenta.
Del resto, se la fortuna gli arriderà, potrà persino vantarsi, un giorno, di averci rimesso la vista.

martedì 12 aprile 2011

Letteratura in provetta

«Accogliamo con un caloroso applauso, gentili signori e gentilissime signore, il luminare professor Ulrich-Karl von van vin Wilamov-Lach-Spit-West-Moellendorff!», dichiarò l’autorevole Rettore dell’autorevole Università, presentando l’autorevole ospite dell’autorevole serata.
«Egli ci dirà la verità su tutto. Ora vi leggerò una breve sintesi del suo sterminato curriculum vitae. Ulrich fu un feto precoce. Già nella pancia della mamma scalciava in battere e in levare. A soli tre mesi conosceva a menadito le varianti metriche dei vagiti eolici. A due anni e mezzo riusciva a distinguere il lesbico dalle lesbiche, cosa che gli procurò non pochi traumi infantili. Alle medie mandava a quel paese gli amichetti prepotenti in dialetto dorico. Al liceo insegnava il latino al suo professore e lo bacchettava pure se sbagliava la lettura dei carmi di Tibullo. Laureatosi con centodieci su cento con dichiarazione di tripudium et gaudium, bacio accademico e pomiciata erudita, grazie ad una tesi dal titolo ‘Hapax legomenon nei peli pubici del podice di Nonno di Panopoli a fronte del tessuto pelvico di Ibico preconizzato in Corinna, Isso Melisso e in Oppiano di Anazarbo’, si autoproclamò Dottore in Filologia Classica perché nessuno osava sorbirsi quel malloppo di millequattrocentotre pagine. Dopo innumerevoli pubblicazioni sull’uso dell’accento circonflesso in Acacio da Cesarea e in Egesippo di Maciberna, sull’abuso della x in Dexicrate, Publio Xerennio Dexippo, Praxilla, Xanto Lidio e Xuto, sulle pratiche sadomaso di Teopompo di Colofone coadiuvato da Pompeo Macro e Massimo in Tiro, si chiuse quarant’anni in casa per studiare la presenza dell’elementum longum nella sizigia epirrematica dell’unico docmiaco puro in Eupoli anch’esso di Panopoli. Ma il suo capolavoro scientifico fu la dimostrazione che Euticlo Proclo, Pisandro di Laranda, Erea di Megarea e Flegone di Tralle non erano scioglilingua tardobizantini, ma personaggi storici eminenti. Nel solo anno corrente gli sono state conferite ben ottantaquattro lauree ad honorem: e siamo ancora ad aprile. Per cui, luminare, ci dica qualcosa della sua scienza! Ci illumini!».
«Non so, mi dia un tema, – rispose lo scienziato – so talmente tante cose che non riuscirei a decidere così, su due piedi catalettici!».
«Ci parli del nichilismo, ad esempio…», suggerì il Rettore.
«Ah, sì. E’ un errore di scrittura del latino medievale. I monaci leggevano nichil al posto di nihil. Pertanto si dovrebbe pronunziare nihilismo».
«Ebbene, questo è tutto quello che sa dire su di un tema così scottante?».
«E’ una domanda troppo generica, mi occorre qualcosa di più specialistico, ch’io possa analizzare e sezionare come un corpo».
«Allora ci dica, secondo lei, cos’è il Nulla? Perché dilania tanto l’animo umano?».
«Non saprei. Non mi sono mai posto la domanda».
«Come sarebbe a dire ‘non si è mai posto la domanda’? – chiese il Rettore esterrefatto – Il Nulla è il primo problema d’ogni uomo dagli Egizi fino ad oggi!».
«Di che nulla parla? Del nulla scientifico, la cosiddetta antimateria, o dell’astrazione neoromantica?».
«Ma quale astrazione neoromantica, – gridò un tale dal pubblico – il Rettore si riferisce a quel sentimento d’assurdo che coglie il cuore umano quando è inebriato dal non-senso!».
«Non lo conosco». Al che si levarono grida di stupore nell’Aula Magna.
«Ci parli allora di Dio…», asserì l’imbarazzato Rettore.
«La i di Dio è breve. Poiché ciò va contro le norme meccaniche della correptio iambica, Egli non esiste!».
«Ergo, il problema di Dio è in realtà un problema linguistico-prosodico?».
«Certamente!».
«Sicché, quando a sera io guardo le luci del paesaggio che si confondono negli alberi secolari e nel cielo e odo il vento vibrare la sua musica fin dentro l’anima, non è quel Dio nascosto che si manifesta e che mi lascia un graffio di dolcezza amara?».
«No, si sbaglia. Il suo ragionamento non è per nulla scientifico!».
La platea cominciò ad agitarsi seriamente. Uomini e donne, anche tra i più umili e illetterati, bramavano di conoscere la verità. Finché un uomo sui quaranta, con un cappellaccio logoro, s’alzò in piedi e disse con esasperato vigore:
«La poesia ci salverà, potrà mai salvarci senza un Dio che ci guida?».
«Dipende se è scritta in giambi efimnici od in tetrametri trocaici a minore con rinterzo anapestico ad effetto!», rispose il dotto scandendo ogni singola lettera.
«Le ho chiesto se ci salverà…», rimbeccò amaro l’uomo col cappellaccio.
«Cosa vuole che ne sappia io? – s’inquietò il luminare – Ho passato la vita a contare le sillabe, come avrei potuto occuparmi di queste cose?». Ma gli spettanti cominciarono, facendola in barba ad ogni etica accademica, a gridare con insistenza ‘Vogliamo la verità!’, senza che il Rettore avesse il polso per calmare le acque. Poi, il luminare s’alzo di scatto, raggelando la sala.
«Dopo anni di studio posso dirvi la verità. Ci sono sillabe brevi e sillabe lunghe, ma l’eccezioni sono molte, sicché è difficile poter stabilire qualcosa… Pur tuttavia io ho badato ad arrivare dove la scienza mi ha condotto…». Il Rettore invitò rapidamente il pubblico ad uscire, giacché lo spettacolo della verità era bell’e concluso. E la calca se la squagliò senza fare il benché minimo rumore, crucciata com’era. Soltanto una giovane ragazza bisbigliò qualcosa al suo fidanzato:
«E noi che credevamo ci parlasse di Omero e Virgilio…».

