mercoledì 27 luglio 2011

Tibet e Occidente: ora tocca all’Europa

I paradossi del governo cinese e l’impegno concreto per il popolo tibetano: diritti e libertà

Era prevedibile, forse troppo prevedibile. In seguito all’incontro svoltosi sabato scorso presso la Map Room della Casa Bianca tra il Presidente Barack Obama e il Dalai Lama, da Pechino si è riversata una caterva di polemiche su un colloquio che, in sostanza, ha avuto al centro del dibattito una discussione sulla  protezione dei diritti umani nel mondo.
I patimenti e le privazioni delle libertà culturali, religiose e politiche cui il popolo tibetano è costretto a soggiacere da sessant’anni a questa parte non conoscono limiti di sorta. Del resto è innegabile che, dalla caduta dell’impero tibetano – avvenuta nel XI secolo – passando per le dominazioni mongole e cinesi tra il 1200 e il 1700, per arrivare quindi alla colonizzazione britannica di fine ’800, il Tibet abbia sempre dovuto confrontarsi con potenze straniere intenzionate ad annetterne i territori. L’unica differenza è che oggi giorno l’aggressore politico e militare rappresenta la prima potenza economica emergente del mondo, un gigante dai piedi d’argilla che mantiene una struttura sociale interna improntata sull’ambiguità politica e totalmente distolta dai principi basilari della democrazia. Un macabro trasalimento di comunismo nazionale, sostenuto da un’economia occidentalizzata e aperta ai mercati esteri. Il paradosso vuole proprio che nel 2007 il parlamento cinese, sotto la presidenza di Hu Jintao, ha votato una legge che consente l’affermazione della proprietà privata nel Paese; un insperato segnale di apertura al pluralismo? Macché. Lo stesso Presidente dell’Assemblea Nazionale del Popolo – Wu Banguo – ha rimarcato, alla luce delle rivolte nei Paesi arabi, che un pluralismo all’occidentale provocherebbe conseguenze disastrose dal punto di vista della stabilità nazionale: pertanto la democrazia è fuori discussione. E nonostante l’attuale Premier – Wen Jinbao – abbia recentemente manifestato l’intenzione di impegnarsi in una riforma istituzionale che riesca a fare fronte ai principali problemi del Paese, legati all’aumento dei prezzi degli immobili e degli alimenti, alla corruzione e all’inquinamento, sembra piuttosto difficile che la situazione possa cambiare e che, in particolare, il Partito Comunista intenda allentare la corda sul controllo dello Stato. La notizia delle polemiche odierne, provocate da un semplice colloquio tra il Dalai Lama e il Presidente degli Stati Uniti su una materia fondamentale come il rispetto dei diritti umani, ne è un chiaro esempio. Se si pensa che nemmeno il terribile Kublai Kahn (nipote di Gengis), durante la guida dell’Impero Cinese nel 1200, costrinse la popolazione tibetana alla sottomissione, incentivando anzi i dibattiti teologici tra taoisti e lamaisti e lasciando peraltro immutato il sistema di amministrazione del Paese conquistato, è proprio il caso di affermare che anche il passato votò contro all’attuale oppressione politica. E’ fatta risalire a quei tempi la controversia sino-tibetana sulla presunta “cinesità” del Tibet. Se si considera che la dinastia mongola Yuan, costituita dallo stesso Kublai Kahn, non aveva nessun tipo di legame con le successive discendenze imperiali Ming, è a rigor di logica  da avvalorare l’assunto che vede la contraddizione nel dominio cinese in Tibet: è come se l’India rivendicasse la supremazia nei confronti del Myanmar (o Birmania) perchè in passato appartenente all’India britannica. Ma l’evidente logicità di quest’argomentazione non trova riscontro nella realtà dei fatti: il governo tibetano è oggi costretto all’esilio nella città indiana di Dharamsala. Il neo-eletto presidente (o Kalon Tripa), che entrerà ufficialmente in carica da agosto, è il giurista quarantatreenne Lobsang Sangay: un primo ministro che, come egli stesso ha sottolineato, punterà tutto sull’indipendenza e che darà, pertanto, del filo da torcere a Pechino.
