Once I had a dream... E’ stata la curiosità del bambino a condurmi per prima tra le trame di questo Mistero, tra l’odore di humus e pioggia.
Fitto del bosco – Volpi dal mistico incedere, nobili fiere dai movimenti predatori che procedono all’erta; i miei occhi di intruso. La Natura ha i suoi riti a cui è proibito assistere – eppure in barba alla sempiterna sacra legge ecco sfilare davanti a me, cucciolo immobile e atterrito, quelle selvagge gentili apparizioni, vestite del solenne e terrifico fascino della divinità. Tremo – un soffio solo può tradirmi.
Se il nascondiglio è scoperto e lo sguardo di Loro mi scova, allora altro non sarò che un uomo. Mutata in conoscenza e peccato la mia ingenuità, avrò orrore di quello che ho veduto e dovrò fuggire nel mondo, odiato dai miei simili, senza più un tetto, cacciato da chi mi ha dato alla luce. Potrò sempre redimermi, e due sono le vie: fendermi il ventre – coraggioso, inumano rifiuto – o tornare dalle Volpi e implorare perdono – sperare.
Con il tantō tra le mani, la lama che invisibile come un presagio nel fodero mi accompagna, mi avvio verso la Loro dimora. Another dream. Kurosawa indaga l’Altro, e lo fa attraverso il senso di colpa e l’assunzione di responsabilità che negli anni trasformano il fanciullo in uomo. Impossibile non scorgere nell’onirismo di questi Sogni un pretesto per raccontare una realtà più vera del vero, un percorso che riguarda tutti noi sia come individui sia come società. Si parte dal mito, dalla favola; chi sogna è bambino, l’Altro è la Natura – composta non solo di paesaggi idilliaci e presenze soprannaturali, ma di tutto ciò che ne può far parte, compresi gli stessi esseri umani – Origine e Doppio, fonte lontana, sacra, temuta presenza. Si svela il dramma dell’Occidente moderno e tecnologico, lanciato a tutta velocità verso la conquista, il sopruso del prossimo. Chi sogna cresce e diventa adulto, la fiaba pare farsi realismo per poi subito prender le sembianze della nuda catastrofe – ma si tratta di allucinazione, profezia o lucida previsione? Ancora il bambino tenta di rimediare al suo peccato, vorrebbe riconciliarsi con l’armonia della primavera, insegue la veste rosa di uno spirito, piange per gli alberi in fiore, ma non ottiene che una breve visione di pienezza prima di ricadere nel verde deserto di un pescheto tagliato a morte. Ancora Van Gogh marcia tra campi e boschi, vuole sparire nei luoghi che ‘trascendono la realtà’, diviene Altro lui stesso, ma è costretto alla fine di ogni dipinto a tornare nella sua dimensione di intimo, cocente vuoto, e si scontra con l’assurdo di un orecchio che non riesce a ritrarre. Nessuno potrà mai cogliere una minima traccia dell’uomo che ha dipinto le tele; il Turista-Giapponese-Appassionato-Di-Pittura può solo fermarsi sconcertato e confuso davanti all’enigma ‘oggettivo’ del capolavoro. Questi sono i titanici quanto fallimentari tentativi di tornare alla dimora dell’Altro che abbiamo offeso. Il resto dell’umanità, perduta in un inesorabile inferno terrestre, si impegna in una lotta folle e senza speranza. Molti di loro sono già pronti a eseguire il seppuku. Ma è proprio a questo punto che il Turista-Giapponese-Occidentalizzato-Medio – esponente di una società destinata a schiantarsi in fondo a questa corsa insensata che tutti ci trascina – incontra un vecchio tornato bambino – esponente a sua volta di una piccola comunità che ha rifiutato l’imperativo del Progresso – ovvero qualcuno che ha implorato perdono e l’ha ottenuto. Un facile e utopistico ripiego? Con il tantō tra le mani, la lama che invisibile come un presagio nel fodero mi accompagna, cerco ancora la Loro dimora.