sabato 28 gennaio 2012

'Siria' di E. Montale

Dicevano gli antichi che la poesia
è scala a Dio. Forse non è così
se mi leggi. Ma il giorno io lo seppi
che ritrovai per te la voce, sciolto
in un gregge di nuvoli e di capre
dirompenti da un greppo a brucar bave
di pruno e di falasco, e i volti scarni
della luna e del sole si fondevano,
il motore era guasto ed una freccia
di sangue su un macigno segnalava
la via di Aleppo.

Da La bufera e altro 

lunedì 23 gennaio 2012

Dentro un pub

Danzava dietro ai tavoli ridendo
velava dietro ad abiti di sguardi
di un dio lascivo il fragile tempio.
Gli asceti dietro i vetri domandavano d’amore.

sabato 14 gennaio 2012

Via dei Morti - Canto unico

Colà dove non si puote ciò che si vuole,
  non desiai trasumanar da solo;
  di Giacomo Henio fui poetica prole.

Com’un augello ch’insegni il volo
  a lo suo nato, che di volar si dole,
  ei era scevro di veste di polo,

sì pur villica speme, coi capelli
  eburnei e di luppolo l’odor acre,
  nell’hibernio manto i dentelli.

Seguitavamo per l’altrui male,
  tanfi di scalogna e bruttarelli,
  scemi di Virgilio, dolcissimo patre.

Et ei, occhi di bragia, ebbe a dirmi:
  «Figliuol, quivi non ragionar d’amore,
  – cagion che fora di sé fece irmi,

ma mira come di disio si more.
  Non vuoi forse, canaglia, aitarmi?
  Il nïente ha leso anche ‘l core
 
et il dimonio ha perduto la spada:
  contate son le sue fetide ore.
  Iddio non vuol che tu a lo regno vada.

Vinca tua guardia ‘l mio cammino:
  i’ per te non son guida, ma piaga;
  codesto è l’oscuro mio destino,

codesta la nostra mala desianza».
  D’appresso bevve gocciol di vino
  a suggello dell’infera sbronza.

E chiesi allor a lo duca mio,
  tristo e con sciocca petulanza:
  «Maestro, l’inferno è loco rio,

tu se’ ombra vana e pur schivo.
  Che i’ sia l’ultim’ omo pio,
  se anco in ciel v’è goder lascivo?».

Et ei guardommi, sospirò e disse:
  «Non è pio chi par malvivo.
  Omero non fui, né tu Ulisse,

ma è tempo degli dèi bugiardi,
  veri per chi di codesti visse
  pria di dar fama agli infingardi.

I’ conforto non darò, né sostegno
  a l’inceder dei tuoi passi tardi:
  lo volto tuo mi venne a disdegno».

Allor mi volsi lasso ove ‘l foco
  s’annidava; non vidi arso legno
  e non vidi gente in broda e roca,

e non vidi com’allor fu l’inferno,
  sì fiacchezza ambo gl’irti loci.
  Gelo non spirò da l’uscio del verno,

nianche la Giudecca se stessa parea,
  e Minos sanza cinghia né Averno,
  e Francesca non danzò ne la bufera.

Poscia, col cor compunto, cominciai:
  «Segnor, perché mai debbo rimaner
  tra sterpi sanza speme, privi di rai?

I’ vorrei tornare donde son venuto,
  e non star di presso ‘l fiacco viavai
  a rimirar l’agro volto di niuno.

Almeno parla, te ne priego, di poesia:
  consolami col tuo parlar nudo,
  men dura e torta sarà la via,

men acre sarà ‘l grigio festino».
  Et ei languì di iusta malinconia
  rimirando i cenni de lo destino.

Si fermò di gitto ‘l mio dottore
  e guardò dolente com’un fantolino
  la matre scorge, se colto in errore.

Crollò la fronte la fidata scorta:
  «Ingenuo figlio, – disse di core,
  ascolta ‘l verbo: la poesia è morta.

Ahi quanto piansi, quanto fui sanza pace:
  il giorno mi gittò fra l’ombra corta,
  ove ‘l rosso sol spento sì tace.

Da quand’ella è svanita colle Muse,
  vuotato s’è l’inferno e la sua brace
  e del celeste regno le porte chiuse.

A te convien tenere altro viaggio
  fuor da le speranze illuse
  che non confanno a l’omo saggio,

in pozze d’acqua perigliosa e guata,
  ceder a lo sospeso eremitaggio,
  ingannare forte nostra sventurata

semenza, finché a l’ornamento
  de la spenta nostra traversata
  sia dimentico ‘l tuo duro stampo».

A seguir cotante parole ebbre,
  che risonaron a mo’ di lampo,
  s’appressarono livide tenebre

su la piaggia e su tutta la Caina:
  Acheronte infernal parve l’Ebro,
  lo spirto conducea ad una ruina.

Nulla si vedea di ciò che fusse savio,
  che non oltraggiasse virtù divina.
  E s’incupì ‘l viso di Giacom Henio:

corregli su la fronte bestial brama
  simil a lo verde furor padanio.
  Ma a codesti toccherà la lama.

Pria di svoltar per nere contrade
  onde s’attrista sì che ‘l contrario ama,
  i’ non caddi come corpo morto cade.

Per molte fiate girammo a talento
  vieppiù a tinte fosche e rade:
  e la terra non s’aprì, né diede vento.

A lo duca dal pelo imbiancato
  allor dissi: «Non reggo ‘l tormento;
  meo dottore, cosa t’ha cangiato?

