sabato 30 giugno 2012

Primavera di Praga (Strambotto)

Come Jan Palach, dopo la stenta, guiderai la rivolta.
L’inverno al belvedere è ancor più sigillato.
Dal trespolo s’arruffa la tua faccia stravolta,
Color mandolino, sparisce in glissato.
Ma tu, mia dama, passerai il gelo sul coperchio

                                                                            [del mondo,
Pettirossa, abbaglierai le murene al tuo canto.
Se il mio grumo d’ala sarà lì per garrire,
Ricordane lo sparo, potresti sfiorire.

sabato 23 giugno 2012

'La poesia della tradizione' di Pier Paolo Pasolini


Oh generazione sfortunata!
Cosa succederà domani, se tale classe dirigente -
quando furono alle prime armi
non conobbero la poesia della tradizione
ne fecero un’esperienza infelice perché senza
sorriso realistico gli fu inaccessibile
e anche per quel poco che la conobbero,
dovevano dimostrare
di voler conoscerla sì ma con distacco, fuori dal gioco.
Oh generazione sfortunata!
che nell’inverno del ‘70 usasti cappotti e scialli fantasiosi
e fosti viziata
chi ti insegnò a non sentirti inferiore -
rimuovesti le tue incertezze divinamente infantili -
chi non è aggressivo è nemico del popolo! Ah!
I libri, i vecchi libri passarono sotto i tuoi occhi
come oggetti di un vecchio nemico
sentisti l’obbligo di non cedere
davanti alla bellezza nata da ingiustizie dimenticate
fosti in fondo votata ai buoni sentimenti
da cui ti difendevi come dalla bellezza
con l’odio razziale contro la passione;
venisti al mondo, che è grande eppure così semplice,
e vi trovasti chi rideva della tradizione,
e tu prendesti alla lettera tale ironia fintamente ribalda,
erigendo barriere giovanili contro la classe dominante del passato
la gioventù passa presto; oh generazione sfortunata,
arriverai alla mezza età e poi alla vecchiaia
senza aver goduto ciò che avevi diritto di godere
e che non si gode senza ansia e umiltà
e così capirai di aver servito il mondo
contro cui con zelo «portasti avanti la lotta»:
era esso che voleva gettar discredito sopra la storia - la sua;
era esso che voleva far piazza pulita del passato - il suo;
oh generazione sfortunata, e tu obbedisti disobbedendo!
Era quel mondo a chiedere ai suoi nuovi figli di aiutarlo
a contraddirsi, per continuare;
vi troverete vecchi senza l’amore per i libri e la vita:
perfetti abitanti di quel mondo rinnovato
attraverso le sue reazioni e repressioni, sì, sì, è vero,
ma sopratutto attraverso voi, che vi siete ribellati
proprio come esso voleva, Automa in quanto Tutto;
non vi si riempirono gli occhi di lacrime
contro un Battistero con caporioni e garzoni
intenti di stagione in stagione
né lacrime aveste per un’ottava del Cinquecento,
né lacrime (intellettuali, dovute alla pura ragione)
non conosceste o non riconosceste i tabernacoli degli antenati
né le sedi dei padri padroni, dipinte da
-e tutte le altre sublimi cose
non vi farà trasalire (con quelle lacrime brucianti)
il verso di un anonimo poeta simbolista morto nel
la lotta di classe vi cullò e vi impedì di piangere:
irrigiditi contro tutto ciò che non sapesse di buoni sentimenti
e di aggressività disperata
passaste una giovinezza
e, se eravate intellettuali,
non voleste dunque esserlo fino in fondo,
mentre questo era poi fra i tanti il vostro dovere,
e perché compiste questo tradimento?
per amore dell’operaio: ma nessuno chiede a un operaio
di non essere operaio fino in fondo
gli operai non piansero davanti ai capolavori
ma non perpetrarono tradimenti che portano al ricatto
e quindi all’infelicità
oh sfortunata generazione
piangerai, ma di lacrime senza vita
perché forse non saprai neanche riandare
a ciò che non avendo avuto non hai neanche perduto:
povera generazione calvinista come alle origini della borghesia
fanciullescamente pragmatica, puerilmente attiva
tu hai cercato salvezza nell’organizzazione
(che non può altro produrre che altra organizzazione)
e hai passato i giorni della gioventù
parlando il linguaggio della democrazia burocratica
non uscendo mai della ripetizione delle formule,
ché organizzar significar per verba non si poria,
ma per formule sì,
ti troverai a usare l’autorità paterna in balia del potere
imparlabile che ti ha voluta contro il potere,
generazione sfortunata!
Io invecchiando vidi le vostre teste piene di dolore
dove vorticava un’idea confusa, un’assoluta certezza,
una presunzione di eroi destinati a non morire -
oh ragazzi sfortunati, che avete visto a portata di mano
una meravigliosa vittoria che non esisteva!



Pier Paolo Pasolini, Trasumanar e Organizzar, Garzanti 1971.

lunedì 11 giugno 2012

Fortezza Albornoz


Un tempo qualcuno lì combatteva.
Qualcuno, un tempo, era sentinella del mattino.
Sbrigliavano i cavalli impomatati
mentre Federico guercio lampeggiava
                                           nell’armatura.