domenica 10 aprile 2011

Scene memorabili in Shakespeare (cap. III)

Canto di Ariel
ARIEL
A cinque tese sott'acqua tuo padre giace.
Già corallo son le sue ossa
Ed i suoi occhi perle.
Tutto ciò che di lui deve perire
Subisce una metamorfosi marina
In qualche cosa di ricco e di strano.
Ad ogni ora le ninfe del mare
Una campana fanno rintoccare.

Ritornello
Din-don!
ARIEL
Ecco, la sento: Din! Don!
FERDINANDO
La canzone ricorda mio padre annegato. No, non è cosa umana, né suono che possiede la terra.
Ora lo sento sopra di me.

PROSPERO
Spalanca il frangiato
Sipario dei tuoi occhi e dimmi
Cosa vedi laggiù.

MIRANDA
Che cos'è, uno spirito? Mio Dio, come si guarda intorno! Che splendida figura, padre. Ma è uno spirito.

PROSPERO
No, piccola. Mangia e dorme e ha gli stessi sensi che abbiamo noi, proprio gli stessi.
Il giovane che tu vedi è scampato al naufragio e se non fosse stato appena toccato dal dolore (cancro della bellezza) potresti dire che è un bell'uomo. Ha perso i suoi compagni e vaga in giro per ritrovarli.

MIRANDA
Io dico che è una cosa divina perché mai in natura ho visto nulla di più perfetto.

PROSPERO (a parte)
Tutto procede come l'animo mio suggerisce. Spirito, gentile spirito, due giorni ancora e ti libererò, per questo.

FERDINANDO
Tu sei certo la dea, che queste note accompagnano.
Ti prego, dimmi se quest'isola è la tua dimora e insegnami come posso viverci anch'io.
Ma la mia prima e ultima domanda, è: o meraviglia, sei tu fanciulla o no?

