Ver Sacrum
Mano a mano che il sibilo di quella palla di fuoco si perde in lontananza, deformandosi, nel vano tentativo d’adattarsi alle immensità siderali, per colmarle, un gemito si leva sempre più forte, acuto, simile al lamento d’un gattino disperato, impaurito al cospetto della poltiglia d’ossa e pelo, che giace in una pozza di sangue, che era sua madre, prima che il repentino passaggio d’un auto la travolgesse, schiacciandola, come l’immensa palla di fuoco ha fatto con tutto sulla terra, vivente o no. “Tutto o quasi”, sembra dire l’acuto gemito, che proviene da un angolo, di quello che era un possente edificio, con alte colonne marmoree: rocce d’origine vulcanica, ora, in parte, nuovamente fuse. Tuttavia quella casuale incandescenza non è arrivata ovunque: c’è un minuscolo anfratto rimasto integro e il gemito continua sempre più intenso, acuto, come il sibilo del globo infuocato, si dilata e deforma, cercando di colmare gli spazi dell’infinito universo, fino a sembrare un ghigno, finanche una risata.
Qualcuno su qualche altro pianeta con una sofisticata apparecchiatura, che gli consente di captare i rumori dell’universo, pensa: “senti come si divertono là” e battezza quel luogo come: “Gioia”.
In un angolino di quell’immensa distesa di rovine si muove qualcosa, esattamente da dove proviene quel gemito, paffute piccole dita rosa spuntano da un cumulo di macerie e, contemporaneamente, si leva uno straziante urlo di dolore: intorno a quell’isola, tutto è incandescente, non c’è possibilità di muoversi per quella piccola creatura, che nell’oscurità dell’anfratto dove è incastrata, si ritrae immediatamente, non appena sente che la mano brucia, ma ora non geme più in quel modo ferino, escono lacrime dagli occhi, mentre s’accartoccia sempre più in quell’angolino, per stare più lontano possibile dal dolore.
Tutto tace ora e là, su di un pianeta lontano, l’osservatore sta modulando su altre frequenze alla ricerca d’altri suoni, non senza sorridere, nel tentativo di immaginare cosa possa generare, quelle gustose risate in un mondo così distante dal suo.
Per quanto l’ascoltatore scandagli l’universo con il suo congegno, rilevando suoni di diversissima natura, non può fare altro che pensare a quanto ha ascoltato nella frequenza del Pianeta Gioia, ritornandovi, finalmente sente di nuovo fragorose risate.
La creatura nell’angolino emette lancinanti urla di dolore, mentre s’addenta le dita d’una mano, quasi contemporaneamente geme grugniti di piacere, dovuti alla soddisfazione di quell’istinto che l’aveva spinta a tentare d’ allontanarsi da dove si trova. D’improvviso una luce negli occhi e quell’essere sporge il braccio, facendolo uscire da sotto le macerie, appoggiandolo ove prima aveva posto la mano, urla mentre gira e rigira l’arto, ormai monco dell’estremità, sul pavimento incandescente, poi fulmineo lo ritrae e di nuovo l’addenta: minore è il dolore causato dai morsi maggiore la soddisfazione, mano a mano che i bocconi scendono nello stomaco. Intorno rovine. Quei rumori salgono al cielo si dilatano nello spazio e si deformano, ed ancora là lontano sul pianeta l’ ascoltatore, sente delle risate e si interroga su cosa le possa generare, divertito.