Un tempo lì c’era il palio mascherato.
Qualcuno, un tempo, era guardiano notturno.
Poi i cavalli morivano. Vi era la concia.
E il raso trapunto custodito.

La perizia dell’artigiano. Nocche
Gonfie. Per magia una rosa canina:
tutto era locus amoenus un vociare
di servi mercatori di pupille d’ambra.

E di cortina.

*

Noi spesso andiamo in cima alla fortezza, nei giorni assolati.
Non badiamo alle concessioni della storia. Ma godiamo di noi
e della natura, che invade gli stinchi, che rende parassitari.
Assuefatti ad una mistica adusata, tra i segmenti
                                                                                di bacelli.
C’è chi ride, chi scodinzola, chi gioca a palla. Noi lastrichiamo
le solite domande sospese. ‘La balza c’attende ancora’, ci diciamo.
E tutto sommato, ‘meglio così.’ Poiché non tocca essere sterratori.
Al massimo registratori di sensazioni decadenti,
                                                                       o di voci impopolari. 
Questa natura, distese tallonate, acquitrini, dentature smagliate
fa nuotare in pace con la coscienza e con gli altri.
E, paghi d’una calma acciottolata, rimaniamo con le imposte
                                                                                        abbassate.
Ma ci manca ciò che nel quattrocento fu la fortezza.
Non frangivento per anonimati, che sguazzano come anguille
in erotico oblio. Manca il sigillo bollato della madia.
                                                                                    La sicurezza.

domenica 3 giugno 2012

Sergej A. Esenin - Confessioni di un malandrino


Non a ciascuno è dato di cantare,
non a ciascuno è dato di cadere
come una mela ai piedi di qualcuno.

Eccovi la suprema confessione,
quella che vi può fare un malandrino.

Mi piace spettinato camminare
col capo sulle spalle come un lume:
così mi diverto a rischiarare
il vostro triste autunno senza piume.
Mi piace che mi grandini sul viso
la fitta sassaiola dell’ingiuria:
mi agguanto solo, per sentirmi vivo,
al guscio della mia capigliatura.

Ed in mente mi torna quello stagno
che le canne ed il muschio hanno sommerso,
e mio padre e mia madre che non sanno
d’avere un figlio che compone versi.

Ma mi vogliono bene come ai campi,
alla pelle e alla pioggia di stagione;
raro sarà che chi m’offenda scampi
da loro e dalle punte del forcone.

Poveri genitori contadini!
Certo siete invecchiati e ancor temete
il signore del cielo e gli acquitrini...
Genitori che mai non capirete
che oggi il vostro figliuolo è diventato
il primo fra i poeti del paese...

Quando correva scalzo sul bagnato
vi si copriva l’anima di brina:
ora invece in iscarpe verniciate
e col cilindro in testa egli cammina.

Ma sopravvive in lui la frenesia
d’un vecchio mariolo di campagna,
e ad ogni insegna di macelleria
alla vacca s’inchina, sua compagna.
E quando in piazza incontra un vetturino,
gli torna in mente il suo concio natale,
e vorrebbe la coda del ronzino
reggere come strascico nuziale.

Voglio bene alla patria,
l’amo senza confine,
benché afflitta di tronchi rugginosi.
M’è caro il grugno sporco dei suini
ed i rospi nell’ombra sospirosi.

Son malato d’infanzia e di ricordi
e di freschi crepuscoli d’aprile.
Sembra quasi che l’acero si curvi
per riscaldarsi e poi dormire.
Dai nidi di quell’albero le uova
per rubare salivo fino in cima.
Ma sarà la sua chioma sempre nuova
e dura la sua scorza come prima?

E tu, mio caro amico,
vecchio cane fedele?
Fioco e cieco t’ha reso la vecchiaia,
e giri a coda bassa nel cortile,
ignaro delle porte e dei granai.
Mi son cari i miei furti di monello,
quando rubavo in casa un po’ di pane,
e si mangiava come due fratelli,
una briciola l’uomo ed una il cane.

Io non sono cambiato,
il cuore ed i pensieri son gli stessi,
e come fiori in grano, in viso gli occhi.
Sui tappeti magnifici dei versi
voglio dirvi qualcosa che vi tocchi.

Buona notte!
La falce risonante della luna
si cheta mentre l’aria si fa bruna.
Dalla finestra mia voglio stasera
pisciare contro il disco della luna.

L’azzurro della notte è così terso:
qui forse anche il morire non fa male.
Che importa se il mio spirito è perverso
e dal mio dorso penzola un fanale?
O Pegaso decrepito e bonario,
il tuo galoppo è ora senza scopo.
Giunsi come un maestro solitario
e non canto e non celebro che i topi.
Dalla mia testa come uva matura
gocciola il folle vino delle chiome...

Voglio essere una gialla velatura
gonfia verso un paese senza nome.


(traduzione di Renato Poggioli)