Una notte di San Silvestro di ...anta anni fa, nel paese incantato di Arcor Town, il nanerottolo Silviolo camminava bel bello per il sottobosco. Era appena stato eletto borgomastro del villaggio, quando un comunista gli si fece innanzi, gridando: " Silviolo, tu sei stato eletto soltanto perché hai corrotto i savi giudici di Arcor Town! Pavido, pavido! ". Alla feroce accusa il bel nanerottolo rispose: " Ma sci contenga! ". E se ne andò. Dopo poche miglia fu raggiunto da un drappello di giornalisti che berciavano contro di lui. " Via! - disse - voi siete dipendenti del servizio pubblico... "; e così li allontanò. Raggiunto il villaggio, Silviolo fece il suo consueto discorso di fine anno agli altri nani di Arcor Town. Finita l'arringa, si diresse verso il pubblico, estasiato dalle sue parole, per i convenevoli. Ma, all'improvviso e contro ogni previsione, un certo Massimo Mitraglia scagliò una terribile e tagliente puf-bacca sul cranio di Silviolo, il quale cominciò a sanguinare violentemente. Tutta Arcor Town fu messa in subbuglio. Per ogni dove si udivano grida di donne che invocavano la fine del mondo. Sembrava che quella sera stessa dovesse arrivare l'angelo dell'Apocalisse con la sua tromba funesta. Silviolo era stato ricoverato d'urgenza al Policlinico " Biancaneve ", ed affidato alle cure dell'esimio professor Gargamella. La gente del villaggio era in stato di confusione. C'era chi diceva: " Era un tiranno, giusto così! "; e chi, in maniera eufemistica: " Non se lo meritava; ha guadagnato soldi in maniera onesta ". Intanto mancavano pochi minuti alla mezzanotte, quando la fata Turchina, dall'alto dei cieli, vedendo lo scompiglio in cui era riversata Arcor Town, volle farle un regalo, come buon auspicio del nuovo anno. Scese dalla volta indorata degli astri, e con la sua bacchetta d'ottone e la consueta formula magica, fece sparire Silviolo dal Policlinico, e impresse nelle menti dei cittadini l'oblio della sua lunga presenza nel villaggio. Il nano fu condotto nell'Empireo dei Corti, nel quale c'erano anche Napoleone, Pipino il Breve (esimio rappresentante di coloro che hanno vergogna della proprie pochezze), puffo Quattrocchi e Dotto. Arcor Town tornò quindi ad essere un villaggio felice, e allo scoccare della mezzanotte tutti brindarono, essendo divenuti brilli di vino e anarchici di governo. Soltanto Mitraglia, nel bel mezzo del ballo, osò rivolgere una domanda al popolo brulicante. Chiese: " Dov'è Silviolo, il re nano a cui ho tirato la puf-bacca? ". " Impossibile - rispose Emiliolo Fede-in-Dio - non c'è nessun re, noi siamo liberi e anarchici. E' pazzo! Portatelo nelle segrete... che marcisca nel fango chi osa toglierci la libertà ". E così colui che era stato il principio della liberazione fu incarcerato. E il popolo, credendosi felice, si diede al vezzo anarchico, senza sapere che " molto spesso, col cambiare del governo, per i poveri cambia solo il nome del padrone. " Fine del racconto.
venerdì 31 dicembre 2010
mercoledì 29 dicembre 2010
"La pazienza ha un limite, Pazienza no!"
A volte il destino è beffardo. Il primo quadro di Andrea Pazienza, che senza esitazioni chiamo 'il più grande fumettista italiano', rappresenta in pompa magna il suo funerale. Nel mezzo di un tumulto ai limiti del sarcasmo, quasi di sghimbescio su di una scena grottesca, appare una scritta limpida e feroce: "Andrea Pazienza is dead". Possibile che un pittore ancora acerbo dipinga la sua fine? Possibile che sia morto il più geniale degli artisti, e tra gli artisti geniali il più bello? Ciò che è difficile da valutare nella parabola di Pazienza è proprio questa terribile incognita: la commistione esplosiva di genio e bellezza. Un suo diretto predecessore fu Arthur Rimbaud, e anch'egli non se la passò così bene. Il motivo di simili collassi è forse dettato dall'eccesso di volontà di potenza che è sprigionato da codeste autentiche forze della natura. La volontà di potenza è una categoria metafisica introdotta da Nietzsche nella filosofia occidentale, ed indica la naturale tensione dell'uomo al possesso di un qualcosa che lo superi, cioè lo porti al di sopra di sé, in modo che diventi uno Über-Mensch. In un certo senso (con le dovute precauzioni, intendo, scevre d'ogni fanatismo da teenager) Rimbaud e Pazienza erano accomunati da una superiorità disarmante e annientatrice, la quale, piuttosto che creare il durevole, tendeva a distruggere il proprio creato per troppa potenza di volontà. Uno dei più alti insegnamenti dei Greci è certamente quello per cui il dio punisce chiunque oltrepassi la misura. E Pazienza, come più volte ha ripetuto egli stesso, ha peccato di dismisura suo malgrado.
Suo malgrado, appunto: noi non si cerca in alcun modo di giudicare, né di redimere il personaggio, il quale è vissuto e vivrà ancora nella memoria dei suoi ammiratori senza i nostri giudizi di poco conto e maliziosi. Noi si osserva. E l'osservazione naturalistica, come vorrebbe qualche filologo educato al metodo scientifico, ci porta a dichiarare pericoloso qualsiasi surplus di talento e grazia. Pazienza era un genio ed era bello. Questo è bastato per destare la nostra infinita meraviglia verso le sue grandiose opere rimaste in vita, e per condurlo ad una morte. La volontà di potenza ha concesso che la vita sia delle opere e non dell'uomo che le ha create. Ma come diceva Socrate, per bocca di Paltone, "chi di noi vada verso un destino migliore a tutti è oscuro, fuorché al dio".
Suo malgrado, appunto: noi non si cerca in alcun modo di giudicare, né di redimere il personaggio, il quale è vissuto e vivrà ancora nella memoria dei suoi ammiratori senza i nostri giudizi di poco conto e maliziosi. Noi si osserva. E l'osservazione naturalistica, come vorrebbe qualche filologo educato al metodo scientifico, ci porta a dichiarare pericoloso qualsiasi surplus di talento e grazia. Pazienza era un genio ed era bello. Questo è bastato per destare la nostra infinita meraviglia verso le sue grandiose opere rimaste in vita, e per condurlo ad una morte. La volontà di potenza ha concesso che la vita sia delle opere e non dell'uomo che le ha create. Ma come diceva Socrate, per bocca di Paltone, "chi di noi vada verso un destino migliore a tutti è oscuro, fuorché al dio".
Camus
lunedì 27 dicembre 2010
La parola che crea
Indubbia è attorno a noi la presenza di una realtà concreta e tangibile, materiale; percepita dai sensi in maniera diretta e incontrovertibile, essa è il luogo su cui si costruisce la nostra esperienza, la strada di ognuno. Tuttavia questa strada è coperta da un intricata rete di sterpaglie che la rendono inconoscibile, che la nascondono; e la realtà, nel suo essere un grande ente, un continuum e un infinito, alla mente umana è inconoscibile: troppo grande per essere oggetto di uno sguardo.
Affinché il nostro intelletto possa comprendere la realtà infinita, e affinché possa il nostro sguardo soffermarsi ad osservare il sentiero, è necessario che questi vengano sezionati in parti più piccole e in seguito rapportati tra loro per osservarne la funzione e la natura. L’operazione di questa suddivisione e questa comprensione avviene attraverso quello che è l’attributo più proprio dell’uomo e più distintivo: il linguaggio.
Dal momento che l’uomo, nella fisicità della propria esistenza, è un essere storico, caduco, non possiede la capacità di giungere ad una comprensione totale, assoluta; ma non per questo deve rassegnarsi alla inconsapevolezza. Attraverso la poesia, infatti, può avvenire un processo di conoscenza che rinnovando il linguaggio e portandolo a superare quelli che sono i suoi limiti in una società, inducendo le parole ad ampliare il proprio contenuto di conoscenza, il proprio valore semantico, fa in modo che la realtà di fronte a noi assuma un aspetto nuovo, e che anche il nostro rapporto con essa sia rinnovato. Oggi più che mai: in questo momento storico in cui gli –ismi cristallizzano, bloccano una realtà in continuo mutamento e la rendono, semplificandola fino all’estremo, inconoscibile per l’uomo, è necessario ascoltare la parola che crea, la parola della poesia. Ed è giunta l’ora di dare il giusto peso alla parola che intrappola e semplifica, la parola che generalizza: la parola dell’ideologia sistematica.
"Il posto delle fragole" di Ingmar Bergman
Guardare un film di Bergman è come aprire una ferita che è destinata a rimanere dischiusa. Egli è senz'altro il Kafka del cinema: la potenza del suo narrare attraverso le immagini è di un'asciuttezza mirabile, seppure parli di vicende e visioni al limite del fantastico. Appunto: di cosa tratta questo film del lontano 1957, in bianco e nero? Anzitutto ci chiederemo: cos'è il "posto delle fragole"? E' un luogo fantomatico? E' un sentiero raggiungibile? A cosa allude il titolo? Il "posto delle fragole" è lo status del ricordo e della memoria; ma non di un ricordo o di una memoria qualsiasi. Esso è il luogo di quel ricordo e di quella memoria. E' il sentiero percorso a ritroso dal facoltoso professor Isak Borg che viaggia alla ricerca del senso dell'essere e delle cose. La meta del suo camminare indietro non è il premio alla carriera così folgorante e lucido: la sua reale meta è il camminare in direzione del posto ontico ove è al vero instaurata la sua praesentia sulla Terra. Cos'è la vita? Essa è certamente uno stare su e giù per una via. Ma proprio questo brulicare vano ed incessante accoglie la più alta richiesta di trovare un 'posto' che sia proprio nel mondo. La memoria dei luoghi dell'infanzia suggerisce al professor Borg il pretesto di ri-considerare la sua vita e 'calcolare' le coordinate esatte del suo stare-al-mondo. Dopo tanto tempo, dopo anni di "storie tragiche nate per gioco", Isak comprende che la vita non rimane, si mantiene nell'accapigliarsi delle feroci passioni, bensì attende di tornare alla giusta altezza sulla via: il posto delle fragole. La finale visione dei genitori, con il suo che di misticismo, ri-porta il professore allo spazio aperto a lui consono e consentito. Bergam, da grande regista qual è, ci insegna come la presunta inutilità del vivere possa divenire la ragione di vita, sebbene essa comporti lo stare, stanziandosi, sulla via del dolore e della morte.
Camus
domenica 26 dicembre 2010
Il miracolo greco. Riflessioni su 'La nascita della tragedia' di F. Nietzsche
Raramente, nella storia, un’opera è stata peggio accolta de La nascita della tragedia di F. Nietzsche. Pubblicata nel 1876, nel bel mezzo del trionfo della filologia classica tedesca di Wilamowitz, essa subì la sorte tipica delle opere più geniali: non trovò un pubblico in grado di capirla. Tuttora difficilmente gli specialisti del settore riconoscono a Nietzsche il merito di aver rivoluzionato la nostra visione della poesia greca, e della classicità in generale, per il semplice motivo che la sua impostazione, da filologo dissacratore della filologia quale egli era, è filosofica.
