sabato 25 febbraio 2012

Madrigali Politici

Resistenza della poesia

Non credere al mio ‘vero’ poetico:
non rispecchia mai la cosa fatta
non sono un monaco medievale né un templare

il mio hic è sempre un ille che non verrà
vivo nell’assenza e nell’intemperanza
sento nel femmineo liberato e non adusato
                                                        calma polare

in questo credo, la légèreté de la Politique
in questo decisivo che chiamo ‘resistenza’

Sweeney re-redivivus

La mia è una poesia cum objecto. il dub-
bio vien pensando a cos’era la poesia
nulla a che vedere con questa stolta saccenza

eppure, l’oggetto c’è; un po’ vacillante
non sempre presente mezzo dormiente
ma che sa ancora rianimarsi dalla demenza

basta uno Sweeney o un pegno grigio-bianco
                                                        di cristallo
l’oggetto c’è. E credilo sei tu

Scanso degli equivoci

Il mio vessillo è vergine. Non sgarrai l’ad-
dio adolescenziale con lo stile di Guevara
né rasai il cranio per finire sui giornali
                                                 a Timbuctù

tuttora quel che dico è senza idioma e per dove
vada non svolto a destra men che meno a sinistra
ma seguo la sola retta che non è il centro – né giù

né su. E se uso il latino, non per questo il saluto
                                                         sarà romano
se il mio vessillo è vergine è perché imiti la Virgo

giovedì 23 febbraio 2012

'Passato' di Vincenzo Cardarelli

I ricordi, queste ombre troppo lunghe
del nostro breve corpo,
questo strascico di morte
che noi lasciamo vivendo
i lugubri e durevoli ricordi,
eccoli già apparire:
melanconici e muti
fantasmi agitati da un vento funebre.
E tu non sei più che un ricordo.
Sei trapassata nella mia memoria.
Ora sì, posso dire che
che m'appartieni
e qualche cosa fra di noi è accaduto
irrevocabilmente.
Tutto finì, così rapito!
Precipitoso e lieve
il tempo ci raggiunse.
Di fuggevoli istanti ordì una storia
ben chiusa e triste.
Dovevamo saperlo che l'amore
brucia la vita e fa volare il tempo.

domenica 19 febbraio 2012

Dino Campana - Dualismo (lettera aperta a Manuelita Etchegarray)

Voi adorabile creola dagli occhi neri e scintillanti come metallo in fusione, voi figlia generosa della prateria nutrita di aria vergine voi tornate ad apparirmi col ricordo lontano: anima dell’oasi dove la mia vita ritrovò un istante il contatto colle forze del cosmo.
Io vi rivedo Manuelita, il piccolo viso armato dell’ala battagliera del vostro cappello, la piuma di struzzo avvolta e ondulante eroicamente, i vostri piccoli passi pieni di slancio contenuto sopra il terreno delle promesse eroiche!
Tutta mi siete presente esile e nervosa. La cipria sparsa come neve sul vostro viso consunto da un fuoco interno, le vostre vesti di rosa che proclamavano la vostra verginità come un’aurora piena di promesse!
E ancora il magnetismo di quando voi chinaste il capo, voi fiore meraviglioso di una razza eroica, mi attira non ostante il tempo ancora verso di voi!
Eppure Manuelita sappiatelo se lo potete: io non pensavo, non pensavo a voi: io mai non ho pensato a voi.
Di notte nella piazza deserta, quando nuvole vaghe correvano verso strane costellazioni, alla triste luce elettrica io sentivo la mia infinita solitudine.
La prateria si alzava come un mare argentato agli sfondi, e rigetti di quel mare, miseri, uomini feroci, uomini ignoti chiusi nel loro cupo volere, storie sanguinose subito dimenticate che rivivevano improvvisamente nella notte, tessevano attorno a me la storia della città giovine e feroce, conquistatrice implacabile, ardente di un’acre febbre di denaro e di gioie immediate.
Io vi perdevo allora Manuelita, perdonate, tra la turba delle signorine elastiche dal viso molle inconsciamente feroce, violentemente eccitante tra le due bande di capelli lisci nell’immobilità delle dee della razza.
Il silenzio era scandito dal trotto monotono di una pattuglia: e allora il mio anelito infrenabile andava lontano da voi, verso le calme oasi della sensibilità della vecchia Europa e mi si stringeva con violenza il cuore.
Entravo, ricordo, allora nella biblioteca: io che non potevo Manuelita io che non sapevo pensare a voi.
Le lampade elettriche oscillavano lentamente.
Su da le pagine risuscitava un mondo defunto, sorgevano immagini antiche che oscillavano lentamente coll’ombra del paralume e sovra il mio capo gravava un cielo misterioso, gravido di forme vaghe, rotto a tratti da gemiti di melodramma: larve che si scioglievano mute per rinascere a vita inestinguibile nel silenzio pieno delle profondità meravigliose del destino.
Dei ricordi perduti, delle immagini si componevano già morte mentre era più profondo il silenzio.
Rivedo ancora Parigi, Place d’Italie, le baracche, i carrozzoni, i magri cavalieri dell’irreale, dal viso essicato, dagli occhi perforanti di nostalgie feroci, tutta la grande piazza ardente di un concerto infernale stridente e irritante.
Le bambine dei Bohemiens, i capelli sciolti, gli occhi arditi e profondi congelati in un languore ambiguo amaro attorno dello stagno liscio e deserto.
E in fine Lei, dimentica, lontana, l’amore, il suo viso di zingara nell’onda dei suoni e delle luci che si colora di un incanto irreale: e noi in silenzio attorno allo stagno pieno di chiarori rossastri: e noi ancora stanchi del sogno vagabondare a caso per quartieri ignoti fino a stenderci stanchi sul letto di una taverna lontana tra il soffio caldo del vizio noi là nell’incertezza e nel rimpianto colorando la nostra voluttà di riflessi irreali!