Di certo non gli mancheranno stimoli e motivazioni; dai resoconti dell’Associazione Italia-Tibet emergono dati spaventosi e raccapriccianti circa le cosenguenze dell’attuale occupazione comunista: dall’inizio del dominio coloniale cinese, difatti, circa un milione di tibetani sono morti a causa delle aggressioni militari; dal 1950 a tutt’oggi il 90% del patrimonio artistico e architettonico tibetano, inclusi circa seimila monumenti tra templi, monasteri e stupa, è stato distrutto; lo scarico dei rifiuti nucleari e la massiccia deforestazione attuati dal governo di Pechino hanno danneggiato in modo irrimediabile l’ambiente e l’ecosistema del Paese; lo sviluppo economico in atto in Tibet arreca benefici quasi esclusivamente ai coloni cinesi e non ai tibetani. E mentre prosegue la pratica della sterilizzazione e degli aborti forzati delle donne tibetane, la sistematica politica di discriminazione attuata dalle autorità cinesi ha emarginato la popolazione tibetana in tutti i settori, da quello scolastico a quello religioso e lavorativo. Di fronte a questi intollerabili crimini l’Europa deve assolutamente assumere una posizione più marcata. Già nel 2008, in occasione delle Olimpiadi in Cina, il vecchio continente si spaccò sulla proposta di boicottarne la cerimonia di apertura. I primi ministri di Francia, Polonia e Repubblica Ceca erano intenzionati a non partecipare agli ossequi inaugurativi delle manifestazioni sportive. Allora in discussione c’era anche il ritiro degli aiuti economici e militari cinesi al regime del Sudan, di cui la principale conseguenza è constatabile nel genocidio del Darfur. Va segnalato, peraltro, che il movimento dei liberali europei (l’ALDE) fu il principale promotore politico per il boicottaggio delle cerimonie. Il fatto che non si riuscì a trovare una linea comune e condivisa in materia esprime un indicatore sintomatico sull’attuale coesione politica dell’UE. La minaccia economica della superpotenza cinese e il rischio rappresentato dalla sottovalutazione dei tassi di cambio non possono però essere degli alibi; se perfino Obama ha deciso di adottare una linea aggressiva nei confronti della politica monetaria e commerciale cinese, nonostante il governo di Pechino custodisca il checkup del debito pubblico americano, occorre assolutamente che in Europa si congiungano dei segnali forti e influenti, ispirati al rispetto dei principi democratici e delle libertà politiche, culturali e religiose. L’Europa, che nel corso della storia ha conosciuto tutte le principali forme di dittatura e di autoritarismo (da quelle fasciste a quelle comuniste) e che oggi vuole ripartire da una base pluralista condivisa, deve necessariamente presentare al mondo un originale modello politico, eretto sul significato delle proprie radici e sulla valenza della propria storia. In merito alla questione tibetana, è opportuno ricordare l’esistenza di tre importanti risoluzioni delle Nazioni Unite, pronunciate rispettivamente nel 1959, nel 1961 e  nel 1965, in cui viene esplicitamente richiesta la cessazione di tutto ciò che priva il popolo tibetano dei suoi fondamentali diritti umani e delle libertà, incluso il diritto all’autodeterminazione. Non basta prenderne atto. Se all’interno della Cina una presa di coscienza collettiva è resa impossibile dalla costante censura dell’informazione, il resto del mondo deve attivarsi con la massima indignazione nei confronti del sistema anti-democratico su cui si regge il governo cinese. Come asseriva il saggista francese Charles Pèguy “la libertà è un sistema basato sul coraggio”: finché non si ha il coraggio di denunciare una mancanza di libertà, non ci si può definire realmente liberi.