MIRANDA
Meraviglia no, signore, fanciulla sì, certamente.

FERDINANDO
La mia lingua! Cielo!
Sarei il primo tra coloro che parlano questa lingua se mi trovassi là dove è parlata.

PROSPERO
Come? Il primo? Cosa saresti se ti sentisse il Re di Napoli?

FERDINANDO
Quello che sono, un uomo come gli altri, e solo, che si stupisce di sentirti parlare di Napoli.
Il Re mi ascolta e proprio per questo io piango: Napoli sono io, che con questi occhi, mai da allora asciutti, ho visto il Re mio padre naufragare.

MIRANDA
Oh no! Per pietà!

FERDINANDO
Sì, in fede mia, con tutta la sua corte e, fra gli altri, il Duca di Milano col suo nobile figlio.

PROSPERO (a parte)
Il Duca di Milano e la sua ancor più nobile figlia potrebbero smentirti, se fosse il caso.
Si sono scambiati gli occhi al primo sguardo.
Mio delicato Ariel, sarai libero, per questo.
(A Ferdinando) Una parola, signore. Temo che ci sia un equivoco. Una parola.

MIRANDA
Perché mio padre parla in modo così scortese?
È il terzo uomo che vedo. Il primo per il quale sospiro. La pietà lo induca a farmi seguire il mio destino.

FERDINANDO
Se sei vergine, e se il tuo affetto non si posa altrove, ti farò Regina di Napoli.

PROSPERO
Calma, signore. Ancora una parola.
(A parte) Sono l'una dell'altro. Ma corrono un po' troppo e devo ostacolarli.
Una vittoria troppo facile toglie valore al premio.
(A Ferdinando) Ancora una parola. Ti ordino di ascoltarmi: tu qui usurpi il titolo che non hai e sei sbarcato su quest'isola da spia, per sottrarla a me, suo signore.

FERDINANDO
No, come è vero che sono un uomo.

MIRANDA
In un simile tempio non può albergare nulla di male!
E se lo spirito del male avesse una dimora così bella le creature del bene farebbero a gara per abitare con lui.

PROSPERO
Seguimi. E tu non parlare a sua difesa: è un traditore. Vieni. Ti legherò il collo e i piedi, berrai acqua di mare.
Il tuo cibo saranno molluschi d'acqua dolce, radici secche e i gusci dove si cullano le ghiande. Seguimi.

FERDINANDO
No. Lotterò contro questa violenza fino a che il mio nemico non si dimostrerà il più forte!
Estrae la spada ma un incantesimo lo immobilizza.

MIRANDA
Caro padre, attento a giudicarlo così sommariamente: è un cavaliere, e non ha paura.

PROSPERO
Dico! Il mio piede mi fa da tutore?
E tu, spia, rinfodera la spada! Fingi di colpire ma non osi. La sua coscienza è posseduta dalla colpa.
Abbassa la guardia. Con questa verga ti posso disarmare quando voglio e farti cadere l'arnese.

MIRANDA
Vi scongiuro, padre!

PROSPERO
Via di qui! Non aggrapparti alle mie vesti.

MIRANDA
Pietà, signore. Garantisco per lui.

PROSPERO
Silenzio! Un'altra parola e avrai la mia collera se non il mio odio. Ma come! Fai l'avvocato di un impostore? Basta!
Tu credi che non ci siano altre forme oltre la sua perché hai visto soltanto Caliban e lui: sciocca!
In confronto a tanti uomini lui è un Caliban e angeli gli altri.

MIRANDA
I miei sentimenti, allora, sono i più umili: non ambisco vedere un uomo più bello.

PROSPERO
Su, ubbidisci: i tuoi muscoli sono tornati all'infanzia e non hanno più forza.

FERDINANDO
È così. Il mio vigore, come in un sogno, è, tutto inceppato. Eppure la perdita di mio padre, la spossatezza che sento, il naufragio di tutti i miei amici, le minacce di quest'uomo che mi tiene prigioniero, sarebbero cose lievi se dalla mia prigione potessi, una volta al giorno, contemplare questa fanciulla: gli uomini liberi usino pure tutti gli angoli della terra, in una prigione come questa io ho abbastanza mondo.