Eppure uno dei massimi storici dell’antichità greca, Domenico Musti,[1] promuove oggi una ri-lettura della storia del popolo greco estremamente intelligente, che non sarebbe stata possibile senza la lente rigenerante del grande filosofo tedesco. Musti sostiene che è stato un grave errore, da parte della filologia tradizionale, esaltare il mito del miracolo greco così com’è sempre stato inteso. Nell’immaginario comune e, ahimè, nella convinzione di tanti specialisti, la grecità è da sempre legata al culto dell’armonia, della razionalità, della perfezione ideale, e opere quali il Partenone, il Doriforo di Policleto, l’Atena Parthenos di Fidia, sarebbero espressione compiuta di questa straordinaria capacità di idealizzare.
Ma il vero miracolo è, per Musti, il fatto che questa oltreumana percezione che i Greci avevano dell’armonia presuppone in realtà una drammatica, umanissima coscienza della disarmonia. E’ dall’irrazionalità, dalla contraddizione, dall’eccesso, vissuti consapevolmente nell’immaginario e in tante vicende della storia di questa civiltà, che scaturiscono la razionalità, l’unitarietà, la misura, come miti ideali necessari per vivere quella disarmonia che è il reale. La realtà viene cioè sublimata e diventa un’idea, che in quanto tale non è più reale. Ma senza l’idea, che è un sogno, una visione, l’uomo non potrebbe vivere la realtà, poiché essa lo schiaccerebbe.
Questa lettura presuppone indubbiamente le categorie dell’apollineo e del dionisiaco, così come sono state genialmente pensate da Nietzsche. Egli è stato il primo ad accorgersi che la grecità, la cui più alta espressione è rappresentata dalla tragedia attica del V secolo a. C., tutto è fuorché pura armonia ed apollinea perfezione. E’ illusoria, per Nietzsche, la concezione che abbiamo della religiosità e dell’arte arte greca, le quali sono illusioni esse stesse: l’illusione di chi ha contemplato e conosciuto l’orrore più devastante, l’aspetto più truce e macabro della natura, il volto più dionisiaco dell’essenza, ed è riuscito a sublimarlo creando un ideale kosmos olimpico e una dike divina, e trasfigurandolo nell’arte. Scrive Nietzsche: «Il Greco conobbe e sentì i terrori e le atrocità dell’esistenza: per poter comunque vivere, egli dové porre davanti a tutto ciò la splendida nascita sognata degli dèi olimpici». [2]
Anche l’arte classica, che a noi appare come manifestazione tangibile di una reale percezione dell’armonia, è in realtà il sogno di quell’armonia. L’arte greca è uno specchio trasfiguratore, che trasforma la visione estatica della verità dionisiaca in linguaggio poetico, che è un linguaggio apollineo. Il processo poetico è dunque un processo di sublimazione della disposizione dionisiaca primitiva, una disposizione di tipo musicale, in un’immagine di sogno, che è il riflesso di quel dolore originario trasfigurato nella poesia. Per Nietszche, in definitiva, l’arte possiede un’altissima funzione estetico - salvifica, di cui egli dà una sublime interpretazione: «Nella consapevolezza di una verità ormai contemplata, l’uomo vede ora dappertutto soltanto l’atrocità o l’assurdità dell’essere, ora comprende il simbolismo del destino di Ofelia, ora conosce la saggezza del dio silvestre Sileno: prova disgusto. Ed ecco, in questo estremo pericolo della volontà, si avvicina, come maga che salva e risana, l’arte; soltanto lei è capace di volgere quei pensieri di disgusto per l’atrocità o l’assurdità dell’esistenza in rappresentazioni con cui si possa vivere».[3]
M.B.
"Leggere Chomsky", Capitolo IV
Ancora uno scritto di Chomsky, ancora una riflessione delucidante circa il mondo moderno. In questo articolo il grande linguista chiarisce la sua posizione nei confronti dell'anarchismo (assai diverso dall'anarchia), critica l'assetto democratico, il socialismo e il capitalismo, apre al futuro, auspicando "un sistema in cui la gente" sia "veramente responsabile". Ma perché lo spirito umano possa dirsi vittorioso, oggi più che mai, è necessaria la poesia...
Anarchismo
- Fui attratto dall’anarchismo da giovane teenager e da allora non ho avuto molte ragioni per rivedere quelle prime attitudini. Trovo sensato scoprire e identificare le strutture di autorità, gerarchia e dominazione in ogni aspetto della vita, e sfidarle; a meno che non possa essere data una giustificazione, esse sono strutture illegittime, e dovrebbero essere demolite, per incrementare la libertà umana. Queste strutture includono il potere politico, la proprietà, l’amministrazione, le relazioni tra uomini e donne, tra genitori e figli, il nostro controllo sul destino delle generazioni future e molto altro ancora. Naturalmente queste rimandano alle enormi istituzioni di coercizione e controllo: lo stato, le irresponsabili tirannie private che controllano la maggior parte dell’economia domestica e internazionale, e così via. Ma non solo questo. Ciò che io ho sempre compreso come l’essenza dell’anarchismo è la convinzione che l’onere della prova deve essere a carico dell’autorità, e che essa dovrebbe essere demolita se quell’onere non può essere affrontato.
- La cultura intellettuale generale associa anarchismo con caos, violenza, bombe, disgregazione, e così via. Così la gente è spesso sorpresa quando io parlo positivamente dell’anarchismo e identifico me stesso nelle sue tradizioni portanti. Ma la mia impressione è che anche fra il pubblico generale le idee base diventino ragionevoli, quando le nuvole si allontanano. Naturalmente, quando poi parliamo di materie specifiche (tipo la natura delle famiglie, o nel modo in cui un’economia funzionerebbe in una società più libera e giusta) sorgono le domande e le controversie. Ma è così che deve essere. La fisica non può realmente spiegare come l’acqua scorra dal rubinetto al lavandino. Quando noi ci giriamo verso più complesse e vaste questioni che riguardano il significato dell’umano, la comprensione è molto fievole, e c’è sempre abbondanza di spazio sia per il disaccordo e la sperimentazione, sia per l’esplorazione reale e intellettuale di possibilità che ci aiutino a capire di più.
- Un elemento importante è ciò che viene tradizionalmente chiamato “socialismo libertario”. Ho provato a definire ciò che io intendo con questo termine, sottolineando che esso è molto originale. Io ho preso le idee dagli individui trascinanti del movimento anarchico, che si definiscono socialisti, e che condannano duramente la “nuova classe” di intellettuali radicali che cercano di raggiungere il potere dello stato nel corso della lotta popolare, e diventare così la viziosa “burocrazia rossa” della quale Bakunin ci avvertì. Anche questo è spesso chiamato socialismo, ma io concordo piuttosto con le percezioni di Rudolf Rucker che le tendenze (centrali) nell’anarchismo si ricavano dal meglio dell’Illuminismo e dal pensiero liberale classico. Infatti, ho provato a dimostrare che le dottrine libertarie, che sono particolarmente alla moda negli Stati Uniti e in UK, contrastano distintamente con la dottrina e la pratica marxista-leninista e altre ideologie contemporanee, che mi sembra si riducano tutte ad una difesa dell’una o dell’altra forma di autorità illegittima, abbastanza spesso la reale tirannia.
- Se l’anarchismo potrebbe portare alla dittatura? Prima di tutto distinguiamo anarchismo da anarchia; io non sono a favore di quelli che vogliono fare tutto quello che sentono di fare. L’anarchismo, come io lo concepisco, è un sistema altamente democratico, è un sistema ed è organizzato e strutturato dal basso verso l’alto. Esso è organizzato attraverso l’associazione volontaria, l’accordo, la federazione – dovrebbe essere un sistema altamente strutturato. Ma deve sorgere dal coinvolgimento popolare. Dovrebbe essere un sistema in cui la gente è veramente responsabile.
Democrazia
- La critica della democrazia fra gli anarchici è stata spesso una critica della democrazia parlamentare, come essa è sorta all’interno di società con caratteristiche profondamente repressive. Prendi gli Stati Uniti: la democrazia americana fu fondata sul principio, sottolineato da James Madison nella Constitutional Convention nel 1787, che la prima funzione del governo è difendere la minoranza degli opulenti dalla maggioranza. Egli avvertì che in Inghilterra, in cui c’era l’unico modello quasi democratico di governo a quei tempi, se alla popolazione veniva permessa una opinione negli affari pubblici, il governo avrebbe dovuto implementare la riforma agraria o altre atrocità; e che il sistema americano doveva essere attentamente astuto ad evitare tali crimini contro il diritto di proprietà, che deve essere difeso (infatti deve prevalere). La democrazia parlamentare all’interno di questa infrastruttura merita una chiara critica da parte dei genuini libertari, tralasciando molte altre ingegnose caratteristiche di questo tipo di democrazia– la schiavitù, per menzionarne una, o la schiavitù del lavoro salariato, che fu amaramente condannata dai lavoratori che nemmeno sentirono parlare di anarchismo o comunismo fino al 19° secolo, ed anche più in là.
Marxismo e Leninismo
- Se si intende la sinistra come includente il bolscevismo, allora io vorrei nettamente dissociarmi dalla sinistra. Secondo la mia opinione, Lenin è stato uno dei più grandi nemici del socialismo, per le ragioni che ho discusso.
- Gli avvertimenti di Bakunin riguardo la rossa democrazia che avrebbe istituto il peggiore di tutti i governi dispotici furono detti molto prima di Lenin e furono diretti contro i seguaci di Mr. Marx. C’erano, tuttavia, seguaci di molti differenti tipi; Pannekoek, Luxembourg, Mattick e altri erano davvero lontani da Lenin, e le loro vedute convergevano spesso con elementi di anarco-sindacalismo. Infatti Korsch ed altri scrissero con simpatia della rivoluzione anarchica in Spagna. Ci sono continuità da Marx a Lenin, ma ci sono anche continuità con i marxisti che criticarono aspramente Lenin e il bolscevismo. Il lavoro di Teodor Shanin, negli anni passati, sulle ultime attitudini di Marx riguardo la rivoluzione dei contadini, è molto rilevante. Sono lontano dall’essere uno scolaro di Marx, e preferirei non avventurarmi su nessun giudizio serio sulle continuità che riflettono il “Marx reale”. La mia impressione, per ciò che conta, è che il primo Marx era davvero una figura del tardo Illuminismo, e che l’ultimo Marx era davvero un attivista altamente autoritario, ed un analista critico del capitalismo, che aveva poco da dire sulle alternative socialiste. Ma queste sono solo mie impressioni.
Il futuro
- La mia risposta alla fine della tirannia sovietica fu simile alla mia reazione alla disfatta di Hitler e Mussolini. In tutti i casi è una vittoria per lo spirito umano. Dovrebbe essere particolarmente benvenuta ai socialisti, visto che un grande nemico del socialismo è finalmente collassato. Anch’io sono rimasto incuriosito nel vedere come la gente – compresa gente che si considerava anti-stalinista e anti-leninista – rimase demoralizzata per il collasso della tirannia. Ciò rivela che essi erano profondamente legati al leninismo più di quanto credevano.