Un altro istinto ora spinge il piccolo a girarsi e rigirarsi, in quell’angusto spazio, fino a che non si rende conto che, oltre ai suoi grugniti e gemiti, c’è un altro rumore, un cadenzato “ciac…..ciac…ciac”. Da un tubo di piombo, cadono alcune gocce, lecca il pavimento, poi la cannella, avido, come lo era della carne del suo braccio, che dopo un po’ espelle, sotto altra forma, ma comunque è altro cibo e così continua, languendo sempre più, fra i propri escrementi, rosicchiandosi le membra e, cercando di dissetarsi, con quelle gocce, così dà fondo alle ultime forze rimastegli, spirando. Non è una morte vana: dagli escrementi e dalle membra in decomposizione, nascono piccolissime creature, che riavviano il ciclo vitale sulla terra. Una vegetazione rigogliosa accoglie gli esseri che giungono, guidati dall’ascoltatore, trasportati da navi spaziali, atterrano ed esce da uno di quei congegni volanti un umanoide, con un viso gioviale, dal sorriso sincero, ma un po’ stolido, per un momento volge lo sguardo là: verso il pianeta di provenienza, poi, insieme a gli altri, inizia a correre, saltando e ruzzolandosi, emettendo lo stesso tipo di urla, gemiti, grugniti che emetteva la piccola creatura chiusa nell’angolo, si diffondono nello spazio quei suoni, deformandosi nel tentativo di colmarne l’immensità, fino a raggiungere il pianeta lontano, ma là non c’è più nessuno ad ascoltare e sui volti di quei viaggiatori siderali, compare un’espressione di malinconia: sono soli, infinitamente distanti anche l’uno dall’altro, ma è la coscienza d’un istante, prima che si ritrovino uniti, nuovamente, dalla volontà di volere raggiungere il punto esatto da dove provenivano quei suoni, con i quali si esprimono, per farlo devono salire l’erta pendice d’una montagna, avvolta da una intricata vegetazione, che si materializza, mano a mano che procedono, uscendo da una fitta nebbia. In lontananza si odono urla ferine, spesso qualcosa passa, velocemente, alle loro spalle o, vicino, sibilando e strisciando, altri rumori improvvisi, fanno sussultare il gruppo. D’un tratto si sente un suono, come gli altri inusitato alle loro orecchie, ma diverso: non genera terrore, affanno, ma è confortante, anzi sembra chiamare a sé quello sparuto drappello di creature: è un gorgoglio, che proviene da più in alto, lungo quell’erta, che sembra infinita e che si fa più intenso, quanto più salgono, fino ad arrivare ad un piano. La vegetazione è ancora intricata e la nebbia fitta, ma ormai la direzione da seguire è chiara, dopo un breve momento di pausa, il gruppo riprende deciso, verso quel suono, si inizia ad intravedere qualcosa, attraverso gli alberi e il folto sottobosco: un chiarore, che filtra attraverso quel groviglio vegetale, facendolo luccicare. Si trovano ora in una radura, investiti dai raggi del sole. Il gorgoglio è ancora più forte e proviene dall’alto d’una lieve pendenza, giunti al colmo della quale si voltano istintivamente a guardare il cammino percorso. Emergono le cime degli alberi, da uno sconfinato mare bianco, sotto il quale sentono i gemiti della fauna che popola quella landa. Il gruppo contempla per un po’ l’immane spettacolo, fino a che l’attenzione non viene nuovamente destata dal gorgoglio: una fonte scaturisce, proprio al centro di quella radura, rilucendo dei raggi solari, l’ascoltatore vi si avvicina, mette una mano sotto il fiotto dell’acqua, la ritira, sfrega le dita, ad ispezionare la consistenza di quella sostanza, l’annusa, emette d’istinto, modulandolo, sottovoce, con reverenza un suono: “apsu”; poi appoggia lievemente le labbra alla mano, mentre compie queste operazioni, comunica le sue sensazioni al gruppo, tramite i soliti gemiti e grugniti, beve dalla fonte; infine d’istinto, forse a causa dei riflessi cangianti dell’acqua, rivolge il proprio sguardo verso il cielo e pronuncia: “ausel”; si volta verso quanti l’hanno seguito e si rivolge loro così:
bellum ingens geret Italia populosque feroces
contundet moresque viris et moenia ponet.