. . . . . . . . . . . . . . . . ....................................

E così lontane da voi passavano quelle ore di sogno, ore di profondità mistiche e sensuali che scioglievano in tenerezze i grumi più acri del dolore, ore di felicità completa che aboliva il tempo e il mondo intero, lungo sorso alle sorgenti dell’Oblio!
E vi rivedevo Manuelita poi: che vigilavate pallida e lontana: voi anima semplice chiusa nelle vostre semplici armi.

So Manuelita: voi cercavate la grande rivale. So: la cercavate nei miei occhi stanchi che mai non vi appresero nulla.
Ma ora se lo potete sappiate: io dovevo restare fedele al mio destino: era un’anima
inquieta quella di cui mi ricordavo sempre quando uscivo a sedermi sulle panchine della piazza deserta sotto le nubi in corsa.
Essa era per cui solo il sogno mi era dolce.
Essa era per cui io dimenticavo il vostro piccolo corpo convulso nella stretta del guanciale, il vostro piccolo corpo pericoloso tutto adorabile di snellezza e  di forza.
E pure vi giuro Manuelita io vi amavo e vi amo e vi amerò sempre di più di qualunque altra donna....dei due mondi.

martedì 14 febbraio 2012

Il corridoio (una favola) 3, 4, epilogo

III

Finalmente una porta. Tirai un sospiro di sollievo e pensai:” finalmente l’uscita!”. Ma quando la aprì vidi un altro ufficio, identico al primo, con un uomo alla scrivania. Prese anche lui un fascicolo, lo sfogliò. Io irritato non attesi che avesse finito e gridai:« sono ore che cammino, non vedo la fine di questo maledetto corridoio, mi potrebbe dire come uscire da qui?» Lui mi guardò come si guarda un folle, e mentre continuava a fissarmi disse: « in fondo al corridoio». Non riuscendo a contenere il mio disagio, nell’udire quelle parole mi voltai di scatto e aprì la porta con violenza. Mentre uscivo sentì quell’uomo che mi gridava dietro: «lei è arrivato qui troppo presto. Non corra così, lo dico per il suo bene». Non lo ascoltai e mi precipitai di corsa verso la fine di quel corridoio che ancora non si intravedeva nemmeno in lontananza.
Mentre correvo, quasi senza più ragionare, vidi, sempre sulla parete di sinistra, una porta, e questa era aperta. Stremato dalla corsa approfittai di quella per fermarmi e vi guardai. Vidi dei ragazzi, sembravano allegri: sopra un grosso tavolo una lunga fila di bicchieri e delle bottiglie di vino, sembrava stessero festeggiando qualcosa. In mezzo a quell’allegro gruppetto vidi una ragazza bellissima, la guardai a lungo; quando si accorse che la stavo guardando mi sorrise e mi fece segno di entrare.  Ci pensai un attimo, ma ricordai d’improvviso il tempo e ripresi la corsa, sperando di giungere presto alla fine del corridoio.
Avevo ormai perduto il senso del tempo: potevo essere lì da un minuto come da una vita intera.

