sabato 21 aprile 2012

ArtisticamenteMe. Intervista ad Alice Karshan

Abbiamo incontrato Alice Karshan, giovane pittrice pesarese che nei giorni 28 e 29 aprile esporrà le proprie opere alla Piccola Galleria comunale di Pesaro in Via Branca 5, con cornice musicale dei Gonzo’s Law che con il loro groove che spazia dal funk allo smooth jazz accompagneranno l’esposizione artistica aggiungendo ‘arte ad arte’.
In linea con le idee della Resistenza della poesia si è discusso della figura dell’artista, di bellezza e della condizione attuale dell’uomo e dell’arte.


Ogni opera d’arte rappresenta quella che è la voce più nascosta, intima e vera dell’artista. Che cos’è che ti spinge a dipingere, quali sono i messaggi che vuoi dare con i tuoi disegni, quali vibrazioni ti spingono a creare?

Ciò che mi spinge a dipingere è la passione che ho per la pittura ma soprattutto per la ‘libertà’ che in quel momento  sento e quindi vivo. Per quanto mi riguarda è difficile spiegare in parole del perché mi sento bene quando dipingo e cosa mi spinge a farlo. Penso semplicemente che l’arte sia ‘dentro’ di me. Non mi sono mai concentrata sul tipo di messaggio che vorrei dare, mi piacerebbe semplicemente che la gente si avvicini un po’ più alla pittura e all’arte in generale, ai colori e alle magie che possono creare anche perché sono convinta che ognuno di noi sia in grado di creare piccole o grandi opere, basta semplicemente ascoltare l’istinto e buttarsi! Perfetto ora so perché dipingo…


L’arte quindi è insita in ogni uomo ed è essa stessa a premere per uscire al mondo. Tuttavia tutti gli artisti, oltre a parlare ‘da dentro’ e con la propria esperienza devono – sempre – fare i conti con una tradizione che li precede, e – nel bene o nel male – tutti sono costretti ad accostarsi, a volte affrontare e superare dei maestri. Tu hai dei maestri in particolare? dei pittori a cui maggiormente ti ispiri e con i quali ‘dialoghi’ durante la creazione?

Diciamo che nulla è nuovo. I ‘grandi’ maestri saranno e devono sempre essere presenti nel senso che è naturale ispirarsi ad  un’artista del passato, ma quello che dovrebbe caratterizzare un’artista è la ricerca, la sperimentazione e l’innovazione (se no che divertimento c’è!). Personalmente, sono affascinata dall’apparente semplicità delle forme rettangolari di  Mondrian ,dal surrealismo di Mirò o dalla magica pittura d’azione di Pollock,comunque sia vado dritta per la mia strada e ogni tanto  sbircio un po’ indietro.


Cosa pensi che sia, nella nostra società, l’arte: quale pensi che sia il suo valore? Secondo te può essere ridotta ad un puro vezzo da intellettuali, a un semplice passatempo o un intrattenimento, oppure pensi che possa essere importante, avere un valore all’interno della società?

L’arte in tutte le sue sfaccettature è fondamentale nella vita di ognuno di noi. E quando dico Arte intendo pittura, poesia, musica; tutto ciò che di buono l’uomo riesce a creare è arte! Che sia un passatempo, o che sia semplicemente puro mezzo di marketing va bene, il mio desiderio è non vederla mai accantonata.

Dunque, se ti citassi un passo tratto dall’Idiota, famosa opera di un grande scrittore come Dostoevskij, in cui il principe Myškin, protagonista, afferma che la bellezza possa salvare il mondo, tu credi che ci sia della verità dietro questa affermazione o pensi, come la pragmatica borghesia russa che lo circonda, che le sue siano soltanto le parole di un ‘idiota’?

Era stanco di vivere in una società malata e crudele.
 Sì, la bellezza può salvare il mondo. Penso però che qui non si parli di bellezza estetica, bensì interiore.
E  se l’uomo tornasse semplicemente a sorridere, a sperare, ma soprattutto a credere (e non parlo in questo caso della fede) probabilmente si  aggiusterebbero un po’ di cose. Quello che noto ultimamente è che le persone si accontentano, si arrendono e non lottano più .
Forse è così che veramente diventano idioti. 

La bellezza e l’arte nelle sue varie forme; infatti arte è non solo quella figurativa come già ci hai ricordato tu: ci sono anche la musica, la letteratura, ecc. Che cosa ti ha spinto a voler accompagnare l’evento della tua esposizione d’arte figurativa con della musica dal vivo?