Mundus
Si aprì improvvisamente una voragine, esattamente nel centro: vuoto assoluto. Inizialmente i telegiornali diedero la notizia, poi approfondimenti e dibattiti televisivi fecero crescere la febbre del vuoto, ma non era paura: solo uno di quei tanti isterismi collettivi, montati ad arte dai mezzi di comunicazione, come un nuovo film in 3d o l’amore di qualche fantoccio televisivo o cinematografico. Si era pienamente convinti che, in breve, gli scienziati avrebbero trovato una soluzione a questo fatto insolito, ma non fu così. Fu tentato di tutto e mano, a mano, che ogni espediente falliva, ci si preoccupava di sminuire la notizia, camuffare i fatti, il che diede naturalmente adito ad una immane stampa complottistica, che tendeva a svelare le menzogne raccontate dagli organi ufficiali, ma spesso con risultati piuttosto grotteschi, venivano chiamate in causa associazioni segrete, che avrebbero creato quella voragine, per tenere sotto scacco l’intero pianeta, in tal modo oscure lobbies capitalistico-massoniche-giudaiche avrebbero fatto grandi affari, vendendo quelle stesse apparecchiature, che sarebbero state usate per chiuderla, ma senza successo, avviando così un ciclo di sempre maggiori guadagni, tenendo al contempo la popolazione nella paura, quindi, rendendola meglio controllabile.
Si decise di usare un ordigno atomico, ciò non destò grande panico, né terrore, se non in pochi. La continua dialettica fra stampa ufficiale, che filtrava le notizie e stampa alternativa, che le ingigantiva, deformava e filtrava a sua volta, mantenne la popolazione in uno stato di torpore confusionale, tale da fare sì che ognuno preferisse continuare a farsi trascinare dal flusso della vita quotidiana, piuttosto che preoccuparsi di una fine che, se anche ci fosse stata, di lì a poco, sarebbe stata comunque inevitabile. Macchine, autobus, persone d’ogni sesso, razza, età passavano sul ciglio di quella voragine, buttando solo uno sguardo furtivo, quasi a rassicurarsi che quel immenso vuoto, che riempiva ormai le loro vite fosse ancora lì, non si fosse anche minimamente contratto. Non c’è dubbio che, se fosse scomparsa la voragine, in breve, l’attenzione sarebbe stata dirottata su qualcosa d’altro, magari altrettanto apocalittico: un disastro ecologico, un’imminente epidemia d’influenza assassina, ma si trattava di ipotesi, vagheggiamenti d’un futuro del quale non si poteva essere certi, mentre la voragine era lì. Il vuoto c’era, lo si vedeva tutti i giorni, tutti i giorni se ne parlava, tutto sommato meglio quello, d’una non chiaramente definibile tragica eventualità futura, alla quale affidare il proprio isterismo, perché: se dopo quel vuoto non ci fosse stato niente? A questo punto meglio una bella esplosione nucleare, che avrebbe travolto tutto, cosa sarebbe cambiato?
La bomba fu lanciata nella voragine e tutto quello che ne uscì fu: un rumore simile a un peto, di non fortissima entità, ne scaturì anche un pessimo odore, tutti gli astanti iniziarono a ridere, ridere sempre più forte: le più alte autorità planetarie ridevano, ridevano le forze armate di quasi tutto il mondo ivi riunite, rideva chiunque, sempre più forte, quasi tutti quelli che non erano presenti all’avvenimento risero, appena appresero la notizia dai telegiornali, sentendola soffocata dai singhiozzi della sgrigna dei giornalisti di tutto il mondo. Non pochi furono i casi d’infarto dovuti alle risate: morirono decine di migliaia di persone. La bomba atomica aveva fatto le sue vittime, tutto sommato, ma ancora di più ne avrebbero fatte le risate, derivanti dall’idea che l’umanità avrebbe potuto essere annientata, in poco tempo, da un riso incontenibile, generato da un peto puzzolente, scaturito da uno dei più temibili ordigni di morte, che l’uomo avesse mai inventato.