Capitalismo
- Ciò che è chiamato capitalismo è basilarmente un sistema di mercantilismo corporativo, con grandi e incalcolabili tirannie private che esercitano un vasto controllo sull’economia, il sistema politico, la vita sociale e culturale, e che operano in cooperazione con potenti stati che intervengono massivamente nell’economia domestica e nella società internazionale. Questo è drammaticamente vero per gli Stati Uniti, contrariamente alle illusioni. I ricchi ed i privilegiati non hanno più la volontà per fronteggiare la disciplina del mercato come hanno fatto in passato, sebbene essi la considerino giusta per la popolazione generale. Meramente per citare poche illustrazioni, l’amministrazione Reagan, la quale si dilettò nella retorica del libero mercato, si vantò anche con la comunità affaristica di essere l’amministrazione più protezionistica del dopoguerra negli Stati uniti– attualmente più di tutte le altre messe insieme. Newt Gingrich, che porta avanti la corrente crociata, rappresenta un distretto super ricco che riceve più sussidi federali di ogni altre regione suburbana nel paese, fuori delle stesso sistema federale. I conservatori che stanno chiedendo la sospensione dei pasti nelle scuole per gli studenti, stanno anche domandando un incremento del budget per il Pentagono, che fu stabilito nella sua forma corrente alla fine degli anni ’40, perché l’industria dell’alta tecnologia non può sopravvivere in una economia della libera impresa pura, competitiva e non sovvenzionata, e il governo deve essere il suo salvatore. Senza il salvatore, i costituenti di Gingrich sarebbero povera gente lavoratrice (se fossero fortunati). Non ci sarebbero computer, elettronica generale, industria dell’aviazione, metallurgia, automazione, eccetera.
- Ora più che mai le idee socialiste libertarie sono rilevanti, e la popolazione è molto aperta verso di esse. A dispetto della enorme massa di propaganda, al di fuori dei circoli colti, la gente mantiene abbastanza la propria tradizionale attitudine. Negli Stati Uniti, ad esempio, l’80% della gente vede il sistema economico come innatamente ingiusto e il sistema politico come una frode, che favorisce gli interessi speciali, non la gente. La maggioranza schiacciante della popolazione pensa che i lavoratori hanno troppa poca voce negli affari pubblici (la stessa cosa è vera anche per l’Inghilterra), che il governo ha la responsabilità di assistere la gente nei loro bisogni, che spendere per l’educazione e la salute ha la precedenza sui tagli al budget e alle tasse, che gli attuali propositi repubblicani che stanno navigando attraverso il congresso beneficiano il ricco e danneggiano la popolazione generale, e così via. Gli intellettuali possono raccontare una storia differente, ma non è molto difficile scoprire i fatti.
sabato 25 dicembre 2010
"Sia dato credito alla poesia"
Ho sentito parecchia gente dire: 'Cos'è la poesia in fin dei conti? Niente. Uno scherzo. Un gioco'. Questi maestri del materialismo stupido e beffardo (e direi anche infingardo) credono che la loro tesi sia legittimata dalla cosiddetta verifica storica: la poesia non esiste perché non si vede e, di certo, non influenza la storia. Non tirerò in ballo la consueta arringa heideggeriana sul fatto che sia proprio la poesia a fondare la storia, dirò soltanto, facendo il verso al professor Keating ('L'attimo fuggente'): Non leggiamo e scriviamo poesie perché è carino: noi leggiamo e scriviamo poesie perché siamo membri della razza umana. E aggiungo: noi leggiamo e scriviamo poesie perché la bellezza ci ditta dentro una parola che non è simpatica o scherzosa, e nemmeno tetra o tragica: è una parola per cui chi parla non può tacere. Nella vita di tutti i giorni quanti discorsi inutili e quante discussioni vane sentiamo! Mai nessuno che dica la parola giusta... La poesia non è un verboso cianciare a sproposito, ma è un mettersi in ascolto di ciò che dice il Lògos. Esso ci chiama, e noi rimaniamo in silenzio. Ciò che udiamo non è una musica inebriante o un fracasso debordante: è la Parola stessa che dichiara la verità sull'essere. Pertanto rispondiamo con Heaney a quei barbari che cercano di distoglierci dalla poesia: sia dato credito alla poesia, e non alle vostre sciocchezze e alle vostre manchevolezze di spirito. Sia dato credito a ciò che bisbiglia, e non alle baraonde sonore. Sia dato credito alla verità per mezzo della bellezza, giacché, sosteneva Keats, 'Beauty is Truth, Truth Beauty'. Perciò rimaniamo in silenzio ed ascoltiamo ciò che la Lingua ha da dirci. Diamo credito alla poesia.
Camus
giovedì 23 dicembre 2010
"Leggere Chomsky", Capitolo III, parte III
Una schiera di nemici
Anziché parlare dell'ultima guerra, vorrei parlare della prossima, perché è meglio essere preparati al futuro che ci attende. Oggi negli Stati Uniti è in atto un processo molto particolare, che per la verità si è già osservato in altri paesi: i problemi sociali ed economici si stanno aggravando con effetti potenzialmente catastrofici; coloro che detengono il potere non hanno alcuna intenzione di intervenire. Se si esaminano i programmi di politica interna dei governi dell'ultima quindicina d'anni (compresi quelli in cui il partito democratico era all'opposizione) non si trovano proposte concrete di intervento sui gravi problemi del sistema sanitario e scolastico, delle abitazioni, della disoccupazione, della criminalità, del vertiginoso aumento della delinquenza e della popolazione carceraria, del deterioramento dei centri urbani.
Nei primi due anni in cui George Bush è stato alla presidenza, tre milioni di bambini hanno oltrepassato la soglia della povertà, il debito è cresciuto sensibilmente, il sistema scolastico si è trovato sempre più in crisi, i salari reali sono rimasti pari a quelli della fine degli anni cinquanta per la maggior parte della popolazione e nessuno ha fatto niente. In tali circostanze bisogna distrarre il gregge smarrito perché, se si rende conto della situazione, potrebbe non accettare di subirne le conseguenze. Il campionato di calcio e le sitcom potrebbero non bastare più. Bisogna incitarlo ad avere paura dei nemici.
Negli anni trenta Hitler spinse i tedeschi ad avere paura degli ebrei e degli zingari: per difendersi bisognava sterminarli. Anche noi americani abbiamo i nostri metodi: nell'ultimo decennio, ogni uno o due anni, è stato inventato un grande mostro da cui era necessario difendersi. Eravamo abituati ad averne uno sempre a disposizione: l'Unione Sovietica. Ma poi come nemici i russi hanno perso la loro attrattiva, e siccome diventava difficile usarli a quello scopo, occorreva tirare fuori dal cappello qualche nemico nuovo. In realtà, George Bush è stato ingiustamente criticato per non aver saputo spiegare chiaramente come stavano le cose. Prima della metà degli anni ottanta, la minaccia era sempre la stessa: i russi. Poi quella minaccia non ha più avuto senso e Bush ha dovuto trovarne di nuove, come aveva fatto l'apparato di pubbliche relazioni di Reagan in precedenza. Alla conquista del mondo ci furono allora i terroristi internazionali, i narcotrafficanti, gli arabi impazziti e Saddam Hussein, il nuovo Hitler, uno dopo l'altro. Spaventate la popolazione, terrorizzatela, fatela sentire minacciata in modo che se ne stia chiusa in casa e non osi spostarsi. Poi ottenete una gloriosa vittoria su Grenada, Panamà o qualche altro esercito indifeso del Terzo mondo che riuscirete a polverizzare prima ancora di averlo visto schierato: proprio come è avvenuto. Allora ci sarà un sospiro di sollievo: siamo stati salvati all'ultimo minuto. Questo è uno dei modi in cui potete impedire al gregge smarrito di prestare attenzione a quanto sta realmente accadendo, distrarlo e controllarlo. Il prossimo mostro a entrare in scena sarà, molto probabilmente, Cuba: bisognerà continuare la guerra economica illegittima e probabilmente recuperare il terrorismo internazionale, riportandolo ai livelli dell'operazione Mongoose, organizzata dall'amministrazione Kennedy ai danni dell'isola, rimasta ineguagliata, salvo forse per la guerra contro il Nicaragua (per chi vuole considerarla terrorismo; la Corte mondiale in realtà l'ha trovata più simile a un'aggressione). C'è sempre un'offensiva ideologica che costruisce un mostro, e poi organizza una campagna militare al fine di annientarlo. Se il nemico è in grado di difendersi, questa strategia diventa troppo pericolosa; ma se c'è la certezza di poterlo sconfiggere, allora si parte all'attacco e tutti potranno tirare un sospiro di sollievo per lo scongiurato pericolo.
Una percezione selettiva
È una storia che sta andando avanti da un bel po'. Nel maggio del 1986 furono pubblicate le memorie di un ex prigioniero cubano, Armando Valladares, che divennero subito un evento sensazionale per i media. Riporto un paio di citazioni. I giornali definirono le sue rivelazioni come "il resoconto definitivo del vasto sistema di torture e prigionia con il quale Castro punisce e cancella l'opposizione politica". "Una indimenticabile, appassionante testimonianza" delle "prigioni bestiali", delle "torture disumane [e] delle violenze di stato [compiute da] uno dei tanti genocidi di questo secolo" che, come abbiamo finalmente appreso da questo libro, "ha creato un nuovo dispotismo che ha istituzionalizzato la tortura come meccanismo di controllo sociale" in quell'inferno che era la Cuba in cui viveva [Valladares]". Così hanno scritto il Washington Post e il New York Times in diverse recensioni. Castro era descritto come un "kapo dittatoriale". Le sue atrocità erano rivelate in quel libro in modo così evidente che "soltanto i più vacui e freddi tra gli intellettuali occidentali prenderanno le difese del tiranno", scrisse il Washington Post. Ricordate, questo è il racconto di quanto accadde a un solo uomo. Supponiamo pure che sia tutto vero; non mettiamo in dubbio quel che è accaduto all'unico cubano che afferma di essere stato torturato. Alla cerimonia celebrativa per il giorno dei diritti umani, tenutasi alla Casa Bianca, Valladares fu ricordato da Ronald Reagan per il suo coraggio nel resistere agli orrori e al sadismo di quel sanguinano tiranno cubano. Quindi fu designato rappresentante degli USA presso la Commissione delle Nazioni Unite per i diritti umani, dove ha potuto rendere un buon servizio in difesa dei governi salvadoregno e guatemalteco, accusati di avere commesso atrocità tanto terribili da far apparire insignificanti, al confronto, quelle da lui subite. Così va il mondo.
Era il maggio del 1986. È un caso interessante e mette in luce il meccanismo della fabbrica del consenso. Quello stesso mese, i membri sopravvissuti del Gruppo per i diritti umani del Salvador (i leader erano stati assassinati) furono arrestati e torturati, incluso Herbert Anaya, che ne era il capo. Furono rinchiusi nella prigione di La Esperanza, e da lì continuarono la loro attività in difesa dei diritti umani. Erano avvocati, e riuscirono a raccogliere dichiarazioni giurate. In quella prigione c'erano quattrocentotrentadue prigionieri, e loro ne raccolsero quattrocentotrenta, firmate, nelle quali i detenuti descrivevano, sotto giuramento, le sevizie cui erano stati sottoposti: tortura elettrica e altre atrocità, compresa, in un caso, la tortura praticata da un maggiore statunitense in uniforme, che viene descritto dettagliatamente. Si tratta di una testimonianza insolitamente esplicita ed esauriente, forse unica per la ricchezza di dettagli su quanto avviene in una camera di tortura.