La musica è fondamentale. Infatti quando dipingo alzo il volume, entro nella canzone e comincio. Voglio dare a questa mostra un’impronta fresca, giovanile e allegra. Solo in questo modo potrà rispecchiarmi a pieno. Poi musica e pittura sono praticamente la stessa cosa. Un esempio: gesto musicale e nota colorata.

Per quello che è il tuo particolare stile, la tua ricerca, a chi consiglieresti di visitare l’esposizione, e perché?

Lo consiglierei ai più giovani, per condividere con loro un momento molto importante per me, perché dopo tanti anni di esitazione, finalmente ho preso coraggio e ho deciso di condividere le mie opere. Lo consiglierei alle persone più grandi perché musica e pittura non hanno età.
Infine, con un pizzico di orgoglio, lo consiglierei a quelle poche persone che non hanno creduto in me.


Intervista di Matteo Giunta e Nicola Mancini

venerdì 20 aprile 2012

I quattro dell'Apocalisse

Due romanzieri russi, due poeti italiani: i quattro dell’Apocalisse. Due ribelli sgargianti, due compagnoni in toga: i quattro della mia vita. Ve l’immaginate ora, sir? Potete dismettere il chiodo fisso, del tutto vostro, delle chiare et fresche et dolci acque del Vermont e concentrarvi su di loro, machi e belloni, fustacci?
«Ditemi i loro nomi, per Giove.» Yes, sir. Essi sono, in ordine temporale: Virgilio, Dante, Dostoevskij, Bulgakov.
«Voglio sapere tutto. Andiamo a metterci comodi in una qualche locanda di San Gimignano, sbevazziamo e parliamo di letteratura: ne ho bisogno. Ho bisogno d’ascoltare cosa sia il perno della salvezza, e perché quei fustacci vi rimangano così inspiegabilmente a cuore. Un bel grappino al tritolo e tutto si risolve. Già sento i polmoni carichi e piromani. Andiamo in locanda, andiamo, razza di sciagurato.» No, sir.
«Perché no?» Nelle locande ci sono le locandiere. Le locandiere danno vino stagionato, pescato dalla feccia del loro barile. No, sir. Ho chiuso una volta per tutte con le locandiere. La locandiera della mia vita è impazzita d’un colpo. Si dà alla pazza gioia, fa sbornie, è un Erinni, un grifo malcielo. Ed è per questo che ora mi armo di penna che non è una penna, e di parole che non sono parole. No, sir. Non in una locanda. Ho patito troppo per le locandiere.
«Seguimi, mela marcia. Conosco locande sguarnite di locandiere…» E che dire quando uno è così accorto? Lo si segua col sole d’aprile che sfibra le grate col suo debol tepore. Sono baccelliere. Sir, ricordami così.
E poiché lo studio mi viene a noia, narro. Narro – a quanto pare – una losca Inchiesta e di certe coincidenze avvenute in settimana: gli scrittori morti si rincontrano. Maigret gli arresta, nell’ora in cui calano le maschere.
Ma non è settimana come le altre: c’è il santo di mezzo, e l’angelo.
«Che ruolo hanno i quattro dell’Apocalisse?» Spostano gli equilibri meridiani del mondo, poiché non vi è che un solo mondo: quello letterario. Gli altri sono scioccamente finti. Si vive solo nell’opera. Ed essi sono i testimoni dell’opera.
«L’opera di chi? Razza d’uomo teologico: sei peggio d’un rallo, d’una folaga. Parla di storia piuttosto.» La storia non esiste. Avete mai visto un ciliegio e un eucalipto presentarsi in veste storica? Sarebbe ridicolo, perché per loro non c’è il tempo dei capricci. Esiste la coscienza teologica e il suo martire, non la storia: mito d’Europa. E comunque finiamola con questo arrancare e ordiniamoci una torcibudella. Locanda assai fine, rossetta, glabra. Varia umanità ivi brulicava altezzosamente.
«Guarda là in fondo.» Lei. M’aveva ingannato il sir. M’ha portato proprio nel luogo in cui meno volevo stare: vicino a lei. Vicino a lei. Batto i denti per soffocare un rantolo d’emicrania. Fa per avvicinarsi in prospettiva dell’ordine. La fulmino: diva, ditirambo vivente, dispeptica! Guai a te se fai un altro passo! Conduco una vita speleologica a furia di inchiodarti, ma tu nulla. Sta d’accordo. Sta bene. Io sono un putridume, ovviamente: eppure ho dalla mia parte i quattro. Essi hanno una V, due D, una B per iniziali.
Che dico a fare? Sei illetterata: potrai mai intendermi? Per giunta, ora frequenti ometti che non ti offrono nessuno stimolo, nessuna pietanza tesa a satollare l’anima tua anoressica e strisciante.
 Mi dà nausea il tuo volto irrughito e butterato dal troppo punch e dall’erba. Ubriacona! Guarda come continuo, nello strapparmi i capelli, le pustole e il cuore, guarda come continuo a dar gioco alle apparenze. Sto qui, rimango, siedo, do retta a un sir provincialotto. Bevo anch’io – scrutatore, ma solo per vedere dove arriva la tua immondezza.
Sei sacra, sei strega. Sei lercia, incurvita: scipita. Provo una strana goduria nel vederti così infelicemente imbruttita dal caso e dagli atti. I tuoi bagordi esigono pure un prezzo. Lo sapevo io, sì lo sapevo fin da prima: sempre nelle locande ci sono locandiere!
«Ora basta. Hai detto abbastanza, rivendicando la tua personale rivolta col vessillo dei quattro. Andiamocene. Ma prima dimmi: sei sicuro di voler fare a meno dei suoi servigi, anche in un lontano futuro?» Yes, sir.