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Silenzio

Con quante parole pellegrine,
con quanti affronti cantilenanti
e ricerche a sorgenti divine,
con pastiche di già detto e di fiati
malfermi, di pianti sinceri – lo so –
mi dici che qualcosa ha da essere detto.

giovedì 21 luglio 2011

La voce della spiaggia


Le grida del bambino
che gioca sulla battima s’involano
verso il mio orecchio assorto:
dietro muove lenta
tra gli ombrelloni
la voce rauca e mesta di una vecchia;
ma è al suono del vento, all’onda
spumeggiante 
e al suo scroscio
che io porgo ascolto –
mi godo ogni verso.

Sono un tipo infingardo, un po’ fiacco:
non amo lo sforzo,
né gli schiamazzi. Sto all’ombra,
incurante di una pelle di bronzo,
perché dei raggi infuocati del giorno
non sopporto l’affronto;
ma mi piace ascoltare il suono
che nasce tra il bailamme. 

Così anche il Verso nasce
incurante del rumore
che gli è attorno.
Sorge impetuoso in un voilà
in mezzo al caos di parole 
consumate, 
per dar voce a un incessante 
bisogno di musica –
di un palpito di vita,
di un urrà.

mercoledì 20 luglio 2011

14 Agosto 2010.



Si può desiderare di partire, di andarsene lontano, per tante ragioni e tra le più diverse e lontane tra loro. Si può voler scappare da qualcuno, qualcosa; si può essere stanchi e cercare risanamento altrove, in luoghi nuovi e mai visti nel cui mistero proiettare sogni e desideri senza alcuna regola o ragione; si può anche partire per il solo motivo di poter poi, alla fine del viaggio, ritornare; si può inoltre avere desiderio di partire per sfuggire ad una fiacchezza che va oltre il luogo fisico, ad un senso di inattività feroce che all’esterno di se stessi non si svela, che si sente provenire dalle viscere, dal passato dell’essenza, dal fondo del buio di una mente. Ma come fuggire da se stessi? L’intelligenza coglie questo paradosso, ma la fiducia nel viaggio non si cancella: si ha una cieca fiducia nel fallimento che si vede ormai prossimo. Ma le gambe fremono, hanno desiderio di partire.
Quando l’occasione si presenta, come un sasso gettato nello stagno intorpidito rompe la superficie di alghe mostrando all’acqua uno strappo di cielo, la mente intorpidita ritrova nell’immaginare posti non veduti nuova forza, nuova energia. Non sa a che cosa vada incontro eppure freme, appunto per questo motivo freme. La vita, allora, cambia la sua forma come l’acqua scossa dal sasso e la mente congettura che essa non si riduca ai soliti rituali quotidiani e alle fiacche e dorate abitudini dei giorni.
La meta in fondo non conta. Conta l’idea che si ha di essa: le illusioni che si hanno, le conoscenze superficiali. Ogni meta è un paradiso ed ogni arrivo una sconfitta, una delusione.
La mia meta è la Francia, il mio sasso con la erre uvulare. Sono speranzoso, quasi mi sento fremere. Non come da bambino, ma come non sentivo più da tempo. Stasera non dovrò tormentarmi nel dilemma se uscire di casa o meno, se affrontare da solo la strada piena di persone senza importanza e senza nome per raggiungere altre persone senza importanza ma a me note per strozzarmi con loro a suon di vino il fegato, oppure se rinchiudermi nella mia stanza, solo, a maledire ogni scricchiolio ed ogni rumore avvolto nella inquietudine che inevitabilmente coglie l’uomo quando è solo e chiuso in una stanza.

… Tutta l’infelicità umana deriva da una sola causa, quella cioè di non saper restarsene quieti in una stanza. (Pascal, Pensieri.)