IV

Sentì all’altezza delle ginocchia una grande stanchezza, quasi non riuscivo più a reggermi in piedi; la fatica sulle spalle e desiderai di fermarmi e riposare, quando finalmente una felice visione mi ridestò le forze. Vidi una porta sulla parete alla mia sinistra, vi entrai e rimasi profondamente deluso quando vidi che anche questa stanza era un ufficio, identico agli altri, con l’unica differenza che questa volta alla scrivania non c’era nessuno; soltanto un fascicolo appoggiato sul piano, identico a quelli che negli altri uffici gli impiegati avevano sfogliato di fronte a me. Incuriosito mi avvicinai a questo e lo lessi. Vidi che vi era scritto il mio nome in grandi lettere maiuscole con affianco due date: una era il giorno esatto in cui entrai nel corridoio, l’altra distava settant’anni dalla prima. Mi chiesi cosa volessero dire quelle due date affianco al mio nome, e come facessero in quel posto a conoscermi. Un’ipotesi terribile mi balenò in mente: non poteva essere, era troppo assurda come possibilità. Mi guardai le mani ed erano quelle di un vecchio. Capì in quel momento di aver raggiunto quella tanto agognata uscita, ma non si presentava con l’aspetto di una porta, come lo erano state  tutte le altre tappe della mia corsa: era un sonno, un riposo, lungo quel corridoio la cui fine non si raggiunge.

EPILOGO

Non saprei dire se giusto o sbagliato sia dare una morale ad un sogno, o ad un racconto. La mia storia potrà essere letta liberamente; non senza un pulviscolo, spero, di piacere. Soltanto una cosa ci tengo a specificare, e cioè che il giorno seguente ai fatti narrati, quando mi alzai, decisi di non prendere la porta semiaperta, di non entrarci ché altrimenti non avrei potuto raccontare nulla.

domenica 12 febbraio 2012

Fiori, di Wendy Cope

Certi uomini non ci penserebbero.
Tu invece sì. Tu spesso mi dicevi
che eri stato lì lì per comprarmi dei fiori
ma qualcosa era andato storto poi.

Il negozio era chiuso. O un dubbio avevi,
quel genere di dubbi che si affacciano
alla testa di gente come noi.
Ch'io gradissi i tuoi fiori dubitavi.

Sorridere m'hai fatto, e t'ho abbracciato.
Sorrido ancora adesso. E sappi che
quei fiori, caro, che non mi hai comprato
non sono ancora appassiti per me.

Il corridoio (una favola) 2

II

Decisi così di avanzare, forse esisteva un’uscita; mi ricordai una favola già letta che diceva: ma il vento dell’uomo soffia soltanto in una direzione. Decisi così di avanzare e aperta la porta vidi stendersi di fronte a me un lungo corridoio, sulla parete sinistra un’altra porta: l’aprii. Vidi una specie di ufficio ed una donna alla scrivania, vestita di bianco, tutta indaffarata a manovrare pile e pile di fogli stampati. Appena mi vide aprì un cassetto e ne trasse un fascicolo che osservò scrupolosamente. Non sapevo se parlare o no, sembrava così presa dalla lettura che mi parve scortese disturbarla. Aspettai allora che avesse finito per parlarle. Non passò molto che rialzò gli occhi e mi squadrò dalla testa ai piedi. Quando fui sicuro di avere la sua attenzione le dissi:«mi scusi: sono entrato qui per sbaglio e non riesco più ad uscire». «Deve proseguire lungo il corridoio». Senza nemmeno pensare alle sue parole, la ringraziai e uscii dalla stanza.
Cominciai a camminare lungo il corridoio sollevato di aver finalmente scoperto come uscire da quel luogo. Mi sovvenne un gruppo di bambini, poco più che decenni, correre lungo il sentiero del bosco, e mi ritrovai a gridare: ‘non mi prenderete, non mi prenderete!’ e mi sentii felice.
Ma presto tornai a turbarmi. Quel corridoio pareva infinito: le colonne si susseguivano uguali, l’una all’altra e non una minima imperfezione in quei candidi muri che potesse alleviare l’ansia di un uomo smarrito. Era ormai passato del tempo da quando ero uscito dall’ufficio della donna; cominciai a sentirmi a disagio, mi mancava l’aria, non uno spiraglio in cui poter vedere fuori: chiuso in quel corridoio come in una cripta, in un luogo fuori dal mondo, lontano da tutto. Non avevo l’orologio e pensai fosse tardissimo e che molti dei miei impegni fossero ormai saltati. I miei doveri. Quanto tempo era passato, quante persone avevo già deluso? Come avrei potuto spiegare? Nessuno mi avrebbe creduto, oppure mi avrebbero preso per pazzo; cercai anche un orologio alle pareti per capire che ora fosse, ma stranamente non ne vidi nemmeno uno. Si critica tanto il divenire, ma si provi a vivere l’assenza del tempo e la sua claustrofobica tensione.
Continuai a camminare e ancora non vedevo l’uscita; mi voltai e mi stupii nell’accorgermi che neppure il punto da cui ero partito mi era ormai più visibile. Quanta strada avevo ormai percorso? In quel momento desiderai una via d’uscita che fosse una, non la libertà, una via d’uscita.