Questo rapporto di centosessanta pagine fu fatto uscire dalla prigione, assieme a una videocassetta con le testimonianze registrate che fu distribuita dalla Marin County Interfaith Task Force. La stampa nazionale si rifiutò di scriverne. Le stazioni televisive rifiutarono di trasmettere il video. Ci fu un articolo sul giornale locale di Marin County, il San Francisco Examiner, e credo che sia stato l'unico. Nessun altro volle farsi coinvolgere. In quel periodo c'era più di un "intellettuale occidentale vacuo e dal cuore freddo" a cantare le lodi di José Napoleòn Duarte e di Ronald Reagan. Ad Anaya non fu tributato alcun onore, non fu invitato nel giorno dei diritti umani, non gli fu attribuita alcuna carica. Fu rilasciato in occasione di uno scambio di prigionieri e in seguito assassinato, a quanto pare dai militari spalleggiati dagli Stati Uniti. Anche di questo è stata data scarsa notizia. I media non si chiesero mai se la divulgazione delle atrocità (anziché la censura e il silenzio) avrebbe potuto salvargli la vita.
Questo esempio lascia ben intendere come opera un sistema di fabbricazione del consenso efficiente. Paragonate alle rivelazioni di Herbert Anaya sul Salvador, le memorie di Valladares sono ben poca cosa. Ma loro devono condurci un passo alla volta verso la prossima guerra, e sono convinto che si parlerà sempre più di questo caso, finché si arriverà a un conflitto.
A tale proposito, vorrei ritornare allo studio dell'università del Massachusetts già citato, che trae interessanti conclusioni. I ricercatori chiedevano agli intervistati se pensavano che gli Stati Uniti dovessero intervenire con la forza in caso di occupazioni illegittime o di gravi abusi dei diritti umani. All'incirca due su tre pensavano di sì: l'America doveva usare la forza nel caso di occupazione illegittima di territori o di abusi gravi dei diritti umani. Se dovessero seguire quel parere, gli Stati Uniti dovrebbero bombardare El Salvador, Guatemala, Indonesia, Damasco, Tel Aviv, Città del Capo, Turchia, Washington e un lungo elenco di altri stati, tutti colpevoli di occupazione illegittima, aggressione e gravi abusi. Se conoscete questi casi, saprete benissimo che l'aggressione e le atrocità commesse da Saddam Hussein rientrano ampiamente nella media, non sono di certo le più gravi. Ma perché nessuno arriva a questa conclusione? La ragione è che nessuno conosce la realtà dei fatti. In un sIstema di propaganda efficiente nessuno sa a che cosa mi riferisco quando cito questi esempi. Ma se qualcuno si preoccuperà di verificarli, vedrà che sono significativi.
Prendiamone uno che ha rischiato vergognosamente di venire alla luce durante la guerra del Golfo. In febbraio, nel pieno dei bombardamenti, il governo del Libano ha richiesto a Israele di osservare la risoluzione 425 del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite, che lo esortava a ritirarsi immediatamente e senza condizioni dal suo territorio. La risoluzione risaliva al marzo del 1978. Da allora ci furono altre due risoluzioni che chiedevano il ritiro immediato e incondizionato di Israele dal Libano. Naturalmente non sono state osservate perché gli Stati Uniti appoggiano l'occupazione israeliana del territorio libanese. Anche adesso il Sud del Libano vive nel terrore: ci sono grandi camere di tortura in cui accadono cose atroci, e la zona viene usata come base per attaccare le altre parti del paese. Dopo il 1978 il Libano fu invaso, la città di Beirut bombardata, circa ventimila persone, di cui l'80 percento civili, furono uccise, gli ospedali distrutti; terrore, saccheggi e rapine devastarono il paese. Ma gli Stati Uniti erano d'accordo, perciò andava tutto bene. E questo è solo un caso. I media tacquero, né vi fu alcun dibattito sulla risoluzione 425 del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite o su tutte le altre risoluzioni ignorate da Israele e dagli Stati Uniti; nessuno ha chiesto il bombardamento di Tel Aviv, come ci si sarebbe dovuti aspettare stando ai risultati della ricerca effettuata dall'università del Massachusetts. Dopotutto si trattava di occupazione illegittima e di gravi abusi dei diritti umani. E questo è solo un caso, ce ne sono di molto peggiori. L'invasione indonesiana di Timor Est ha causato quasi duecentomila vittime. Le altre sembrano poca cosa rispetto a questa, che fu ed è ancora fortemente appoggiata dagli Stati Uniti grazie all'impegno diplomatico e militare americano. E potrà continuare per molto tempo.
La guerra del Golfo
Questo spiega come opera un sistema di propaganda ben funzionante. La popolazione può credere che quando aggrediamo militarmente l'Iraq lo facciamo perché osserviamo il principio secondo cui l'occupazione illegittima e l'abuso dei diritti umani devono essere contrastati con la forza. Grazie all'effetto della propaganda non ci si accorge di che cosa accadrebbe se quei principi venissero applicati al comportamento degli Stati Uniti.
Consideriamo ora un altro esempio. Se si osservano attentamente i resoconti dei media sulla guerra dall'agosto del 1990 ci si accorge che mancano due voci importanti. In Iraq c'è un'opposizione democratica, molto coraggiosa e concreta. I suoi membri naturalmente agiscono in esilio, perché in patria non potrebbero sopravvivere. Stanno soprattutto in Europa, sono banchieri, ingegneri, architetti. Sono organizzati e hanno dei rappresentanti. Il febbraio dell'anno precedente, quando Saddam Hussein era ancora amico prediletto e partner commerciale di George Bush, si presentarono a Washington, secondo le fonti dell'opposizione democratica irachena, per chiedere un appoggio alla loro richiesta di una democrazia parlamentare in Iraq. Furono respinti brutalmente, perché gli Stati Uniti non erano interessati al progetto. Nel dibattito pubblico non vi fu alcuna reazione.
Da agosto divenne un po' più difficile ignorare la loro esistenza: allora, dopo averlo sostenuto per molti anni, gli Stati Uniti si schierarono improvvisamente contro Saddam Hussein. Gli oppositori democratici iracheni avrebbero avuto qualcosa da dire, e sarebbero stati felici di vedere Saddam Hussein sconfitto: aveva ucciso i loro fratelli, torturato le loro sorelle e li aveva cacciati dal loro paese. Avevano combattuto contro di lui per tutto il periodo in cui Ronald Reagan e George Bush lo avevano colmato di gentilezze. Cosa ne è stato delle loro voci? Date un'occhiata ai media nazionali e vedete quante notizie riuscite a trovare sull'opposizione democratica in Iraq dall'agosto del 1990 al marzo del 1991: neppure una parola. Non perché non avessero nulla da dire: avevano dichiarazioni, proposte, appelli e richieste che coincidono precisamente con quelle del movimento pacifista statunitense. Erano contro Saddam Hussein e contro la guerra all'Iraq, non volevano che il loro paese venisse distrutto, chiedevano una soluzione pacifica e sapevano perfettamente che era possibile ottenerla. Ma queste erano idee sbagliate e quindi dovevano essere ignorate. Per saperne qualcosa bisognerebbe consultare la stampa tedesca o quella inglese. Non dicono molto, ma sono meno controllate di quella americana.
Anche questo è un grande risultato della propaganda. Innanzitutto, perché le voci dei democratici iracheni sono state completamente ignorate, e poi perché nessuno si è reso conto della censura. Anche questo è un dato interessante: solo una popolazione profondamente indottrinata poteva non accorgersi del silenzio dell'opposizione democratica irachena e non chiedersene il perché, che è ovvio: perché l'opposizione democratica in Iraq si trova sulle stesse posizioni del movimento internazionale per la pace.
Consideriamo ora le ragioni addotte dagli Stati Uniti per giustificare la guerra: l'aggressione di Saddam al Kuwait deve essere respinta con l'immediato ricorso alla violenza. Queste erano le ragioni, e nessun'altra è stata avanzata. Ma sono credibili? Gli Stati Uniti sostengono davvero questi principi? Non voglio far torto all'intelligenza dei lettori spiegando come si sono svolti i fatti, ma quelle ragioni possono essere confutate in due minuti da un bravo studente di scuola superiore. E tuttavia, nessuno lo ha mai fatto pubblicamente. Basta guardare ai media, ai commentatori e ai critici di sinistra, a coloro che hanno fatto dichiarazioni al Congresso, per constatare che nessuno ha messo in dubbio l'assunto che gli Stati Uniti sono fedeli a quei principi. L'America si è forse opposta alla sua stessa aggressione contro Panamà e ha deciso di bombardare Washington per contrastarla? Quando l'occupazione sudafricana della Namibia è stata dichiarata illegittima nel 1969, gli Stati Uniti hanno forse imposto un embargo su alimenti e medicinali? hanno dichiarato guerra? hanno bombardato Città del Capo? No, sono andati avanti per vent'anni con "pacifica diplomazia". La storia africana in quei vent'anni è stata drammatica. Solo nel periodo della presidenza di Reagan e di Bush circa un milione e mezzo di persone sono state uccise dalle milizie sudafricane nei paesi circostanti. Ma non importa, quel che accadde in Sudafrica e in Namibia non ha offeso le nostre anime sensibili. Abbiamo continuato con "pacifica diplomazia" e alla fine abbiamo ricompensato generosamente gli aggressori assicurando loro l'accesso al porto principale della Namibia e molti vantaggi che tenevano conto dei loro interessi in materia di sicurezza. Dov'erano i principi a cui siamo fedeli? È un gioco da ragazzi dimostrare che non è possibile invocare quei principi come ragioni per entrare in guerra, dato che non è vero che li difendiamo. Ma nessuno l'ha fatto: questo è il dato importante. E nessuno si è preso il disturbo di trarre la seguente conclusione: non è stata data alcuna ragione valida per l'entrata in guerra. Come ho già detto, questa è la prerogativa di una cultura totalitaria. Dovrebbe spaventarci il fatto di vivere in un paese che riesce a farci accettare una guerra ingiustificata, senza informarci sulle richieste o sugli interessi del Libano. Dovremmo trovarlo molto sorprendente.
Poco prima dell'inizio dei bombardamenti, a metà gennaio, un importante sondaggio del Washington Post e della ABC ha rivelato qualcosa di interessante. Alle persone veniva domandato: "Sareste favorevoli al ritiro dell'Iraq dal Kuwait in cambio dell'assicurazione che il Consiglio di sicurezza prenderà in esame il problema del conflitto araboisraeliano?". All'incirca due persone su tre erano favorevoli, come in tutto il resto del mondo, inclusa l'opposizione democratica irachena. E così il risultato del sondaggio fu reso pubblico. Presumibilmente ogni persona che si era pronunciata a favore credeva di essere la sola al mondo ad avere quell'opinione, dato che nessuno l'aveva sostenuta sui giornali. Gli ordini di Washington erano stati chiari, ci si aspettava che fossimo contro la diplomazia, e tutti marciavano al passo dell'oca eseguendo gli ordini. Cercando sulla stampa si può trovare una colonna di Alex Cockburn sul Los Angeles Times, che giudicava quella diplomatica la strada migliore. Chi rispondeva affermativamente al questionario pensava: questo è ciò che penso, ma lo penso solo io. Supponiamo però che sapessero di non essere i soli, che altri la pensavano così, per esempio l'opposizione democratica irachena. Supponiamo che sapessero che la domanda non era ipotetica, che l'Iraq aveva avanzato davvero quella proposta, come avevano riferito alti ufficiali statunitensi otto giorni prima, il 2 gennaio: l'Iraq era disposto a ritirarsi totalmente dal Kuwait se in cambio il Consiglio di sicurezza avesse preso in esame il conflitto araboisraeliano e il problema delle armi di distruzione di massa. Gli Stati Uniti avevano già rifiutato di negoziare quella richiesta ben prima dell'invasione del Kuwait. Supponiamo che la gente avesse saputo che quell'offerta era davvero sul tavolo delle trattative, che era appoggiata da più parti e che di fatto era l'unica cosa che ogni persona razionale e interessata alla pace potesse considerare, come accade nei rari casi in cui vogliamo davvero respingere un'aggressione. Supponiamo che tutto questo si sapesse. Si possono avanzare altre ipotesi, ma la mia è che i due terzi sarebbero probabilmente saliti fino al 98 percento della popolazione. Ed ecco i grandi successi della propaganda. Probabilmente tutte le persone che hanno risposto al sondaggio ignoravano i fatti che ho menzionato e credevano che nessuno condividesse la loro opinione. Per questo fu possibile procedere con la politica di guerra senza incontrare opposizione.