PROSPERO
(a parte) Funziona.
(A Ferdinando) Avanti, tu!
(ad Ariel) Hai lavorato bene, mio finissimo Ariel! Seguimi. Ascolta ciò che devi ancora fare per me.

MIRANDA
Coraggio. Mio padre è migliore delle sue parole. Ciò che ha detto è inconsueto, in lui.

PROSPERO
Sarai libero come i venti di montagna: ma prima esegui i miei ordini esattamente.

ARIEL
Parola per parola.

PROSPERO
Avanti, seguimi! E tu non difenderlo.

Escono.

giovedì 7 aprile 2011

Capelli d’oro, capelli di cenere. La Shoah raccontata dai poeti


Sulamith è la regina delle donne bruciate nei forni. Margarete è ciò che Adorno non gradisce affatto in quanto dono raro della bellezza, la quale si compiace e si trastulla a fronte della perdita «perché si deve ballare». Eppure Celan, nella sua Fuga della morte, lirica per così dire ‘contrappuntistica’, le fa convivere quasi non fossero quella contraddizione intollerabile, quell’inno alla vita nonostante il delitto e l’irrazionalità che ‘genera mostri’. Tale è lo spirito del florilegio Farfalle di spine. Poesie sulla Shoah, a cura di Valeria M. M. Traversi, giovane ed acuta interprete della letteratura novecentesca. Questo originale ed elegante lavoro, dal quale è possibile trarre importanti spunti di riflessione, raccoglie in sezioni distinte voci, anonime o prestigiose, scagliatesi contro l’assurda barbarie dei campi di concentramento e contro il temibile silenzio da essi generato. Difatti, com’è chiarito nell’introduzione, proprio il silenzio «avrebbe significato un’ulteriore e definitiva cancellazione delle vittime dalla storia umana». L’arte diviene, dunque, uno strumento insostituibile di ‘rammemorazione’, di ricordo perenne, poiché dismette il suo accento tonante di sollazzo meramente estetico per acquistare il rombo di un’esigenza più alta, in quanto morale («riconoscere alla memoria un valore etico significa da un lato salvaguardare il ricordo delle migliaia di vite bruciate nei forni crematori, dall’altro restaurare il valore della coscienza mettendo ogni essere umano di fronte alle proprie responsabilità»). Secondo l’attenta e profonda analisi di Valeria Traversi, che ha conseguito il Dottorato di ricerca in Italianistica all’Università degli Studi di Bari nel 2003 ed è stata curatrice di altri due interessanti volumi sul tema della Shoah, I rumori stridenti della scrittura. Scrivere dopo Auschwitz e Per dire l’orrore: Primo Levi e Dante, editi rispettivamente nel 1999 e nel 2008, «l’arte, la poesia sono in grado di testimoniare oltre e più profondamente del documento», poiché si valgono d’una speranza ‘conquistata’, passata attraverso il crogiuolo del dubbio, e non pigramente ‘accettata’. I poeti sono coloro che additano, per l’umanità, le vie dell’esistenza e lo fanno a scapito della Storia che «arrotonda gli scheletri allo zero», secondo il celebre detto della poetessa polacca Wisława Szymborska. Nondimeno, scrivere una poesia dopo Auschwitz non è affatto un atto di barbarie, ma diviene un potente gesto di coraggio, di consapevolezza e di resistenza dell’umano, che altresì naufragherebbe nell’oblio di sé e delle proprie opere. Margarete, emblema della letteratura e dell’arte, allora, si mostra al fianco di Sulamith, la quale non è sola essenza al mondo. Sulamith e i suoi capelli di cenere. Margarete e i suoi d’oro.

lunedì 4 aprile 2011

Gli esilaranti aforismi di Woody Allen

Quel genio che è Woody Allen 


Ma davvero ti piace Wagner? - Certo, anche se ogni volta che lo sento mi viene voglia di invadere la Polonia!

