Colà dove non si puote ciò che si vuole,
non desiai trasumanar da solo;
di Giacomo Henio fui poetica prole.
Com’un augello ch’insegni il volo
a lo suo nato, che di volar si dole,
ei era scevro di veste di polo,
sì pur villica speme, coi capelli
eburnei e di luppolo l’odor acre,
nell’hibernio manto i dentelli.
Seguitavamo per l’altrui male,
tanfi di scalogna e bruttarelli,
scemi di Virgilio, dolcissimo patre.
Et ei, occhi di bragia, ebbe a dirmi:
«Figliuol, quivi non ragionar d’amore,
– cagion che fora di sé fece irmi,
ma mira come di disio si more.
Non vuoi forse, canaglia, aitarmi?
Il nïente ha leso anche ‘l core
et il dimonio ha perduto la spada:
contate son le sue fetide ore.
Iddio non vuol che tu a lo regno vada.
Vinca tua guardia ‘l mio cammino:
i’ per te non son guida, ma piaga;
codesto è l’oscuro mio destino,
codesta la nostra mala desianza».
D’appresso bevve gocciol di vino
a suggello dell’infera sbronza.
E chiesi allor a lo duca mio,
tristo e con sciocca petulanza:
«Maestro, l’inferno è loco rio,
tu se’ ombra vana e pur schivo.
Che i’ sia l’ultim’ omo pio,
se anco in ciel v’è goder lascivo?».
Et ei guardommi, sospirò e disse:
«Non è pio chi par malvivo.
Omero non fui, né tu Ulisse,
ma è tempo degli dèi bugiardi,
veri per chi di codesti visse
pria di dar fama agli infingardi.
I’ conforto non darò, né sostegno
a l’inceder dei tuoi passi tardi:
lo volto tuo mi venne a disdegno».
Allor mi volsi lasso ove ‘l foco
s’annidava; non vidi arso legno
e non vidi gente in broda e roca,
e non vidi com’allor fu l’inferno,
sì fiacchezza ambo gl’irti loci.
Gelo non spirò da l’uscio del verno,
nianche la Giudecca se stessa parea,
e Minos sanza cinghia né Averno,
e Francesca non danzò ne la bufera.
Poscia, col cor compunto, cominciai:
«Segnor, perché mai debbo rimaner
tra sterpi sanza speme, privi di rai?
I’ vorrei tornare donde son venuto,
e non star di presso ‘l fiacco viavai
a rimirar l’agro volto di niuno.
Almeno parla, te ne priego, di poesia:
consolami col tuo parlar nudo,
men dura e torta sarà la via,
men acre sarà ‘l grigio festino».
Et ei languì di iusta malinconia
rimirando i cenni de lo destino.
Si fermò di gitto ‘l mio dottore
e guardò dolente com’un fantolino
la matre scorge, se colto in errore.
Crollò la fronte la fidata scorta:
«Ingenuo figlio, – disse di core,
ascolta ‘l verbo: la poesia è morta.
Ahi quanto piansi, quanto fui sanza pace:
il giorno mi gittò fra l’ombra corta,
ove ‘l rosso sol spento sì tace.
Da quand’ella è svanita colle Muse,
vuotato s’è l’inferno e la sua brace
e del celeste regno le porte chiuse.
A te convien tenere altro viaggio
fuor da le speranze illuse
che non confanno a l’omo saggio,
in pozze d’acqua perigliosa e guata,
ceder a lo sospeso eremitaggio,
ingannare forte nostra sventurata
semenza, finché a l’ornamento
de la spenta nostra traversata
sia dimentico ‘l tuo duro stampo».
A seguir cotante parole ebbre,
che risonaron a mo’ di lampo,
s’appressarono livide tenebre
su la piaggia e su tutta la Caina:
Acheronte infernal parve l’Ebro,
lo spirto conducea ad una ruina.
Nulla si vedea di ciò che fusse savio,
che non oltraggiasse virtù divina.
E s’incupì ‘l viso di Giacom Henio:
corregli su la fronte bestial brama
simil a lo verde furor padanio.
Ma a codesti toccherà la lama.
Pria di svoltar per nere contrade
onde s’attrista sì che ‘l contrario ama,
i’ non caddi come corpo morto cade.
Per molte fiate girammo a talento
vieppiù a tinte fosche e rade:
e la terra non s’aprì, né diede vento.
A lo duca dal pelo imbiancato
allor dissi: «Non reggo ‘l tormento;
meo dottore, cosa t’ha cangiato?
Tu che poeta fosti de lo Fattore,
de la Riparazione hai motteggiato,
meo conforto, rara gemma e cantore,
cos’ha tradito ‘l tuo disegno?».
Com’un ape che sdegna ‘l suo fiore,
ei disse: «Or vedi, figlio, il segno:
tu sei che hai scelto via fetida
e dell’Amor negato ‘l pegno
per seguitar di codesta epoca
la nova demenza. E noi parliamo,
fora di lingua novella, lepida
e salda, in motto d’antico toscano
poiché ‘l tuo scarso poetar empio,
non sia ad altra volgar calca vano.
Ma su siffatto letterario scempio
s’addensa greve una nube di terra,
convienti sigillar tuo tempo
e lo silenzio – il labbro serra!
Perduta è per vostra dolorosa prole
la lingua che v’allevò materna
– vuotato a la veccia è l’ampio otre,
e ‘l suo fabbro, sicché non ti crucciare:
vuolsi così colà dove si puote
omai nulla, e più non dimandare».
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