Si è molto discusso dell'efficacia delle sanzioni, e anche il capo della CIA è intervenuto sull'argomento, però non c'è stato alcun dibattito riguardo a un interrogativo molto più ovvio: le sanzioni si erano già dimostrate efficaci? La risposta è sì, era evidente che avevano già avuto effetto, forse dalla fine di agosto, o più probabilmente dalla fine di dicembre. Era difficile trovare altre ragioni che spiegassero le offerte di ritirata dell'Iraq, certificate e in qualche caso riferite da alti funzionari degli Stati Uniti, che le definivano "serie e "negoziabili". Quindi la vera domanda è: le sanzioni avevano già funzionato? C'era una via d'uscita? C'era una soluzione pacifica accettabile per la popolazione, per il resto del mondo e per l'opposizione democratica irachena? Queste domande non sono state poste ed è d'importanza cruciale per un sistema di propaganda efficace che non siano state discusse. Questo ha permesso a Clayton Yeutter, presidente del Comitato nazionale repubblicano, di affermare che, se alla presidenza ci fosse stato un democratico, il Kuwait oggi non sarebbe libero. Ha potuto affermarlo senza che nessun esponente del partito democratico replicasse che se ci fosse stato uno di loro alla presidenza il Kuwait sarebbe stato liberato almeno sei mesi prima, perché avrebbero colto le opportunità che si erano create, e sarebbe stato liberato senza che decine di migliaia di persone restassero uccise e senza che si provocasse una catastrofe ambientale. Nessun democratico ha replicato così, perché nessun democratico aveva preso quella posizione. Henry Gonzalez e Barbara Boxer sono stati gli unici a farlo, ma è stata una posizione così marginale da risultare inesistente. Così, Clayton Yeutter è stato libero di fare la sua affermazione.
Quando i missili Scud hanno colpito Israele, nessuno sulla stampa ha applaudito. Anche questo è un fatto interessante dal punto di vista propagandistico. Ci si può chiedere, perché no? Dopotutto, gli argomenti di Saddam Hussein erano validi tanto quanto quelli di Bush. Consideriamo per esempio il Libano. Saddam Hussein afferma di non poter accettare che Israele si impossessi del territorio libanese, delle alture del Golan siriane e di Gerusalemme Est, andando contro la decisione unanime del Consiglio di sicurezza. Non può accettare l'annessione né l'aggressione. Israele occupa il Libano meridionale dal 1978 in violazione delle risoluzioni del Consiglio di sicurezza che rifiuta di osservare. Durante tutto questo periodo ha attaccato il resto del Libano, ha sganciato bombe in quantità sulla maggior parte del territorio. Saddam non può sopportarlo. Forse ha letto il rapporto di Amnesty International sulle atrocità compiute dagli israeliani nella West Bank. Il suo cuore sanguina, non può sopportarlo. Le sanzioni non hanno efficacia perché gli Stati Uniti pongono il loro veto. I negoziati non vanno avanti perché gli Stati Uniti li bloccano. Cosa rimane se non la forza? Ha aspettato per anni: tredici nel caso del Libano, venti in quello della West Bank. È un argomento noto: la sola novità è che Saddam Hussein poteva veramente affermare che le sanzioni e i negoziati erano privi di efficacia perché gli Stati Uniti li bloccavano, mentre George Bush non avrebbe potuto dirlo, perché le sanzioni a quanto pare avevano funzionato e c'erano tutti i motivi per credere che i negoziati avrebbero funzionato: a parte il fatto che lui rifiutava incondizionatamente di portarli avanti, affermando chiaramente che non ci sarebbero stati affatto. La stampa ne ha forse dato notizia? No. E una cosa da niente, ma nessuno l'ha segnalata nessun commentatore, nessun editorialista. E anche questo è segno di una cultura totalitaria ben gestita. E' la prova che la fabbrica del consenso funziona bene.
Un ultimo commento a questo proposito. Potremmo portare molti altri casi, e potrete trovarne anche da soli. Prendete per esempio l'idea che Saddam Hussein sia un mostro deciso a conquistare il mondo, ampiamente diffusa negli Stati Uniti, e non per mancanza di senso della realtà, dato che è stata inculcata alla gente di continuo: l'Iraq vuole prendersi tutto, noi dobbiamo fermarlo subito. Nessuno si chiede come ha fatto a diventare così potente? Si tratta di un piccolo paese del Terzo mondo, privo di una base industriale. Per otto anni è stato in guerra con l'Iran postrivoluzionario, che aveva decimato i suoi ufficiali e buona parte delle sue forze militari. In quella guerra, l'Iraq aveva avuto un appoggio notevole dall'Unione Sovietica, dagli Stati Uniti, dall'Europa, dai principali paesi arabi e dai produttori arabi di petrolio, ma non era riuscito a sconfiggere l'Iran. E d'un tratto è pronto per conquistare il mondo. Avete mai sentito qualcuno sottolineare questa contraddizione? La realtà è che si tratta di un paese del Terzo mondo con un esercito di contadini. Adesso si comincia a riconoscere che c'è stata una certa disinformazione riguardo alle forze armate o alle armi chimiche di cui disporrebbe. Ma qualcuno lo ha mai fatto notare? No. E tipico: una situazione analoga si era già verificata un anno prima con Manuel Noriega. Manuel Noriega è un delinquente di second'ordine in confronto agli amici di George Bush, Saddam Hussein o quello di Pechino, o allo stesso George Bush. Vicino a loro, Manuel Noriega sembra un teppistello. Certo è cattivo, ma non è un criminale su scala mondiale del tipo che piace a noi. È stato trasformato in un mostro gigantesco che stava per distruggerci, alla guida dei narcotrafficanti. Abbiamo dovuto muoverci in fretta e sconfiggerlo, uccidendo un paio di centinaia, o forse di migliaia, di persone, riportando al potere l'oligarchia bianca, che rappresenta forse l'8 percento della popolazione, e piazzando ufficiali statunitensi a controllare ogni livello del sistema politico. Abbiamo dovuto fare tutte queste cose perché, dopotutto, dovevamo salvarci o saremmo stati distrutti dal mostro. Un anno dopo si è fatto lo stesso con Saddam Hussein. Qualcuno lo ha osservato? Qualcuno ha commentato quanto era avvenuto o perché? Bisognerà fare lunghe ricerche per scoprirlo.
È bene osservare che tutto questo non e molto diverso da quanto fece la Commissione Creel quando trasformò una popolazione pacifista in un popolo di fanatici che volevano distruggere tutto ciò che era tedesco per salvarsi dagli unni che strappavano le braccia ai bambini belgi. Le tecniche sono forse più sofisticate, grazie soprattutto ai media e ai soldi impiegati, ma il meccanismo è dei più tradizionali.
Per tornare alla mia idea di partenza, non si tratta soltanto di disinformazione, né il problema è limitato a quanto è accaduto durante la crisi del Golfo. L'interrogativo è di portata molto più ampia: si tratta di capire se vogliamo vivere in una società libera oppure in un regime che corrisponde di fatto a un totalitarismo autoimposto, con il "gregge smarrito" ridotto ai margini, sviato, terrorizzato, che urla slogan patriottici, teme inutilmente per la propria vita e ha timore reverenziale del leader che lo ha salvato dalla distruzione, mentre le masse colte marciano al passo dell'oca ripetendo gli slogan che hanno imparato, e la società si corrompe. Finiremo per diventare uno stato gendarme mercenario, sempre in attesa che qualcuno ci assoldi per distruggere il mondo. Questi sono i possibili sviluppi che ci troviamo di fronte. La risposta è nelle mani di persone voi e come me.
Tratto da: Noam Chomsky "Atti di aggressione e di controllo" - Marco Tropea Editore
"Leggere Chomsky", Capitolo III, parte II
Si continua con la pubblicazione di testi sconvolgenti sulla politica Usa e la società moderna.
Le pubbliche relazioni
Gli Stati Uniti sono stati i pionieri dell'industria delle pubbliche relazioni, il cui scopo, come sostenevano i capi, era "controllare la mente del popolo". Impararono moltissimo dalla Commissione Creel, dalla creazione del "terrore rosso" e da quel che ne seguì. L'industria delle pubbliche relazioni negli anni venti conobbe un'enorme espansione e per qualche tempo riuscì a indurre nel popolo una sottomissione pressoché totale al dominio degli affari. Fu un fatto talmente clamoroso che i comitati del Congresso cominciarono a studiarlo nel decennio successivo; da questi studi proviene la maggior parte delle informazioni in nostro possesso.
Quella delle pubbliche relazioni è un'industria immensa, che attualmente può contare su un budget dell'ordine di un miliardo di dollari all'anno. Il suo scopo è sempre stato quello di controllare l'opinione pubblica. Negli anni trenta si dovettero affrontare di nuovo problemi gravi, analoghi a quelli del periodo della Prima guerra mondiale. Era l'epoca della grande depressione e i lavoratori stavano conducendo una dura lotta in difesa dei loro diritti. Nel 1935, con la Legge Wagner, ottennero la prima importante vittoria sul piano legislativo: il diritto di organizzarsi. Questo poneva seri problemi. Innanzitutto, la democrazia era in pericolo: al gregge era stato riconosciuto un diritto, e questo non era previsto; il popolo che doveva restare diviso, segregato, isolato, in breve tempo avrebbe potuto organizzarsi e diventare qualcosa di diverso da un semplice spettatore. Se molte persone dotate di risorse limitate riescono a unirsi e a entrare nell'arena politica, il popolo può assumere un ruolo attivo nella società, e questa è una minaccia terribile. Il mondo degli affari reagì energicamente per far sì che quella fosse l'ultima vittoria dei lavoratori, l'inizio della fine della deviazione democratica rappresentata dall'organizzazione popolare. E così fu. Da allora in poi (benché il numero degli iscritti ai sindacati per un breve periodo durante la Seconda guerra mondiale sia cresciuto), la capacità di azione attraverso i sindacati cominciò a diminuire costantemente a opera della comunità degli affari, che ancora oggi investe cifre enormi e mette a punto attente strategie per risolvere quel genere di problemi attraverso l'industria delle pubbliche relazioni e altre organizzazioni, come la National Association of Manufacturers (Associazione nazionale degli industriali) e la Business Roundtable, che all'epoca si misero immediatamente al lavoro per cercare il modo di contrastare le deviazioni democratiche.