sabato 14 aprile 2012

Vladimir Majakovskij, breve estratto da 'Flauto di vertebre'

Io,
taumaturgo di ogni tripudio,
non ho con chi andare alla festa.
Cadrò di schianto, supino,
sfracellandomi il capo sulle pietre del Nevski!
Ho bestemmiato.
Ho urlato che Dio non esiste,
e lui ha tratto dal fondo degli inferi
una donna che farebbe tremare una montagna,
e mi ha comandato:
amala!

martedì 10 aprile 2012

'La ballata delle madri' di Pasolini

Mi domando che madri avete avuto.
Se ora vi vedessero al lavoro
in un mondo a loro sconosciuto,
presi in un giro mai compiuto
d’esperienze così diverse dalle loro,
che sguardo avrebbero negli occhi?
Se fossero lì, mentre voi scrivete
il vostro pezzo, conformisti e barocchi,
o lo passate a redattori rotti
a ogni compromesso, capirebbero chi siete? 

Madri vili, con nel viso il timore
antico, quello che come un male
deforma i lineamenti in un biancore
che li annebbia, li allontana dal cuore,
li chiude nel vecchio rifiuto morale.
Madri vili, poverine, preoccupate
che i figli conoscano la viltà
per chiedere un posto, per essere pratici,
per non offendere anime privilegiate,
per difendersi da ogni pietà. 

Madri mediocri, che hanno imparato
con umiltà di bambine, di noi,
un unico, nudo significato,
con anime in cui il mondo è dannato
a non dare né dolore né gioia.
Madri mediocri, che non hanno avuto
per voi mai una parola d’amore,
se non d’un amore sordidamente muto
di bestia, e in esso v’hanno cresciuto,
impotenti ai reali richiami del cuore. 

Madri servili, abituate da secoli
a chinare senza amore la testa,
a trasmettere al loro feto
l’antico, vergognoso segreto
d’accontentarsi dei resti della festa.
Madri servili, che vi hanno insegnato
come il servo può essere felice
odiando chi è, come lui, legato,
come può essere, tradendo, beato,
e sicuro, facendo ciò che non dice. 

Madri feroci, intente a difendere
quel poco che, borghesi, possiedono,
la normalità e lo stipendio,
quasi con rabbia di chi si vendichi
o sia stretto da un assurdo assedio.
Madri feroci, che vi hanno detto:
Sopravvivete! Pensate a voi!
Non provate mai pietà o rispetto
per nessuno, covate nel petto
la vostra integrità di avvoltoi! 

Ecco, vili, mediocri, servi,
feroci, le vostre povere madri!
Che non hanno vergogna a sapervi
nel vostro odio addirittura superbi,
se non è questa che una valle di lacrime.
È così che vi appartiene questo mondo:
fatti fratelli nelle opposte passioni,
o le patrie nemiche, dal rifiuto profondo
a essere diversi: a rispondere
del selvaggio dolore di esser uomini.