(continua)

venerdì 10 febbraio 2012

Il corridoio (una favola)

I

Mi alzai presto quella mattina: una giornata piena, ricca di impegni e di noiosi appuntamenti che non potevo assolutamente rimandare. Così uscì dalla impalpabile quiete del dormiveglia e ancora stordito dal sonno avanzai alla finestra per aprirla. Fuori mi si presentò una bellissima giornata: il sole non ancora sorto, una luce rosata sopra le colline ad annunciarne l’imminente arrivo. Solo un gruppetto di nuvole, bianche e innocue occupava quel cielo altrimenti terso e sembravano scappare dalla luce, dirette verso la parte di cielo ancora scura, come a nascondersi dall’arrivo del giorno.
Un’ aria fredda e frizzante sulla pelle mentre osservavo il mondo da quella finestra. L’osservavo distrattamente, come un mendicante una tragedia dalla porta del teatro rimasta aperta per la distrazione altrui, che guarda lo spettacolo senza interesse, sperando solo che all’uscita qualcuno gli lasci qualche spicciolo, e tuttavia l’unico a capirla.
Quando uscì di casa non c’era più traccia delle nuvole, il cielo ormai schiarito completamente; forse si erano andate a rifugiare oltre l’orizzonte, dove restava il cielo ancora scuro.
Camminavo tranquillamente; nessuno per strada, solo qualche gatto sulle macchine a stiracchiarsi e qualche cane, finito di annusare i fantasmi della notte, a riprendersi possesso del proprio territorio fra pali e pattumiere.
Andai tranquillo, osservando quel mondo che lentamente si risvegliava. Provavo una gran pace nel pensare a chi, nel medesimo istante del mio pensiero, godeva ancora del sonno, mentre io, nel mio lento incedere, potevo osservare le strade nell’istante in cui si presentano libere dall’uomo.
Arrivai di fronte ad una porta. Tante ne avevo già passate immaginandovi all’interno donne ancora assonnate preparare la colazione. Ma di fronte a questa, qualcosa, senza ragione, attirò la mia attenzione e mi spinse ad aprirla. Non volevo perdere tempo, tante commissioni ancora: non potevo permettermelo. Ma la curiosità mi aveva ormai vinto e un passo dopo l’altro mi avvicinai alla porta, la trovai socchiusa, dal battente evadeva uno spiraglio di luce. «Solo un’occhiatina, poi torno alle mie commissioni.» Cercai di scorgere qualcosa dallo spiraglio che senza resistenza mi cedeva; tuttavia non riuscii a vedere nulla fino a che, con un po’ di timore, la spalancai. Una stanzetta perfettamente quadrata in cui non c’era assolutamente nulla, tranne un’altra porta dalla parte opposta.
Rimasi turbato, ma la curiosità a quella vista aumentò e mi spinse ad entrare con l’intenzione di aprire anche l’altra porta. Non feci in tempo a fare un passo all’interno della stanza che la porta alle mie spalle si richiuse. Con un balzo di paura indietreggiai e cercai di riaprirla per uscire da quella stanza così misteriosa, ma la porta non cedeva. Per quanto mi sforzassi era impossibile tornare indietro.

(Continua)

giovedì 9 febbraio 2012

G. Belli - Li due generi umani

Noi se sa, ar monno semo usciti fori
Impastati de merda e de mondezza.
Er merito, er decoro e la grandezza
So tutta mercanzia de li signori.

A su' Eccellenza a su' Maestà, a su' Altezza
Fumi, patacche, titoli e sprennori;
e a noantri artigiani e servitori
er bastone, l'imbasto e la capezza.

Cristo creò le case e li palazzi
P'er principe, er marchese e er cavaliere,
e la terra pe noi facce de cazzi.