Tu che poeta fosti de lo Fattore,
  de la Riparazione hai motteggiato,
  meo conforto, rara gemma e cantore,
 
cos’ha tradito ‘l tuo disegno?».
  Com’un ape che sdegna ‘l suo fiore,
  ei disse: «Or vedi, figlio, il segno:

tu sei che hai scelto via fetida
  e dell’Amor negato ‘l pegno
  per seguitar di codesta epoca

la nova demenza. E noi parliamo,
  fora di lingua novella, lepida
  e salda, in motto d’antico toscano

poiché ‘l tuo scarso poetar empio,
  non sia ad altra volgar calca vano.
  Ma su siffatto letterario scempio

s’addensa greve una nube di terra,
  convienti sigillar tuo tempo
  e lo silenzio – il labbro serra!

Perduta è per vostra dolorosa prole
  la lingua che v’allevò materna
  – vuotato a la veccia è l’ampio otre,

e ‘l suo fabbro, sicché non ti crucciare:
  vuolsi così colà dove si puote
  omai nulla, e più non dimandare».


martedì 10 gennaio 2012

'Se avess'io' di Alda Merini

Se avess’io levità di una fanciulla
invece di codesto, torturato
pesantissimo cuore e conoscessi
la purezza delle acque come fossi
entro raccolta in miti - sacrifici,
spoglierei questa insipida memoria
per immergermi in te, fatto mio uomo.

Io ti debbo i racconti più fruttuosi
della mia terra che non dà mai spiga.
E ti debbo parole come l’ape
deve miele al suo fiore.

Perché t’amo caro, da sempre,
prima dell’inferno prima del paradiso
prima ancora che io fossi buttata nell’argilla
del mio pavido corpo.

Amore mio,
quanto pesante è adducerti il mio carro
che io guido nel giorno dell’arsura
alle tue mille bocche di ristoro!

Anima mia che metti le ali
e sei un bruco possente
ti fa meno male l’oblio
che questo cerchio di velo.
E se diventi farfalla
nessuno pensa più a ciò che è stato
quando strisciavi per terra
e non volevi le ali.

sabato 7 gennaio 2012

'Il pianto di Danae' di Simonide

Quando in un’arca
ben costruita
il vento la spinse
e il mare in tempesta, la colse il terrore.
Allora con umide guance
strinse Perseo fra braccia amorevoli
e disse: «Figlio mio,
quale dolore io debbo patire!
Ma tu, amore, dormi
e nel sonno assapori la tua pace di neonato,
disteso in una triste prigione
dai chiodi di bronzo, nella notte senza luna
immerso in nera foschia.
Non ti curi dell’onda salmastra
che altissima incombe sui tuoi capelli,
né dell’urlo del vento, ma giace protetto
da un manto di porpora il tuo bel visino.
Se anche tu avessi paura di ciò che è pauroso
porgeresti il tuo piccolo orecchio
al suono dei miei lamenti.
Dormi tesoro, dormi, ti prego
e dorma anche il mare
e dorma questa sventura senza fine.
Fammi apparire un nuovo spiraglio,
o padre Zeus!
Ma se è troppo audace la mia preghiera
e contro giustizia, ti prego perdonami».

venerdì 6 gennaio 2012

Cioran (parte I)


Biche-madrigaux – Cioran
 
Écartèlement

Conservo la mia Lucidità delle cose.
E cosa vedo? Nulla di qua, nulla di là.
Nulla di su e di giù. Nulla a destra.

Nulla a sinistra. Nulla che spacca i poli.
Nulla che stritola l’argine. Nulla al centro
E al bordo. Nulla sulla strada maestra.

E cosa faccio? Sgrano fermo il reale
Che non sei o sarai.
                                  Per quel che vale.


La Tentation d’exister
  
A bocconi, a gattoni, a piene mani, a tentoni.
Nell’ordinario mi muovo, e sono.
Epicratico, variopinto; ma sempre

Dinoccolato nel gesto e vivo per i vivi,
se si tratta di dar conto al viale
unto dalla sferza del tuo Novembre.

Scivolo all’indietro, sbatto il tronco.
E la vita che ti sonda al mio tonfo.

mercoledì 4 gennaio 2012

'O poesia' di Clemente Rebora

O poesia, nel lucido verso
Che l'ansietà di primavera esalta
Che la vittoria dell'estate assalta
Che speranze nell'occhio del cielo divampa
Che tripudi sul cuor della terra conflagra,
O poesia, nel livido verso
Che sguazza fanghiglia d'autunno
Che spezza ghiaccioli d'inverno
Che schizza veleno nell'occhio del cielo
Che strizza ferite sul cuor della terra,
O poesia nel verso inviolabile
Tu stringi le forme che dentro
Malvive svanivan nel labile
Gesto vigliacco, nell'aria
Senza respiro, nel varco
Indefinito e deserto
Del sogno disperso,
Nell'orgia senza piacere
Dell'ebbra fantasia;
E mentre ti levi a tacere
Sulla cagnara di chi legge e scrive
Sulla malizia di chi lucra e svaria
Sulla tristezza di chi soffre e accieca,
Tu sei cagnara e malizia e tristezza,
Ma sei la fanfara
Che ritma il cammino,
Ma sei la letizia
Che incuora il vicino,
Ma sei la certezza
Del grande destino,
O poesia di sterco e di fiori,
Terror della vita, presenza di Dio,
O morta e rinata
Cittadina del mondo catenata!