Stasera si respira aria diversa, aria che domani non lo sarà più, puzzerà di nuovo. Tuttavia negli ultimi anni ho imparato a godermi questi piccoli istanti di ebbrezza, di insensata allegria che, a rifletterci bene, visti dalla prospettiva del ricordo non apparirebbero, di un solo capello, più brevi di un’intera vita.

venerdì 15 luglio 2011

Poche ore prima

Sto qui. Punto. Vabbè, allora sto lì. Niente. Sicché mi dovrei sedere nell’altra stanza per attendere. Vado, eh? D’accordo, dunque. Vado. Andato. Fatto. Ora sto qui. Prima ero lì che era il qui. Poi sono andato lì che era il lì. Ora sono qui che era l’altra stanza. Ebbene? Nulla di risolto. Anche Beckett faceva così. Però poi è morto.
Io, Carlo Michelstëdter, intendo fare ben altro. Ricapitoliamo. Ora sono qui, quel qui che era l’altra stanza. In casa non c’è alcuno. Ciondolo bel bello. Mi muovo ma nessuno comprende perché nessuno mi vede. E anche se vedessero? Beh, l’Universo se ne farebbe una ragione, anzi una ratio (per essere saccentemente precisi). E poi morrà.
Comunque sia, prenderò la mia grossa e comoda rivoltella e mi – spang – sparerò. Ah, Beckett! Coi tuoi drammi noiosi! Io farò allegramente diversamente. Però poi morirò.
Sto qui. Mi alzo. Vado lì. Niente. Altra stanza, altro mare. Vado. Fatto. Andato. Seduto. Cresciuto. Pasciuto. Alzato. Bagnato. Lavato. Mangiato. Bevuto. Donne a gogò. Andate. Fatte. Strafatte. Io ciondolo per casa. La vita è un eterno star qui o andar lì. Però poi morire.
Alt. Fermi un po’. Facciamo ordine che c’è un tal caos. Ora farò qualcosa. Mi siedo sulla scrivania. Prendo il pennacchio che annacquo nel calamaio. E scrivo. Sto scrivendo. Scrivo, eh? Giuro che scrivo. Continuo a scrivere. ‘Trallallero-trallallà che bello scrivere a questa età’. Ah, fiumi di scritto. Ottima calligrafia poi. Diamine. Scrivo. Rinfranca lo spirito. ‘Fiu-fì fìfì, fiu-fì fì-fì che bello scrivere e star qui’. Scrivo. Che balle scrivere, però. Balle di fieno secche e dure. Fino a morirne.
Alzato. Guardato il calamaio. Guardata la mia mano di cinque dita. Cinque per la precisione. Guardato l’insieme. Avvertita la calura. Unica soluzione trovata: spang-spang! Punto. A capo, lettera maiuscola. cammino. Oh, c’è il camino. Nero. Grigio. Non fuma da secoli, per hoc. Altri pensieri che distolgono dal chiodo fisso. Cioè: sto qui, di fronte al camino. Prima stavo lì che era il lì della sedia a scrivere. Prima ancora ero lì che era il lì dell’altra stanza. Ancor prima ero lì che era il lì. E ulteriormente prima ero lì che era il qui. Una cosa è certa. Ci sono più lì che qui. Io sono vari posti che non ci sono più. Sono sempre qui, ma sono nei lì che saranno. Il mio qui è, intimamente, un lì. Un lì che poi morrà.

giovedì 14 luglio 2011

La cosa più ingiusta della vita è il modo in cui finisce

La cosa più ingiusta della vita è il modo in cui finisce.
Voglio dire, la vita è dura e impiega la maggior parte del nostro tempo... Cosa ottieni alla fine? La morte! Che significa! Che cos'è la morte? Una specie di bonus per aver vissuto? Credo che il ciclo vitale dovrebbe essere del tutto rovesciato. Bisognerebbe iniziare morendo, cosi ci si leva subito il pensiero. Poi in uno ospizio dal quale si viene buttati fuori perchè troppo giovani. Ti danno una gratifica e quindi cominci a lavorare a quarant'anni fino a che sarai sufficientemente giovane per goderti la pensione. Seguono, feste,alcool,erba ed il liceo. Finalmente cominciano le elementari, diventi bambino,giochi e non hai responsabilità, diventi un neonato, ritorni nel ventre di tua madre, passi i tuoi ultimi nove mesi galleggiando e finisce il tutto con un bell'orgasmo!