La prima prova si ebbe nel 1937. I lavoratori delle acciaierie di Johnstown, nella Pennsylvania occidentale, avevano dato inizio a un importante sciopero. Il mondo degli affari sperimentò una nuova tecnica di distruzione dell'organizzazione operaia, che diede ottimi risultati: abbandonate le squadre di crumiri e di picchiatori, che comunque non sortivano grandi effetti, passò alle armi più sottili ed efficaci della propaganda. Bisognava indurre il popolo a schierarsi contro gli scioperanti, presentando la loro lotta come un'attività distruttiva, dannosa per la società e nociva all'interesse comune, che riguarda "tutti noi", uomini d'affari, lavoratori, casalinghe; "noi vogliamo sentirci uniti, crediamo nell'armonia e nello spirito americano, mentre all'infuori di "noi" ci sono gli scioperanti, che causano distruzione e provocano incidenti, infrangono l'armonia sociale e violano lo spirito americano. Per questi motivi devono essere fermati. Il dirigente d'azienda e il ragazzo che lava i pavimenti hanno gli stessi interessi: il messaggio, essenzialmente, era questo. Per far sì che il popolo, inconsciamente, lo interiorizzasse, la comunità degli affari che controllava i media e disponeva di ingenti risorse compì uno sforzo enorme. E il metodo si dimostrò molto efficace; in seguito fu chiamato "formula della valle di Mohawk" e venne applicato di frequente, diventando uno dei "metodi scientifici per far fallire gli scioperi", attraverso i quali si mobilita l'opinione pubblica in nome di principi insulsi e vuoti come lo spirito americano (chi può contestarlo?), l'armonia (chi può essere contrario?) oppure, come nel caso della guerra del Golfo, l'appoggio alle truppe (chi può rifiutarlo?).
Ma cosa significa, per esempio, la domanda: "Lei appoggia la popolazione dell'Iowa?". Si può rispondere: "Sì, la appoggio" oppure: "No, non la appoggio", ma il punto essenziale è che la domanda non ha alcun senso. Lo stesso vale per gli slogan della propaganda, del tipo "Appoggia le nostre truppe": non significano nulla. E come affermare di appoggiare la popolazione dell'Iowa. In realtà questa domanda ne sottende un'altra, che si può formulare così: "Lei appoggia la nostra politica?". Dunque la vera domanda è indiretta e questa è l'essenza della propaganda efficace: creare uno slogan su cui nessuno dissenta per avere il consenso di tutti. Nessuno può capire che cosa significa, perché non significa nulla; il suo valore essenziale consiste nel distogliere l'attenzione da questioni che, al contrario, sono di fondamentale importanza: "Lei appoggia la nostra politica?". Ma di questo non è permesso parlare, mentre si esprime il proprio inevitabile appoggio ai soldati; e lo stesso vale per lo spirito americano e l'armonia. Restiamo uniti, assicuriamoci di non avere attorno gente cattiva che distrugge la nostra armonia con discorsi sulla lotta di classe, sui diritti dei lavoratori e via dicendo.
Il metodo è talmente efficace che funziona ancora oggi, perfezionato grazie a raffinati accorgimenti. Quelli che lavorano nell'industria delle pubbliche relazioni hanno uno scopo preciso: cercano di inculcare al popolo i valori giusti e hanno una loro idea di come dev'essere la democrazia: un sistema in cui la classe specializzata è addestrata per lavorare al servizio dei padroni della società. Il resto della popolazione dovrebbe essere privato di qualsiasi forma di organizzazione, che è esclusivamente fonte di guai. Ciascuno deve restare da solo davanti alla televisione e assorbire il messaggio secondo cui l'unico valore che conta è possedere più beni e vivere come le ricche famiglie borghesi che appaiono sullo schermo, credendo nell'armonia e nello spirito americano. Per la popolazione, l'unica realtà consentita è quella mostrata dai media; desiderare o credere che esista qualcosa di diverso è una follia. E poiché non è permessa alcuna forma di organizzazione (e questo è fondamentale) non c'è modo di confrontare le proprie idee con quelle degli altri.
Dietro a tutto questo c'è l'idea di democrazia cui ho accennato, la quale impone che il gregge smarrito guardi il campionato di calcio, le sitcom o i film violenti. Ogni tanto è opportuno fargli recitare qualche slogan (come "Appoggia le nostre truppe") o spaventarlo, evocando davanti ai suoi occhi un diavolo che minacci di distruggerlo; altrimenti potrebbe cominciare a pensare, e pensare non è di sua competenza.
Questa è una concezione di democrazia. Ritornando alla comunità degli affari, l'ultima vittoria sul piano dei diritti dei lavoratori è stata la Legge Wagner del 1935. Dopo c'è stata la guerra, i sindacati sono entrati in crisi e altrettanto è accaduto alla ricca cultura operaia associata a essi, che è stata completamente distrutta. Siamo diventati una società governata dal mondo degli affari, a un livello assoluto: quella americana è l'unica società industriale con capitalismo di stato che non ha neppure un contratto sociale ordinario, come avviene in altre società dello stesso tipo. All'infuori del Sudafrica, credo, questo è l'unico paese industriale a non avere un servizio sanitario nazionale. Non è garantito nemmeno un livello minimo di sopravvivenza per quelle parti della popolazione che non sono in grado di adattarsi al modello e guadagnarsi da vivere individualmente. I sindacati sono praticamente inesistenti, né ci sono altre forme di organizzazione popolare. Non esistono partiti politici. I media sono monopolio dell'industria e sostengono tutti la stessa ideologia. I due partiti esistenti sono due fazioni del partito degli affari. La maggior parte della popolazione non si preoccupa neppure di andare a votare, perché lo considera ormai un gesto privo di senso. I cittadini sono tenuti al margine e opportunamente distratti. La figura leader nell'industria delle pubbliche relazioni, Edward Bernays, proviene infatti dalla Commissione Creel; ne ha fatto parte, ne ha appreso la lezione e l'ha utilizzata fino a teorizzare "l'ingegneria del consenso", che descrive come "l'essenza della democrazia". Le persone che sanno fabbricare il consenso sono quelle che possiedono le risorse e il potere per farlo (la comunità degli affari); ed è per loro che lavorate.
Fabbricare l'opinione
È inoltre necessario esortare la popolazione a sostenere le avventurose iniziative della politica estera. Di solito la popolazione è pacifista, proprio come lo è stata durante la Prima guerra mondiale, perché non vede ragioni per lasciarsi coinvolgere in massacri e torture. Quindi bisogna spronarla, e per spronarla occorre spaventarla. Lo stesso Bernays ha ottenuto un risultato importante in questo campo: è lui che ha condotto la campagna di pubbliche relazioni per la United Fruit Company nel 1954, quando gli Stati Uniti decisero di rovesciare il governo capitalista democratico del Guatemala, sostituendolo con un gruppo di assassini provenienti dalle fila degli squadroni della morte, ancora oggi al potere grazie ai costanti aiuti statunitensi finalizzati a prevenire svolte democratiche che non siano solo formali. Si rende necessario imporre di continuo programmi di politica interna cui il popolo è contrario, perché non ha ragione di appoggiare programmi che vanno contro ai propri interessi. E anche questo richiede una propaganda massiccia. Negli ultimi decenni ne abbiamo visti molti esempi. Le politiche di Reagan, per esempio, erano estremamente impopolari. Due terzi degli elettori che lo avevano insediato alla Casa Bianca nel 1984 speravano che il suo programma non si sarebbe realizzato. Se ne esaminate i punti, uno a uno, come quello relativo agli armamenti o al taglio della spesa sociale, capirete che la popolazione era fortemente contraria alla politica reaganiana. Ma finché viene costretta al ruolo di semplice spettatore, non ha modo di organizzarsi o di esprimere ciò che pensa, né di venire in contatto con altri che condividano la sua stessa opinione. La persona che nei sondaggi afferma di preferire la spesa sociale alla spesa militare (come ha fatto una larghissima maggioranza) si convince di avere convinzioni folli, perché non ha mai sentito affermare niente di simile e crede che nessuno la pensi così. Chi dà questo tipo di risposte nei sondaggi si pone in qualche modo al margine, e poiché non ha occasione di incontrare altre persone che condividano o rafforzino il suo punto di vista e lo aiutino ad articolarlo, si sente diverso, escluso. Così si fa da parte e non presta attenzione a quanto accade.
Fino a un certo punto, quindi, l'ideale di democrazia è stato realizzato, anche se non completamente. Ci sono istituzioni, infatti, che fino a oggi è stato impossibile distruggere. Le Chiese, per esempio, esistono ancora. Buona parte dell'attività dissidente negli Stati Uniti proviene dalle chiese, per la semplice ragione che esistono. Nei paesi europei la partecipazione politica avviene con ogni probabilità nelle sedi sindacali. Negli Stati Uniti questo non può accadere, perché i sindacati sono rarissimi, e quelli che ci sono non rappresentano organizzazioni politiche. Ma le Chiese ci sono e spesso i discorsi politici vengono fatti in quelle sedi. Le attività dei gruppi di solidarietà con il Centroamerica sono nate principalmente nelle Chiese.
Il gregge smarrito non è mai abbastanza domato e quindi la battaglia è continua. Negli anni trenta ha levato la testa ed è stato tenuto a bada. Negli anni sessanta ci fu una nuova ondata di dissenso, etichettata dalla classe specializzata "crisi della democrazia". La crisi consisteva nel fatto che ampi settori della popolazione si stavano organizzando e cercavano di partecipare concretamente all'attività politica. Qui si ritorna alle due concezioni di democrazia. Secondo la definizione del dizionario, si trattava di un progresso; secondo la concezione predominante, invece, era un problema, una crisi che occorreva superare. La popolazione doveva essere ricondotta all'apatia, all'obbedienza e alla passività che costituiscono la sua giusta condizione. Bisognava fare qualcosa per superare la crisi, ma gli sforzi fatti non ebbero successo. La crisi della democrazia è ancora in atto, per fortuna, ma non si è dimostrata molto efficace nel cambiare la politica. Riesce tuttavia a cambiare le opinioni, contrariamente a quanto credono molti. Dopo gli anni sessanta sono stati fatti grandi sforzi per rovesciare e sconfiggere questa "malattia", che in certe manifestazioni ha ricevuto addirittura un nome: "sindrome del Vietnam", per esempio. La sindrome del Vietnam, definizione che ha cominciato a circolare intorno al 1970, è stata anche descritta: l'intellettuale reaganiano Norman Podhoretz l'ha definita "la malsana inibizione suscitata dall'uso della forza militare". Una larga parte della popolazione ne è stata affetta, non riuscendo a capire perché si dovessero torturare, ammazzare e bombardare popolazioni di altri paesi. È molto pericoloso contrarre quella malsana inibizione, come aveva ben capito Goebbels, perché può ostacolare la conquista del mondo. E necessario, come ha affermato il Washington Post con un certo orgoglio durante l'isteria collettiva della guerra del Golfo, inculcare nel popolo il rispetto per il "valore militare". Certo, è una cosa importante: se il disegno politico è la costruzione di una società violenta che usa la forza nel resto del mondo per raggiungere gli scopi voluti dall'élite che la governa, è necessario dimostrare apprezzamento per il "valore militare", e non lasciarsi fuorviare da sciocche inibizioni sull'uso della violenza. È necessario superare la sindrome del Vietnam.
La rappresentazione come realtà
È necessario inoltre falsare radicalmente la storia. È un'altra strategia per sconfiggere le assurde inibizioni: far apparire le cose in modo tale che, quando gli Stati Uniti attaccano e distruggono un paese, sia chiaro che lo stanno proteggendo da mostruosi aggressori.