Accanto a me c’era una bionda conturbante che aumentava e diminuiva sotto una camicetta nera con una provocazione sufficiente a indurre la licantropia in un boy-scout.

Che cos’è "bianco-nero-bianco-nero-bianco-nero-bianco-nero-bianco"? Una suora che ruzzola dagli scalini.

Dio è morto, Marx è morto e anche io non mi sento tanto bene.

È meglio amare o essere amati? Nessuno dei due se il vostro colesterolo è più di seicento.

Ero solito portare una pallottola nel taschino, all’altezza del cuore. Un giorno un tizio mi tirò addosso una Bibbia, ma la pallottola mi salvò la vita.

Ho letto la Bibbia recentemente, non male, peccato però che il personaggio principale sia poco credibile.

Ho smesso di fumare. Vivrò una settimana di più e in quella settimana pioverà a dirotto.

L’ultima volta che sono entrato in una donna è stato quando ho visitato la Statua della Libertà.

La bisessualità raddoppia immediatamente le tue chances al sabato sera.

Nixon era un bravo presidente, però quando usciva dalla Casa Bianca il servizio d’ordine contava l’argenteria.

Non credo in una vita ultraterrena; comunque porto sempre con me la biancheria di ricambio.

Non solo non c’è Dio, ma provate un pò a trovare un idraulico di domenica. . .

Se solo Dio volesse darmi un segno che esiste! Ad esempio, depositando una grossa somma di denaro sul mio conto in banca.

Sono ateo teologico esistenziale. Credo nell’intelligenza dell’universo, con l’eccezione di qualche cantone svizzero.

Voglio raccontarvi una storia straordinaria sulla contraccezione orale. Ho chiesto a una ragazza di dormire con me e lei ha risposto: "No. "

Vorrei essere il collant di Ursula Andress.


domenica 3 aprile 2011

A.M. Ripellino, "Tu durerai più a lungo del gelo"


Tu durerai più a lungo del gelo,
perchè sei una roccia, sebbene incrinata.
Tu sei una strada, qualcosa che cresce,
quanto più si allontana.
Tu sei più di sette ore compiute su un treno.
Tu non finirai a Falconara, ma nel mare immenso.
Tu sei uno zingaro, un ladro di fieno,
per molti istrione, per alcuni stella.
Sei della stirpe dei dèmoni e dei giocolieri.
Sei ancora verde, ancora una fiammella,
che innamora due attoniti occhi neri.

sabato 2 aprile 2011

Scene memorabili in Shakespeare (cap. II)

Il monologo di Amleto

Essere o non essere, questo è il problema.
Se sia più nobile sopportare
le percosse e le ingiurie di una sorte atroce,
oppure prendere le armi contro un mare di guai
e, combattendo, annientarli.
Morire, dormire.
Niente altro.
E dire che col sonno mettiamo fine
al dolore del cuore e ai mille colpi
che la natura della carne ha ereditato
È un epilogo da desiderarsi devotamente.
Morire, dormire.
Dormire, forse sognare: ah, c'é l'ostacolo,
perchè in quel sogno di morte
il pensiero dei sogni che possano venire,
quando ci saremo staccati dal tumulto della vita,
ci rende esistanti.
Altrimenti chi sopporterebbe le frustate e lo scherno del tempo
le ingiurie degli oppressori, le insolenze dei superbi,
le ferite dell'amore disprezzato,
le lungaggini della legge, l'arroganza dei burocrati
e i calci che i giusti e i mansueti
ricevono dagli indegni.
Qualora si potesse far stornare il conto con un semplice pugnale,
chi vorrebbe portare dei pesi
per gemere e sudare
sotto il carico di una vita logorante
se la paura di qualche cosa dopo la morte,
il paese inesplorato dal quale nessun viandante ritorna,
non frenasse la nostra volontà,
facendoci preferire i mali che sopportiamo
ad altri che non conosciamo?
Così la coscienza ci fa tutti vili
e così il colore innato della risolutezza,
lo si rovina con una squallida gettata di pensiero
e le imprese d'alto grado e il momento,
proprio per questo, cambiano il loro corso
e perdono persino il loro nome di azioni.