mercoledì 13 luglio 2011

Dissolto in una nebbia che sa amara

Dissolto in una nebbia che sa amara
con di sorrisi il retrogusto,
e lontani dagli occhi li vedo capovolti
il bar è chiuso, altrove la fanfara.
Che lunga e breve sera e i ponti
sotto le bombe. Un cane annusa
fra le macerie e canta la luna
che non si vede. Tu, Io, accusami
d’esser stato qui e non esserci stato,
della già tremenda pena
di tornare a casa spoglio d’appiglio
reggendomi sui piedi appena.

martedì 12 luglio 2011

Aberdeen

Durante le rievocazioni
la gente cammina, cammina
il granito grigio ferisce i pruni
Fergus e Ferdiad danzano
alla luce crocchiante del focolare

ad onta di sé la paritaria prende
la forma del caprifoglio
Fergus va marciando, marciando
le armi son conficcate
nelle balze i cerbiatti
si abbeverano

le esplosioni di mica
rischiarano, la giornata è
d’incanto
Fergus cammina, cammina
al danzare della gente
il ristagno dell’ambra
tremola al nostro Aberdeen

lunedì 11 luglio 2011

Le parole insorgono

Fergus guida la rivolta tremenda.
Aberdeen e Nebraska, avviluppate
al raro suono di tromba,
dànno seguito alla vita strozzata.

L’insurrezione rimbomba
per ogni pagina sciatta,
sicché la confederazione
dei fonemi uniti,
delegata dalla lingua,
mi chiede il riscatto in danaro
per i nati-morti
e le confische in terra
alfabetica,
nei corti ristagni del Golfo.

V’è un grande odore di zolfo
e di crogiuolo acre ma battagliero.
Con corazze mezzo estinte
le parole, a fianco corto,

dicono: Non sei un destino
per noi. Gli spari della lingua
precedono il tuo corso
da lustri.
Sei solo un otre avvinazzato,
un pianto,
che gode d’un rimando
accennato.
Di sangue nostro
composto è il tuo canto.

domenica 10 luglio 2011

Nichilista?

Nichilista? Se me lo chiedi lo sono,
forse un po’ – mi mancano le parole
e forse un po’ ci credo a ciò che vedo
e no. Non guardo le stelle, scusami,
ma nei tuoi occhi son più belle.
Sì, son parole usate, già sentite
pura retorica, ma dalla mia bocca,
sai, non sono mai uscite.
Lo so che una tua autentica risata
non è che incresparsi di carne malata,
che un abbraccio mio un grido
straziato di solitudine e noia.
In fondo sono un uomo, ci sono,
un quid, non proprio sano;
ma lo sento: lo stomaco si torce
e il ventre è teso: allunga la mano!
Ho letto Nietzsche – la croce
mi ricorda quel tuo corpo troppo umano. 

venerdì 8 luglio 2011

Prolungare l'inutile attesa


Prolungare l’inutile attesa
per poter ritardare la scelta,
progettarsi comodamente
nel crogiuolo dell’incertezza.

Ma che albagia, che vezzo arlecchino
trovare scianto in tanta gazzarra!
Sono un poetucolo, uno scribacchino:
spicco in ogni carnevalata.

Gettare l’ipocrita maschera
salendo ansanti sul palco:
vibrare del fremito ignoto
di un'ebbrezza senz’alcool. 

La luce per le scale

La luce per le scale sfrigola
                                 senza motivo.
Lampadine sostituite. Elettricità che gorgoglia
lungo filamenti saldi.
Scivolano al comando d’un dito
i bianchi bottoni dell’accensione.
Ma la luce per le scale sfrigola
senza apparente tensione.

Quando di sera torno a casa,
dopo la dura giornata,
vorrei vedere lucidamente la salita.
Invece devo
scrutare gli scalini fluttuanti
col tenue neon del cellulare.
E l’essere il vecchio Diogene, cieco di ricchezza
al battito d’un bagliore, potrebbe non bastare.

Al baleno dell’inciampo
                                     luce che riappare –
la polvere pigramente m’ingolfa, i lumi
ipostasi immobili nel buio. Poi scompare.

Per quale ragione combatto a spada tratta
nel nome d’un brandello di chiaroveggenza?
Perché l’illuminazione non funziona più?