Fin dalla guerra del Vietnam lo sforzo per ricostruire la storia è stato enorme. Troppa gente allora cominciava a capire com'erano andate veramente le cose, tra cui moltissimi soldati e giovani impegnati nel movimento pacifista e in organizzazioni analoghe. Una pessima cosa: era necessario risanare quei pensieri malati, trasformarli in consenso e indurre il popolo al riconoscimento che tutto quel che facciamo noi americani è nobile e giusto. Se bombardiamo il Vietnam del Sud è perché lo stiamo difendendo da qualcuno, evidentemente dai sudvietnamiti, visto che lì ci sono solo loro. E' quella che gli intellettuali kennedyani, tra cui Adlai Stevenson, chiamarono difesa contro "l'aggressione interna": era necessaria una definizione ufficiale che fosse comprensibile, e questa funzionò perfettamente. Quando i media sono sotto controllo, il sistema scolastico e il mondo della cultura sono allineati, il consenso e assicurato.
L'università del Massachusetts ha condotto uno studio interessante sugli atteggiamenti nei riguardi della crisi del Golfo, allora in corso: l'intento era di conoscere la disposizione mentale con cui le persone guardavano la televisione. Una delle domande era: "Quante vittime vietnamite ci sono state secondo voi durante la guerra del Vietnam?". La risposta media del cittadino statunitense è stata: circa centomila. La stima ufficiale è di quasi due milioni, mentre la cifra reale si aggira probabilmente attorno ai tre o quattro milioni. Gli autori della ricerca proposero poi un'altra domanda: "Cosa pensereste della cultura politica tedesca se, domandando ai tedeschi di oggi quanti ebrei siano morti nell'Olocausto, rispondessero: circa trecentomila? Cosa ci rivelerebbe questa risposta sulla cultura politica tedesca?". La domanda è rimasta in sospeso, ma noi possiamo riprenderla. Cosa ci dice della cultura di noi americani? Che è necessario vincere le malsane inibizioni sull'uso della forza militare e le altre idee che esprimono dissenso. Nel caso della guerra del Golfo ha funzionato, e lo stesso si può dire per qualsiasi altra questione (il Medio Oriente, il terrorismo internazionale, l'America Centrale): l'immagine del mondo che viene presentata al popolo ha solo una remotissima relazione con la realtà. La verità resta sepolta sotto un enorme castello di bugie. Per scongiurare la minaccia della democrazia, in condizioni di libertà, si è dimostrata una strategia molto efficace; a differenza di quanto avviene negli stati totalitari, in cui si ricorre alla forza, questi risultati sono ottenuti in condizioni di libertà. Se vogliamo capire la società in cui viviamo, dobbiamo riflettere su questi fatti.
La cultura del dissenso
Malgrado tutto, la cultura del dissenso è sopravvissuta ed è cresciuta parecchio dagli anni sessanta, quando cominciò, molto lentamente, a svilupparsi. Non ci fu alcuna protesta contro la guerra d'Indocina se non anni dopo, con l'inizio dei bombardamenti americani sul Vietnam del Sud, e anche allora il dissenso fu circoscritto a un movimento costituito per la maggior parte di studenti e di giovani. Negli anni settanta le cose erano decisamente cambiate. Si erano formati movimenti popolari importanti: quello ambientalista, quello femminista, quello contro il nucleare e altri ancora. Negli anni ottanta c'è stata un'ulteriore espansione con i movimenti di solidarietà, un fenomeno nuovo e importante nella storia del dissenso, almeno in quella degli Stati Uniti. Queste organizzazioni non limitavano la loro attività alla protesta, ma miravano a un vero e proprio coinvolgimento, spesso intimo, della popolazione nella sofferenza di persone lontane; queste esperienze hanno insegnato molto agli americani e hanno avuto un effetto civilizzante su tutta la società: coloro che sono stati coinvolti in questo genere di attività per molti anni devono esserne consapevoli. Io stesso mi rendo conto che le mie conferenze nelle regioni più reazionarie del paese (la Georgia centrale, il Kentucky rurale eccetera) sono pari a quelle che avrei potuto tenere nel momento culminante del movimento per la pace davanti a un pubblico di attivisti. Certo, la gente può anche non essere d'accordo, ma almeno capisce di cosa si sta parlando ed è possibile trovare un punto di contatto.
Sono tutti segni di un processo di civilizzazione, a dispetto della propaganda, delle strategie messe in atto per controllare il pensiero e manipolare il consenso. La gente inoltre sta acquistando la capacità e la volontà di capire a fondo gli avvenimenti. Lo scetticismo nei confronti del potere è cresciuto e l'atteggiamento è mutato rispetto a molte questioni. E un cambiamento lento, come la deriva dei continenti, ma incisivo e importante. Se sia abbastanza veloce da produrre una differenza significativa in quel che accade nel mondo è un'altra faccenda. Consideriamo, per esempio, la differenza tra i sessi. Negli anni sessanta l'atteggiamento di uomini e donne rispetto ad argomenti quali le "virtù militari" e l'impiego dell'esercito era praticamente identico. Nessuno, uomo o donna, manifestava remore di questo tipo nei primi anni sessanta: tutti pensavano che l'uso della violenza contro altri popoli fosse legittimo. Ma con il passare degli anni le cose sono cambiate, e l'inibizione si è diffusa un po' dappertutto; in questo processo si è manifestato uno stacco, diventato poi una differenza sostanziale; secondo i sondaggi, riguarda circa il 25 percento della popolazione. Che cosa è accaduto? E accaduto che si è formato un movimento popolare parzialmente organizzato di cui sono protagoniste le donne, il movimento femminista. Non si tratta di una vera e propria organizzazione di militanti, ma di un movimento informale che fa leva su uno stato d'animo comune il quale crea un'interazione fra le persone. E questo è particolarmente pericoloso per una democrazia come quella americana: se riescono a costituirsi delle organizzazioni, se la gente non si lascia più distrarre dalla televisione, comincia a cullare strane idee e a sviluppare malsane inibizioni contro l'uso della forza militare. Un pericolo che non è ancora stato scongiurato. (Continua)
mercoledì 22 dicembre 2010
"Leggere Chomsky", Capitolo III, parte I
Cari resistenti, forse vi chiederete perché pubblichiamo scritti di carattere socio-politico in un blog dedicato alla poesia. Ebbene: solo la poesia e la bellezza possono liberarci dalle penose schiavitù a cui fa riferimento Noam Chomsky. Vi preghiamo di leggere con attenzione e... resistere.
Il controllo dei media
Il ruolo dei mezzi di comunicazione nella politica contemporanea ci costringe a chiederci in che tipo di mondo e in che genere di società vogliamo vivere e in particolare cosa intendiamo per società democratica. Comincerò con il contrapporre due diverse concezioni di democrazia. Una definisce democratica la società in cui il popolo ha i mezzi per partecipare in modo significativo alla gestione dei propri interessi e in cui i media sono accessibili e liberi. Una definizione di questo tipo si trova anche sul dizionario.
La concezione alternativa è quella che prevede una società in cui al popolo è proibito gestire i propri interessi e i mezzi di comunicazione sono strettamente e rigidamente controllati. Questa può apparire una forma di democrazia improbabile, ma è importante comprendere che si tratta della concezione prevalente. E lo è da lungo tempo, non solo nella prassi, ma anche nella teoria. Una lunga storia, risalente alle prime rivoluzioni democratiche moderne nell'Inghilterra del XVII secolo, riflette questa ideologia.
Nelle pagine che seguono mi occuperò del periodo contemporaneo, soffermandomi in particolare sullo sviluppo della seconda concezione di democrazia, e su come e perché il problema dei media e della disinformazione si inserisce in questo contesto.
La nascita della propaganda
Cominciamo con la prima operazione propagandistica di un governo moderno. Accadde durante l'amministrazione di Woodrow Wilson, che fu eletto presidente nel 1916 con un programma intitolato "Pace senza vittoria". La Prima guerra mondiale infuriava, e la popolazione americana era decisamente pacifista: riteneva che non ci fosse alcun motivo per farsi coinvolgere in un conflitto europeo. L'amministrazione Wilson invece era favorevole alla guerra, perciò doveva trovare un modo per ottenere il consenso popolare al proprio interventismo. Fu dunque istituita una commissione governativa per la propaganda, la Commissione Creel, che nel giro di sei mesi riuscì a trasformare una popolazione pacifista in un popolo fanatico e guerrafondaio, deciso a distruggere tutto quanto appartenesse alla Germania, a trucidare i tedeschi, a entrare in guerra e a salvare il mondo. Fu un grande risultato, il primo di una lunga serie. Già a quell'epoca e nel dopoguerra vennero utilizzate le stesse tecniche per scatenare un incontrollato red scare ("terrore rosso"), come fu chiamato, che riuscì a distruggere i sindacati e a cancellare pericolose abitudini come la libertà di stampa e la libertà di pensiero politico. L'appoggio dei media e del mondo degli affari, che di fatto organizzò e portò avanti gran parte dell'operazione, fu determinante, e il risultato fu un grande successo.
Fra quelli che parteciparono attivamente e con entusiasmo alla propaganda voluta da Wilson c'erano gli intellettuali progressisti, persone del circolo di John Dewey, i quali, come testimoniano i loro stessi scritti dell'epoca, erano molto orgogliosi di poter dimostrare che "i più intelligenti membri della comunità", cioè loro stessi, erano capaci di indurre alla guerra una popolazione riluttante, terrorizzandola e suscitando un fanatismo oltranzista. Il dispiegamento di mezzi fu ingente; per esempio, furono divulgate terribili storie sulle atrocità commesse dai tedeschi, cronache di bambini belgi con le braccia strappate e altri orrori di ogni sorta, che si trovano ancora nei libri di storia. Molte di quelle invenzioni erano frutto del ministero della Propaganda britannico, il cui impegno a quel tempo era finalizzato, come venne precisato nelle deliberazioni segrete, a "indirizzare il pensiero della maggioranza del mondo". Ma soprattutto miravano a controllare il pensiero dei membri più intelligenti della comunità statunitense, che avrebbero poi diffuso la propaganda da loro escogitata e convertito un paese pacifista all'isteria di guerra. Funzionò. Funzionò tutto perfettamente, e fu una lezione: la propaganda di stato, quando è appoggiata dalle classi colte e non lascia spazio al dissenso, può avere un effetto dirompente. Una lezione che Hitler e molti altri appresero a fondo e di cui si tiene conto ancora oggi.
La democrazia degli spettatori
Un altro gruppo che rimase colpito da tanto successo fu quello dei teorici della democrazia liberale e delle figure di spicco dei media, come per esempio Walter Lippmann, decano dei giornalisti statunitensi, grande critico della politica interna ed estera del paese e importante teorico della democrazia liberale. La raccolta dei suoi scritti ha come sottotitolo "Una teoria progressista del pensiero liberale democratico". Lippmann aveva partecipato alle commissioni di propaganda e ne riconobbe i risultati. Sostenne che quella che definiva "una rivoluzione nell'arte della democrazia" poteva essere usata per "fabbricare consenso", cioè ottenere mediante le nuove tecniche di propaganda l'appoggio della popolazione rovesciandone l'opinione. La riteneva un'idea non solo buona, ma addirittura necessaria perché, come spiegò, "gli interessi comuni sfuggono completamente all'opinione pubblica" e possono essere compresi e amministrati soltanto da una "classe specializzata" di "uomini responsabili", abbastanza intelligenti da capire come vanno le cose. Secondo questa teoria solo una ristretta élite, la comunità intellettuale cui si riferivano i seguaci di Dewey, è in grado di comprendere gli interessi comuni, che riguardano tutti e che "sfuggono al popolo". E' un ideologia vecchia di secoli, ed è anche una visione tipicamente leninista, molto vicina alla concezione del leader bolscevico che voleva un'avanguardia di intellettuali rivoluzionari condotta al vertice dello stato dalla forza del popolo, capace di guidare le masse verso un futuro che loro, per ignoranza, non erano in grado di immaginare. La teoria democratica liberale e il marxismoleninismo sono molto vicini nei presupposti ideologici. Penso che questa sia una delle ragioni per cui le persone sono passate così facilmente da una posizione all'altra senza avvertire un particolare cambiamento. Si tratta solo di stabilire dove si trova il potere: se c'è una rivoluzione popolare, allora il potere sarà dello stato; altrimenti lavoreremo per chi detiene il potere reale, cioè la comunità degli affari.
