giovedì 5 aprile 2012

Io e zio Seamus, ovvero “il più grande poeta al mondo”

     
     Piazza Maggiore è ferita da un tenue scroscio di pioggia-lama. La taglio in due, seguendo l’indicazione del braccio sinistro d’un grosso crocifisso non intarsiato e color crema. Ecco – colgo lo svincolo madornale – ecco, una piccola piazzetta, un piccolo albergo, una minuscola entrata per un grande uomo. Che non sono io.
     Ohibò, sono in anticipo di un quarto d’orami dico, traballante. Panacea di tutte le puntualità è la sigaretta. La fumo con l’acqua alle tempie, il grigio sulle spalle. Ah, il catrame. Fatto questo (considerato che il vento chiede sempre due tiri), leggo l’ora e non sono passati più di sette minuti. Cammino su e giù. Grigio diventa azzurro, perdiana. No, e cammino ancora. Poi, mi faccio coraggio, entro, guardo la reception, getto in pasto al sorriso smagliante dell’uomo inamidato il ridicolo dovrei incontrare il poeta Seamus Heaney, mi risponde il professore è in camera, si accomodi al primo piano e, in un balzo, sono di sopra, la poltrona mi chiama, piantato, in tiepida attesa.
     La professoressa Morisco, mia correlatrice all’epoca della discussione, doveva far da interprete, perché, sapete, il sottoscritto ha avuto una storia difficile al liceo per quanto concerne le lingue straniere, storia complicata, dalle mille sfaccettature, mare torbidum, insomma… il sottoscritto non sa amabilmente una mazza d’inglese.
     Ma si ode scoccare l’ascensore e un omone canuto mi saluta, lieto: il Maestro è arrivato. Ora che dico? Siede al mio fianco, sul grosso divano marrone in mogano. Biascico qualcosa, porgendogli una poesia che avevo scritto su di lui e nella quale figurano tre o quattro versi in gaelico.
    Very good, very good…, pare davvero contento e legge ad alta voce, traducendo simultaneamente dal gaelico, lingua d’origine, all’inglese, lingua dei padroni. Intanto arriva la Morisco, rompe la lastra di ghiaccio infilzata nel mio cranio. Parliamo. Porgo domande su Virgilio, lui risponde affabile ma a fatica, perché l’ictus lo fa ancora tremare. Si parla di Dio, della trascendenza. Di quel lasciare-andare che affronta la morte ad occhi sinceri. Egli ne è certamente attratto, eppure anni di violenza e di guerra civile in Irlanda non possono non lasciare una macchia indelebile e una certa delicatezza (delicatezza verso quei morti da lui cantati in Station Island) nel professarsi dell’una o dell’altra fede.
     Questo pudore, questo tatto lo sprofonda in un sospiro. Lungo come la canna di una pistola puntata sul collo. Il dialogo a tre prosegue fino alla sua fine. È tempo di convenevoli. Gli ingiungo di firmare il libro del pungolo e della ferita metafisica, dico che nella nostra famiglia egli è molto popolare, simile ad una celebrata rock-star. Con firma tremante la mano più incisiva al mondo solca il frontespizio e il mio umore rinato. È come se fosse uno zio. Zio Seamus.
     E, in modo del tutto inaspettato e non-riflettuto, mi chiede una firma con dedica alla poesia dei tre o quattro versi gaelici. Paradossale, penso. Già l’onore di sedergli accanto ed essere nipote acquisito, ora faccio anche l’autografo al Premio Nobel dei miei desideri, il poeta della vanga e dello scavo, Virgilio dell’anima, maestro di vita, o semplicemente Maestro.
     Io, ventitreenne meridionale, conosciuto Heaney, salutato, baciato, visto il tremore di mani che entreranno nella storia, conversato, capito la sua poesia, le sue tribolazioni, la sua speranza che la parola del Vangelo dia l’ultima energia alla polvere della fonte inesausta, insomma io, davvero Felix (per usare un epiteto da imperatore romano), io cosa cerco ancora?
     Esco dall’albergo, giro l’angolo, aspetto. Panacea di tutte le attese è la sigaretta. Accesa, bagnata nella riga tra l’indice e il medio. Esce la combriccola, Heaney parla con la Morisco, la moglie Marie è a braccetto con un’altra donna dal portamento inglese. La pioggia mi ferisce gli occhi di commozione, mentre tagliano in due Piazza Maggiore, senza seguire nessun braccio del crocifisso, e spariscono nella bruma. Non pioggia normale, ma pioggia-lama. Che il cuore mi taglia, per sempre. 

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