martedì 7 febbraio 2012

Contro ‘l’holliwoodiana maniera: un’analisi del film Á bout de souffle di Jean Luc Godard



«- Lei non ha nulla contro la gioventù?
- Sì, preferisco i vecchi.»
                                                                                                  (dal film A bout de souffle di J. L. Godard)

Si è tanto discusso riguardo la tensione della prima letteratura ed arte americana verso il vecchio mondo; si è pure disquisito sul tentativo già dell’America ‘pre-americana’, quella puritana, di creare un ‘nuovo Adamo’; ma l’evidenza mostra oggi e costringe ad interrogarsi sulle ingerenze della cultura americana – nello specifico caso di questo articolo, del cinema – sul ‘gusto’ europeo e sulla sua omologazione ai canoni d’oltre oceano, o Holliwoodiani. La polemica non è nuova; basti pensare al famoso esordio cinematografico di Jean Luc Godard – oltre che ai suoi articoli di critica contenuti nei Cahier du Cinéma – con il film À bout de shuffle. La frase con cui ho aperto il mio articolo è tratta appunto da questo film e si rivela una chiave di volta per sviluppare la questione che mi propongo di discutere.

***

Siamo sugli Champs Elysées, dove passeggiano centinaia di ignari passanti. Michel Poiccard (Jean-Paul Belmondo) cammina con Patrizia Franklin (Jean Seberg), cerca di convincerla a seguirlo in una fuga verso l’Italia e via dai guai; lui, ladro d’auto d’esistenzialistica indifferenza e lei, studentessa americana innamorata ma restia ad abbandonarsi al sentimento puro. Dopo un fugace saluto una ragazza raggiunge Michel e gli rivolge la domanda «Lei non ha nulla contro la gioventù?» a cui segue la risposta «Sì, preferisco i vecchi» che potrebbe, certo, risultare persino banale se non fosse che, in una connotazione recuperabile solo attraverso artifici formali, racchiuda in sé un significato extra-filmico: l’ineludibile conflitto che da vita ad ogni tradizione, padri contra figli. I Vecchi sono i registi degli anni cinquanta, che legati ai paradigmi della omologante favola di Holliwood sono incapaci di rappresentare la poliedrica e vivace realtà francese tra gli anni ‘50 e ‘60; compito che si affidano i Giovani, ossia il gruppo che ruota attorno alla rivista dei Cahier du Cinéma di cui Godard è uno dei più ferventi membri (Resnais, Trouffaut, Chabrol, Rohmer). La ragazza infatti, nell’interrogare Michel, stringe fra le dita un numero di questa rivista. La domanda diviene a questo punto, quasi un teorema: da maestro del discorso meta-cinematografico e stilistico, e da teorico e critico di punta della Nouvelle Vague Godard intende, attraverso un inserimento della discussione ‘reale’ e ‘mondana’ all’interno della finzione del film, proporre la sua idea di nuovo cinema che si stacchi dalla classica fiction di stampo favolistico-holliwoodiano e si inserisca nella vita vera: politica, sociale e filosofica della Francia di quegli anni. Detto questo è senz’altro naturale riconoscere il debito stilistico di questo movimento verso il suo più prossimo parente italiano: il neorealismo, tuttavia vi è uno scarto ideologico che differenzia la ‘nuova onda’ francese dal fratello italiano: una forte spinta intellettualistica verso il meccanismo cinematografico in sé, così da discendere ad una autoreferenzialità e ad una riflessione sul mezzo che da vita ad alcuni tra i più grandi capolavori meta-cinematografici del cinema di sempre.
La realtà viene così portata sulla scena, ma il film è finzione e non realtà, questo tiene a spiegarci Godard con le sue sgrammaticature, con gli sguardi in camera a coinvolgere/esautorare il pubblico, per non smarrire appunto, seguendo quella che è la teoria brechtiana del teatro, la lucidità del pubblico e la sua capacità di riflessione sull’opera. La finzione del film ha in questo modo l’importante compito di formare un pensiero, di creare un opinione; con le parole di Godard: di “fare politica”, e questo non attraverso una trama avvincente o attori taumaturgici, ma attraverso la forma, attraverso lo stile e lo sguardo. La realtà non deve più essere resa fiction tramite schemi fissi e collaudati per strappare lacrime o creare souspance, ma osservata da un occhio capace di creare su di essa una verità: l’occhio dell’autore.

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