Da Pier Paolo Pasolini, Bestemmia. Tutte le poesie,  vol. I, Garzanti, Milano 1993

giovedì 5 aprile 2012

Io e zio Seamus, ovvero “il più grande poeta al mondo”

     
     Piazza Maggiore è ferita da un tenue scroscio di pioggia-lama. La taglio in due, seguendo l’indicazione del braccio sinistro d’un grosso crocifisso non intarsiato e color crema. Ecco – colgo lo svincolo madornale – ecco, una piccola piazzetta, un piccolo albergo, una minuscola entrata per un grande uomo. Che non sono io.
     Ohibò, sono in anticipo di un quarto d’orami dico, traballante. Panacea di tutte le puntualità è la sigaretta. La fumo con l’acqua alle tempie, il grigio sulle spalle. Ah, il catrame. Fatto questo (considerato che il vento chiede sempre due tiri), leggo l’ora e non sono passati più di sette minuti. Cammino su e giù. Grigio diventa azzurro, perdiana. No, e cammino ancora. Poi, mi faccio coraggio, entro, guardo la reception, getto in pasto al sorriso smagliante dell’uomo inamidato il ridicolo dovrei incontrare il poeta Seamus Heaney, mi risponde il professore è in camera, si accomodi al primo piano e, in un balzo, sono di sopra, la poltrona mi chiama, piantato, in tiepida attesa.
     La professoressa Morisco, mia correlatrice all’epoca della discussione, doveva far da interprete, perché, sapete, il sottoscritto ha avuto una storia difficile al liceo per quanto concerne le lingue straniere, storia complicata, dalle mille sfaccettature, mare torbidum, insomma… il sottoscritto non sa amabilmente una mazza d’inglese.
     Ma si ode scoccare l’ascensore e un omone canuto mi saluta, lieto: il Maestro è arrivato. Ora che dico? Siede al mio fianco, sul grosso divano marrone in mogano. Biascico qualcosa, porgendogli una poesia che avevo scritto su di lui e nella quale figurano tre o quattro versi in gaelico.
    Very good, very good…, pare davvero contento e legge ad alta voce, traducendo simultaneamente dal gaelico, lingua d’origine, all’inglese, lingua dei padroni. Intanto arriva la Morisco, rompe la lastra di ghiaccio infilzata nel mio cranio. Parliamo. Porgo domande su Virgilio, lui risponde affabile ma a fatica, perché l’ictus lo fa ancora tremare. Si parla di Dio, della trascendenza. Di quel lasciare-andare che affronta la morte ad occhi sinceri. Egli ne è certamente attratto, eppure anni di violenza e di guerra civile in Irlanda non possono non lasciare una macchia indelebile e una certa delicatezza (delicatezza verso quei morti da lui cantati in Station Island) nel professarsi dell’una o dell’altra fede.
     Questo pudore, questo tatto lo sprofonda in un sospiro. Lungo come la canna di una pistola puntata sul collo. Il dialogo a tre prosegue fino alla sua fine. È tempo di convenevoli. Gli ingiungo di firmare il libro del pungolo e della ferita metafisica, dico che nella nostra famiglia egli è molto popolare, simile ad una celebrata rock-star. Con firma tremante la mano più incisiva al mondo solca il frontespizio e il mio umore rinato. È come se fosse uno zio. Zio Seamus.
     E, in modo del tutto inaspettato e non-riflettuto, mi chiede una firma con dedica alla poesia dei tre o quattro versi gaelici. Paradossale, penso. Già l’onore di sedergli accanto ed essere nipote acquisito, ora faccio anche l’autografo al Premio Nobel dei miei desideri, il poeta della vanga e dello scavo, Virgilio dell’anima, maestro di vita, o semplicemente Maestro.
     Io, ventitreenne meridionale, conosciuto Heaney, salutato, baciato, visto il tremore di mani che entreranno nella storia, conversato, capito la sua poesia, le sue tribolazioni, la sua speranza che la parola del Vangelo dia l’ultima energia alla polvere della fonte inesausta, insomma io, davvero Felix (per usare un epiteto da imperatore romano), io cosa cerco ancora?
     Esco dall’albergo, giro l’angolo, aspetto. Panacea di tutte le attese è la sigaretta. Accesa, bagnata nella riga tra l’indice e il medio. Esce la combriccola, Heaney parla con la Morisco, la moglie Marie è a braccetto con un’altra donna dal portamento inglese. La pioggia mi ferisce gli occhi di commozione, mentre tagliano in due Piazza Maggiore, senza seguire nessun braccio del crocifisso, e spariscono nella bruma. Non pioggia normale, ma pioggia-lama. Che il cuore mi taglia, per sempre.