lunedì 11 giugno 2012

Fortezza Albornoz


Un tempo qualcuno lì combatteva.
Qualcuno, un tempo, era sentinella del mattino.
Sbrigliavano i cavalli impomatati
mentre Federico guercio lampeggiava
                                           nell’armatura.

Un tempo lì c’era il palio mascherato.
Qualcuno, un tempo, era guardiano notturno.
Poi i cavalli morivano. Vi era la concia.
E il raso trapunto custodito.

La perizia dell’artigiano. Nocche
Gonfie. Per magia una rosa canina:
tutto era locus amoenus un vociare
di servi mercatori di pupille d’ambra.

E di cortina.

*

Noi spesso andiamo in cima alla fortezza, nei giorni assolati.
Non badiamo alle concessioni della storia. Ma godiamo di noi
e della natura, che invade gli stinchi, che rende parassitari.
Assuefatti ad una mistica adusata, tra i segmenti
                                                                                di bacelli.
C’è chi ride, chi scodinzola, chi gioca a palla. Noi lastrichiamo
le solite domande sospese. ‘La balza c’attende ancora’, ci diciamo.
E tutto sommato, ‘meglio così.’ Poiché non tocca essere sterratori.
Al massimo registratori di sensazioni decadenti,
                                                                       o di voci impopolari. 
Questa natura, distese tallonate, acquitrini, dentature smagliate
fa nuotare in pace con la coscienza e con gli altri.
E, paghi d’una calma acciottolata, rimaniamo con le imposte
                                                                                        abbassate.
Ma ci manca ciò che nel quattrocento fu la fortezza.
Non frangivento per anonimati, che sguazzano come anguille
in erotico oblio. Manca il sigillo bollato della madia.
                                                                                    La sicurezza.

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