Ma in fondo sarà la stessa cosa: comunque guideremo le masse inette verso un mondo che loro non sono in grado di capire.
Lippmann ha supportato questa idea con una elaborata teoria della democrazia progressista. A suo parere, in una democrazia sana ci sono cittadini di diverse classi. La prima, che deve avere un ruolo attivo nella conduzione degli affari generali, è la classe specializzata, costituita da persone che analizzano, eseguono, prendono decisioni e gestiscono il sistema politico, economico e ideologico. Naturalmente si tratta di una minoranza esigua, ma chi sostiene tali teorie ne fa sempre parte e si pone il problema di che cosa fare per gli altri, quelli che sono al di fuori del gruppo, cioè la maggioranza della popolazione, definita da Lippmann "il gregge smarrito": dobbiamo guardarci "dallo scalpitio e dai belati del gregge smarrito". Dunque in una democrazia ci sono due "funzioni": quella dirigenziale, svolta dalla classe specializzata, dagli uomini responsabili, che pensano, pianificano e comprendono gli interessi comuni, e quella svolta dal gregge smarrito, la funzione dello "spettatore", di colui che non partecipa all'azione. Anzi, poiché viviamo in una democrazia, le funzioni della maggioranza sono molteplici: di tanto in tanto le è concesso di dare il suo appoggio a uno o all'altro dei membri della classe specializzata, di dire: "Vogliamo che sia questo il nostro capo", oppure "Vogliamo che sia quello". Dal momento che il nostro non è uno stato totalitario, ci sono le elezioni. Ma, una volta che ha dato appoggio all'uno o all'altro membro della classe specializzata, la maggioranza deve farsi da parte e diventare spettatore dell'azione, rinunciando alla partecipazione. Questo è ciò che accade in una democrazia che funziona a dovere.
Dietro a tutto ciò vi è una logica, addirittura un assunto morale imprescindibile, ed è il seguente: il popolo è troppo stupido per capire; se cerca di partecipare alla gestione dei propri interessi, combinerà senz'altro guai; di conseguenza sarebbe immorale e ingiusto consentirgli di farlo. Dobbiamo ammansire il gregge smarrito, impedirgli di aggirarsi scalpitante e selvaggio, e di distruggere tutto. E la stessa logica che vieta di lasciare che un bambino di tre anni attraversi da solo la strada: non gli si concede questo tipo di libertà perché non è capace di usarla.
Quindi dobbiamo trovare un sistema per ammansire il gregge, e questo sistema rappresenta una rivoluzione nell'arte della democrazia: la costruzione del consenso. I media, la scuola e la cultura popolare devono essere tenuti separati: alla classe politica e a chi gestisce il potere devono garantire un certo senso della realtà (non eccessivo), ma anche trasmettere le giuste convinzioni. A questo proposito esiste un tacito presupposto (e anche gli uomini responsabili devono scoprirlo da soli) sul modo di raggiungere la posizione che conferisce l'autorità decisionale: il solo modo, naturalmente, è servire chi detiene il potere reale, un gruppo molto ristretto di persone. Se un membro della classe specializzata si fa avanti e dichiara: "Sono in grado di servire i vostri interessi" entra per certo a far parte del gruppo decisionale. Ma affinché questo sia possibile deve avere interiorizzato le dottrine e le ideologie che serviranno gli interessi del potere privato. Se quest'uomo non ha tale capacità, non entrerà a fare parte della classe specializzata. Dunque c'è un sistema scolastico destinato agli "uomini responsabili", che dovranno essere profondamente indottrinati sui valori e sugli interessi del potere privato e del legame tra stato e affari che lo sostiene. Così si diventa membri della classe specializzata. Il resto della popolazione dev'essere principalmente distratto. Bisogna sviarne l'attenzione, distoglierlo dai guai, assicurarsi che rimanga il più possibile spettatore dell'azione, permettendogli di tanto in tanto di appoggiare l'uno o l'altro dei veri leader tra cui gli è consentito scegliere.
Questa teoria è stata ripresa e sviluppata da molti altri, ed è in realtà piuttosto convenzionale. Reinhold Niebuhr, per esempio, autorevole teologo ed esperto di politica estera, chiamato anche "il teologo dell'establishment", guru di George Kennan e degli intellettuali kennedyani, ha avanzato l'ipotesi che la razionalità sia una qualità posseduta da pochi. La maggior parte delle persone è guidata soltanto dall'emozione e dall'impulso. Chi di noi è dotato di razionalità deve creare "illusioni necessarie" e "ipersemplificazioni" di forte impatto emotivo per tenere sotto controllo gli ingenui e gli sciocchi. Questa idea è diventata parte sostanziale della dottrina politica contemporanea. Negli anni venti e nei primi anni trenta Harold Lasswell, fondatore del moderno campo delle comunicazioni e uno dei più importanti teorici politici statunitensi, spiegava che non dobbiamo soccombere al "dogmatismo democratico secondo cui gli uomini sono i migliori giudici dei propri interessi", perché è infondato. Noi siamo i migliori giudici degli interessi pubblici. Quindi, per questione di ordinaria moralità, dobbiamo assicurarci che questi uomini privi di giudizio non abbiano l'opportunità di agire. In quelli che oggi sono chiamati stati totalitari o regimi militari, è facile: basta impugnare il manganello e colpire chi esce dai ranghi. Ma quando la società è più libera e democratica occorre rinunciare a questa opportunità e adottare le tecniche della propaganda. La logica è chiara: la propaganda è per la democrazia quello che il randello è per lo stato totalitario. E una cosa buona e giusta perché, come sappiamo, gli interessi comuni sfuggono al gregge smarrito, che non riesce nemmeno a immaginarli. (Continua)
"Leggere Chomsky", Capitolo II
Continuiamo con la pubblicazione di testi che davvero devono considerarsi "rivoltosi", giacché cercano con le idee di volgere lo status delle cose. Prestate bene occhi e orecchie.
Il potere dei media
Prima parlavo dello scopo dei media e delle élite opportunamente indottrinate. Ma che dire della maggioranza ignorante e intrigante? Essa deve in qualche modo essere distratta. Le si possono propinare semplificazioni e illusioni emotivamente potenti, cosicché sia capace di scimmiottare la linea di partito. La linea principale è comunque quella di tenerla fuori. Le si lasci fare cose prive di importanza, la si lasci urlare per una squadra di calcio o divertirsi con una soap opera. Ciò che si deve fare è creare un sistema adatto nel quale ciascun individuo rimanga incollato al tubo catodico. E' un noto principio delle culture totalitarie quello di voler isolare gli individui: se ne discute dal secolo XVIII. Per la cultura totalitaria è estremamente importante separare tra loro le persone.
Quando la maggioranza "ignorante e deficiente" sta insieme può capitare che si faccia venire strane idee.
Se invece si tengono gli individui isolati, non è interessante se pensano e quello che pensano. Dunque bisogna tenere la gente isolata, e nella nostra societa ciò significa incollarla alla televisione. Una strategia perfetta. Sei completamente passivo e presti attenzione a cose completamente insignificanti, che non hanno alcuna incidenza.
Se invece si tengono gli individui isolati, non è interessante se pensano e quello che pensano. Dunque bisogna tenere la gente isolata, e nella nostra societa ciò significa incollarla alla televisione. Una strategia perfetta. Sei completamente passivo e presti attenzione a cose completamente insignificanti, che non hanno alcuna incidenza.
Sei obbediente. Sei un consumatore. Compri spazzatura della quale non hai alcun bisogno. Compri un paio di scarpe da tennis da 200 dollari, perché le usa Magic Johnson. E non rompi le scatole a nessuno.
Se vuoi uccidere quel bambino che sta vicino a casa tua, fallo pure, questo non ci preoccupa. Ma non cercare di depredare i ricchi. Uccidetevi fra voi, nel vostro ghetto. Questo è il trucco. Questo è ciò che i media hanno il compito di fare. Se si esaminano i programmi trasmessi dalla televisione si vedrà che non ha molto senso interrogarsi sulla loro veridicità. E infatti nessuno si interroga su questo. L'industria delle pubbliche relazioni non spende miliardi di dollari all'anno per gioco. L'industria delle pubbliche relazioni è un invenzione americana che è stata creata all'inizio di questo secolo con lo scopo, dicono gli esperti, "di controllare la mente della gente, che altrimenti rappresenterebbe il pericolo piu forte nel quale potrebbero incorrere le grandi multinazionali".
Questi sono i metodi per attuare questo genere di controllo.
Se vuoi uccidere quel bambino che sta vicino a casa tua, fallo pure, questo non ci preoccupa. Ma non cercare di depredare i ricchi. Uccidetevi fra voi, nel vostro ghetto. Questo è il trucco. Questo è ciò che i media hanno il compito di fare. Se si esaminano i programmi trasmessi dalla televisione si vedrà che non ha molto senso interrogarsi sulla loro veridicità. E infatti nessuno si interroga su questo. L'industria delle pubbliche relazioni non spende miliardi di dollari all'anno per gioco. L'industria delle pubbliche relazioni è un invenzione americana che è stata creata all'inizio di questo secolo con lo scopo, dicono gli esperti, "di controllare la mente della gente, che altrimenti rappresenterebbe il pericolo piu forte nel quale potrebbero incorrere le grandi multinazionali".
Questi sono i metodi per attuare questo genere di controllo.
...
I "metodi scientifici di gestione" furono messi a punto - sempre in quegli anni (1930) - anche per interrompere gli scioperi. Si comprese che i media dovevano essere saturati con una serie di convizioni appropriate: questo sistema fu applicato a Johnstown, in Pennsylvania, durante lo sciopero dei metalmeccanici del 1936-37. L 'operazione riuscì. Da allora questo metodo prese il nome di "formula di Mohawk Valley" (dove si trovava Johnstown). L'idea fu quella di inserirsi nei gruppi di scioperanti, di saturarli di propaganda attraverso i media - e le chiese - in modo tale che alla fine ognuno di loro avesse chiara in mente l'esistenza di due gruppi contrapposti: noi e loro. "Noi" erano i lavoratori che continuavano a lavorare e le loro mogli che si curavano della casa. Le schiave che per venti ore al giorno aiutavano i lavoratori. Gli "altri" erano i cani sciolti, i diversi, gli anarchici, gli elementi di disturbo, i leader sindacali, coloro cioè che cercavano di rompere l'armonia e la pace della comunità. Dobbiamo proteggerci, dicevano i "Noi", dobbiamo proteggerci dagli estremisti che cercano di disturbare la nostra armonia. Questa strategia ebbe grande successo. E questa è l'immagine dello sciopero che ancora viene propagandata e che la maggioranza condivide: rottura dell'armonia. Si guardino le immagini che delle lotte dei lavoratori danno i media, le soap opera, i film.
Tratto da: Noam Chomsky "Il potere dei media" - Vallecchi
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