La luce per le scale sfrigola
                                 senza motivo.

Quella luce sei tu.

mercoledì 6 luglio 2011

"Il destino si diverte"

Ho letto il tuo nome inciso
nei pannelli della metro.
M’è passato il tuo volto per la mente,
mentre, guardando oltre il vetro,
prima della fermata, i neon
scorrevano lentamente.
Pensavo a come sarebbe facile incontrarsi
o non incontrarsi
per l’inerzia d’un secondo,
nel tempo della frenata che stride,
per colpa di gente che si frappone
malamente e che divide.

Potresti essere nel treno già partito
o nel mio stesso vagone;
nella direzione opposta, nell’altro
serpentone che affianca muri in disarmo.
Potresti essere a due metri da me,
ma nascosta dalla coltre del dio infero
che ti confonde
con altre anime,
perché ti vuole per sé.
Potrei avere un abbaglio
e seguire una tua imago,
forgiata ad arte per depistarmi,
in modo da svagare divinità annoiate
con una guerra insensata.
Potresti avermi visto senza dir nulla:
e io potrei non averti riconosciuta.
Poiché non si riconosce
ciò che troppo presto si perde.

Forse così il destino si diverte.

sabato 2 luglio 2011

Il caso 'Strauss-Kahn': l’opinione pubblica è troppo importante per non essere salvaguardata