Ovunque si vedevano persone stravolte dai crampi per le risate, con le lacrime agli occhi, il volto deformato da quel irrefrenabile moto di riso, ormai diventato letale. Il mondo s’era pressoché paralizzato, nessuno riusciva più a fare niente o quasi, s’erano verificati tragici incidenti ferroviari, aerei, stradali, a causa delle risate: si potevano veder treni che avevano preso fuoco, essendosi scontrati, erano quasi completamente carbonizzati; c’erano cumuli di macchine che erano finite le une contro le altre, spesso avvolti dalle fiamme, o ancora fumanti, fra questi ammassi metallici, anziché i lamenti dei feriti, si sentivano strazianti ululati di riso.
Molti cercarono la salvezza, asserragliandosi in casa, isolandosi completamente, cercando di pensare a cose poco divertenti, ma tutto quello a cui pensavano era parte di quella società che stava andando in frantumi, a causa delle risate generate da un peto puzzolente, emesso da uno dei più terribili e sofisticati ordigni prodotti da quella stessa società. Non era possibile non ridere e dalla disperazione dovuta all’incontinenza del riso, molti di quegli anacoreti preferivano suicidarsi, per evitare la lenta agonia, molti morirono, sbattendo, furentemente, la testa contro le pareti delle stanze entro le quali s’erano rinchiusi.
Alcune donne morirono mentre partorivano e con le loro strazianti risate si confuse il pianto dei neonati, molti dei quali perirono nel giro di poche ore, altri sopravvissero, tratti in salvo da un ristretto gruppo di persone, immuni da quell’epidemia di riso letale. Si trattava di pochissimi individui che ricordavano a memoria: Omero, Virgilio, Dante. Fu la poesia a salvarli: quella delle tradizioni avite. Mentre costoro compivano i loro atti di devozione, nella liturgia di Omero, sul ciglio della voragine, un giovane sui venti anni salì a cavallo e vi si gettò volontariamente, venendo inghiottito dalla terra che si richiuse immediatamente sopra di lui, altrettanto improvvisamente, in quel punto, prese a zampillare una fonte.
Quanti ancora si contorcevano per le risate rinvennero, si sottomisero volontariamente al ristretto gruppo, che non aveva mai ceduto a quella letale euforia, riconoscendone nei componenti, un’innata superiorità. La civiltà che si sviluppò aveva il proprio centro sacro nel luogo ove s’era aperta e richiusa la voragine. Prima ci fu un boschetto, con la fonte d’acqua, al centro, ove gli alberi si aprivano, lasciando che fosse investita dai raggi solari. In questo boschetto ogni venti anni, veniva portato un neonato, che imparava, in un mutuo scambio con l’acqua splendente, di vagiti e gorgoglii, ad esprimersi in versi, pronunciando i quali, garantiva la sopravvivenza della sua stirpe, il significato era negato ai più e riservato agli eletti. Al raggiungimento del ventesimo anno d’età il giovane diveniva capo della casta dei guerrieri e, in caso di pericolo estremo, si sacrificava spontaneamente per la salvezza della comunità, proprio come era avvenuto all’epoca della voragine.
Col tempo il boschetto fu sostituito da un edificio, prima in legno, poi in pietra, con decorazioni sempre più fastose, realizzate con marmi provenienti da tutte le parti del mondo, l’antica fonte, venne decorata con mosaici policromi, ritraenti la vicenda del giovane che si immola per salvare il proprio popolo, gettandosi nella voragine, venne coperta se non per un’apertura lasciatale sopra, per permettere ai raggi del sole di entrare, ma questi si disperdevano, riflettendosi, sulle tessere vitree, i marmi policromi, inondando quell’immenso e fastoso edificio, con mille riflessi cangianti: un incredibile spettacolo per gli occhi, un gioco di luci, ombre, colori, luccichii: un gioco e per gioco venivano ormai portati tutti i neonati alla fonte, “che un tempo credevano parlasse”, così diceva quella gente, che non aveva più poeti e leggeva gli antichi versi nei libri, tradotti in una lingua sempre più lontana dalla originaria matrice.