E quanno morse in croce, ebbe er pensiere
De sparge, bontà sua fra tanti strazzi,
pe quelli er sangue e pe noantri er siere.

7 aprile 1834

martedì 7 febbraio 2012

Contro ‘l’holliwoodiana maniera: un’analisi del film Á bout de souffle di Jean Luc Godard



«- Lei non ha nulla contro la gioventù?
- Sì, preferisco i vecchi.»
                                                                                                  (dal film A bout de souffle di J. L. Godard)

Si è tanto discusso riguardo la tensione della prima letteratura ed arte americana verso il vecchio mondo; si è pure disquisito sul tentativo già dell’America ‘pre-americana’, quella puritana, di creare un ‘nuovo Adamo’; ma l’evidenza mostra oggi e costringe ad interrogarsi sulle ingerenze della cultura americana – nello specifico caso di questo articolo, del cinema – sul ‘gusto’ europeo e sulla sua omologazione ai canoni d’oltre oceano, o Holliwoodiani. La polemica non è nuova; basti pensare al famoso esordio cinematografico di Jean Luc Godard – oltre che ai suoi articoli di critica contenuti nei Cahier du Cinéma – con il film À bout de shuffle. La frase con cui ho aperto il mio articolo è tratta appunto da questo film e si rivela una chiave di volta per sviluppare la questione che mi propongo di discutere.

***

Siamo sugli Champs Elysées, dove passeggiano centinaia di ignari passanti. Michel Poiccard (Jean-Paul Belmondo) cammina con Patrizia Franklin (Jean Seberg), cerca di convincerla a seguirlo in una fuga verso l’Italia e via dai guai; lui, ladro d’auto d’esistenzialistica indifferenza e lei, studentessa americana innamorata ma restia ad abbandonarsi al sentimento puro. Dopo un fugace saluto una ragazza raggiunge Michel e gli rivolge la domanda «Lei non ha nulla contro la gioventù?» a cui segue la risposta «Sì, preferisco i vecchi» che potrebbe, certo, risultare persino banale se non fosse che, in una connotazione recuperabile solo attraverso artifici formali, racchiuda in sé un significato extra-filmico: l’ineludibile conflitto che da vita ad ogni tradizione, padri contra figli. I Vecchi sono i registi degli anni cinquanta, che legati ai paradigmi della omologante favola di Holliwood sono incapaci di rappresentare la poliedrica e vivace realtà francese tra gli anni ‘50 e ‘60; compito che si affidano i Giovani, ossia il gruppo che ruota attorno alla rivista dei Cahier du Cinéma di cui Godard è uno dei più ferventi membri (Resnais, Trouffaut, Chabrol, Rohmer). La ragazza infatti, nell’interrogare Michel, stringe fra le dita un numero di questa rivista. La domanda diviene a questo punto, quasi un teorema: da maestro del discorso meta-cinematografico e stilistico, e da teorico e critico di punta della Nouvelle Vague Godard intende, attraverso un inserimento della discussione ‘reale’ e ‘mondana’ all’interno della finzione del film, proporre la sua idea di nuovo cinema che si stacchi dalla classica fiction di stampo favolistico-holliwoodiano e si inserisca nella vita vera: politica, sociale e filosofica della Francia di quegli anni. Detto questo è senz’altro naturale riconoscere il debito stilistico di questo movimento verso il suo più prossimo parente italiano: il neorealismo, tuttavia vi è uno scarto ideologico che differenzia la ‘nuova onda’ francese dal fratello italiano: una forte spinta intellettualistica verso il meccanismo cinematografico in sé, così da discendere ad una autoreferenzialità e ad una riflessione sul mezzo che da vita ad alcuni tra i più grandi capolavori meta-cinematografici del cinema di sempre.
La realtà viene così portata sulla scena, ma il film è finzione e non realtà, questo tiene a spiegarci Godard con le sue sgrammaticature, con gli sguardi in camera a coinvolgere/esautorare il pubblico, per non smarrire appunto, seguendo quella che è la teoria brechtiana del teatro, la lucidità del pubblico e la sua capacità di riflessione sull’opera. La finzione del film ha in questo modo l’importante compito di formare un pensiero, di creare un opinione; con le parole di Godard: di “fare politica”, e questo non attraverso una trama avvincente o attori taumaturgici, ma attraverso la forma, attraverso lo stile e lo sguardo. La realtà non deve più essere resa fiction tramite schemi fissi e collaudati per strappare lacrime o creare souspance, ma osservata da un occhio capace di creare su di essa una verità: l’occhio dell’autore.