Dal Corriere della Sera dell’1/7:
Dominique Strauss Kahn, torna libero. La procura di New York ha accettato di rilasciare l’ex direttore del Fondo monetario internazionale, dopo i dubbi circolati sull’autenticità delle accuse rivolte all’economista francese dalla cameriera del Sofitel di New York Ofelia. Gli inquirenti, dopo il presunto episodio di violenza all’Hotel Sofitel, hanno passato al setaccio il passato e il comportamento della donna. Tenendo sotto controllo il suo telefono hanno intercettato un colloquio tra Ofelia e un detenuto avvenuto alla vigilia di una importante deposizione. I due avrebbero discusso dei possibili vantaggi nel denunciare l’ex direttore del Fondo monetario Strauss-Kahn. Lo stesso uomo, legato a traffici di droga, a partire dal 2009, avrebbe fatto insieme ad altri dei versamenti in favore della donna per un totale di 100 mila dollari. Soldi sparpagliati tra conti in Arizona, Georgia, New York e Pennsylvania. C’è il sospetto che si tratti di un’operazione di riciclaggio di denaro. Altra scoperta: l’accusatrice di Strauss-Kahn ha sempre sostenuto di aver un solo telefono ma la polizia ha accertato che pagava ogni mese bollette per centinaia di dollari a cinque differenti compagnie.
Un antico proverbio degli indiani d’America recitava così: “Prima di giudicare un uomocammina per tre lune nelle sue scarpe“. Naturalmente questa notizia non cambierà il verdetto pronunciato dal tribunale mediatico. Chi è giudice di questo “organo giudiziario”? L’opinione pubblica, naturalmente. Un’opinione pubblica sempre più superficiale, approssimativa e mossa dall’istinto più che dalla ragione. E il caso di Strauss Khan non rappresenta una circostanza isolata dal resto degli eventi; in Italia, da Cogne a Garlasco passando per Avetrana, negli ultimi dieci anni si è evoluta in progressione la peggiore ambiguità della comunicazione digitale. Non sto ora a citare tutti i programmi televisivi che continuano a trasmettere puntate sull’omicidio Sarah Scazzi o sul delitto di Cogne; le programmazioni rispondono a “imprescindibili” logiche di target comunicativo e commerciale (in poche parole, il caso che avvince e coinvolge maggiormente merita di essere mandato in onda), in barba agli innumerevoli episodi di omicidi che avvengono quotidianamente. Piuttosto, desidererei soffermarmi ad analizzare la disinformazione onnicomprensiva e incondizionata che contrassegna l’opinione pubblica contemporanea. Premettendo che il giudizio della collettività è quanto mai fondamentale per il mantenimento di una struttura politica e sociale democratica, non si può comunque posporre e sottovalutare un fattore rilevante come la coscienziosità del pubblico giudizio, un fondamento universale per la qualità dell’informazione ma non solo. I “nuovi villaggi globali e virtuali” possono oggi essere valutati sulla base di due deduzioni antitetiche; da una parte, difatti, non si può negare che i vari social network preservino e garantiscano il pluralismo informativo: la libertà d’espressione è indubbiamente tutelata, non essendoci particolari veti o censure. Per converso, un senso di libertà non responsablizzato può portare alla complessiva opacizzazione dell’opinione pubblica: ed è così che i fori ideali per il dibattito costruttivo si trasformano in spianate per un giustizialismo mediatico, sterile e angosciante. Ricordo ancora quando, a poche ore dall’omicidio di Sarah Scazzi, su Facebook venivano pubblicati i primi gruppi stipati di odio e livore nei confronti di Michele Misseri (definito come un orco, un figlio di puttana, un animale da abbattere senza pietà) nei quali aderivano e “diventavano fans”migliaia di contatti. Che siano state pagine di stampo goliardico o meno, la sostanza non cambia: Misseri era l’assassino, era già stato processato dalle Corti virtuali. Lo stesso è avvenuto con Strauss Khan: in questo caso la vicenda riguardava una “presunta” violenza sessuale, denunciata per altro da una cameriera di discutibile rettitudine, che nel giro di pochi minuti, grazie al tempestivo sistema di multimedialità delle notizie, è stata comprovata e convalidata dai tribunali mediatici. La sentenza immaginaria, per quanto fosse generica e astratta, è stata addirittura corroborata dai movimenti femministi che non hanno perso l’occasione per additare DSK come uno sporco maniaco. Già, peccato che il processo per stupro (quello vero, che inizierà l’8 settembre) non è ancora cominciato; intanto sull’ex direttore del Fondo Monetario Internazionale si sono riversate un’infinità di accuse e denigrazioni. Ora, dalle udienze preliminari, emerge addirittura l’ipotesi del complotto; per quanto possa apparire autentica o fallace, non intendo assolutamente asserire che Strauss Kahn sia innocente e sia l’antesisgnano dei morigerati. Ribadisco piuttosto che, con ovvia certezza, permarranno lo stigma e il discredito che gli sono stato confenzionati e marchiati a pelle dai tribunali d’accusa dell’opinione pubblica, sempre più amorfa, superficiale e disinformata. Una vera e propria tirannia della maggioranza, in cui le convinzioni più imprecise, vaghe e indefinibili diventano realtà solo grazie ad una condivisione su Facebook. Ed è così che Avetrana diventa “meta del turismo dell’orrore”; ed è così Strauss Kahn viene fatto oggetto di derisione e disgusto generale, con tanto di canzonette ironiche e declassamento professionale. Che si tratti, poi, di un complotto o meno, l’unica certezza è che l’opinione pubblica va salvaguardata dalla speculazione di massa. Occorre tutelare e pungolare la “qualità” e l’autenticità della libertà d’espressione dell’individuo, affinché non diventi strumento asettico della massa. Questa è la realtà del processo mediatico: non educa alla legalità, né sensibilizza le coscienze soggettive nei confronti della violenza; fa sentire parte di un tutto quando in realtà non si è parte di niente; non incentiva l’approfondimento dell’analisi soggettiva e istiga all’irriflessione di giudizio, favorendo quindi la mediocrità dell’opinione pubblica. Il processo televisivo risponde ad una logica meramente commerciale e speculativa, il processo digitale è fine a se stesso: in ogni caso il risultato si riflette pienamente nella superficialità e nella piattezza della società. Concludo allacciandomi ad un famoso aforisma di Oscar Wilde, “la società si avvale del diritto di infliggere terribili punizioni all’individuo, ma ha anche il vizio supremo della superficialità e non riesce a comprendere ciò che ha fatto”. Lasciamo che siano i tribunali (quelli fatti di edifici, giudici e udienze) a giudicare.