domenica 25 settembre 2011

Spazi II

II

Mi alzo presto la mattina, quando il cielo ancora buio è bagnato da appena un po’ di viola sopra l’orizzonte. La sera mi ritiro che nessuno più passeggia per strada, se non qualche brigata di ragazzi euforici di alcool, e pochi e strani uomini avvolti di mistero. Non dormo. Giaccio e poltrisco sotto le coperte pulite; mi giro e rigiro cercando di scacciare i rumori che non sento e che tuttavia non mi lasciano dormire. Odio il rumore quando c’è silenzio. Di prima mattina scappo subito di casa, non potrei sopportare la vista odiosa dei mobili polverosi e dei muri giallastri. Galleggio per le strade, vago senza meta. Odio avere obbiettivi. Mia madre mi diceva sempre, nella sua candida ingenuità, che nella vita è indispensabile avere degli obbiettivi, quando li hai allora non conta che tu sia ricco o povero, grande o piccolo, bello o brutto, la tua vita allora avrà un senso. Ma io vago senza obbiettivi e in fin dei conti non sto male. Non mi interessa nulla, non mi arrabbio per nulla, nulla mi spaventa o mi da gioia. Vivo forse una vita tra le più equilibrate che ci possano essere. Non giudico nessuno. Non mi importa niente degli altri, tuttavia mi diverto a passare le ore osservando vivere le altre persone. Sento una pietà infinita per quelle vecchiette che la mattina presto vedo pellegrinare in chiesa; che belle che sono, tutte intimorite e scure; hanno paura della morte, la sentono vicina e cercano, sforzandosi oltremodo, di credere che dio le salverà e che la vita sia eterna. Forse qualcuna tra loro ci crede veramente. Queste le si riconosce al primo sguardo: mentre le altre se ne vanno a testa china e pensose, queste ultime sembrano più serene, chiacchierano tra loro di sciocchezze: “Gina, sai che la figlia di M. ha trovato lavoro come badante.” “Lo so Pina, quella sì che è una brava ragazza” Oppure: “Maria, hai visto il figlio di E. come va in giro? Con quei capelli lunghi, sembra una donna, che gioventù!” Quando una dopo l’altra spariscono dietro la grande porta della chiesa come una fila di formiche nere, con una breve risata mi alzo e vado verso la stazione. Anche qui mi siedo e rimango ad osservare. è strano vedere le persone partire o tornare: grandi abbracci, lacrime, baci. Certi giorni sembra proprio di guardare un film. Bah! Quando sono stanco di tutto questo guardare me ne vado al bar della stazione. Lì Giovanni mi serve il mio solito bicchiere di vino, magari due, o tre. Dopo che quel rosso veleno comincia a fare effetto tutto pare più bello. Le persone che passeggiano per strada mi sorridono tutte, mi prende un senso di vertigine quando, giunto in piazza del popolo vedo quell’affollarsi di persone, quell’enorme statua e ripenso a come tutto assomigli ad un grande formicaio in cui si agisce senza senso e senza alcun obbiettivo. Che strano. Povera mamma, lei ci credeva alla vita. Continuo a passeggiare fino al lungo mare, fino al molo. Mi siedo di fronte al mare e allora mi coglie un profondo senso di libertà. Ancora inebriato dal vino bevuto a stomaco vuoto mi metto ad osservarlo: quell’immensa distesa d’acqua, quel deserto azzurro. Penso a quanto sarebbe bello perdersi nel mare, gettarvisi. Nuotare fino a poter toccare l’orizzonte. Dopo qualche minuto mi sento male, comincia a girarmi la testa, mi prende un senso di nausea, forse la stessa di cui parlava lo scrittore francese, non so. Mi sembra di vedere il mondo, le persone, mia madre, la processione di vecchiette, gli amanti alla stazione, tutti li vedo camminare sulle onde di quel mare. Perché lo fanno? Perché non affondano, mi chiedo. Dove trovano la forza, il coraggio di andare avanti? Di sorridere? Allora mi sento ancora più male. Mi sembra che la mia vita sia sbagliata, che sia corrotta e loro sembrano avere ragione. Mi guardano con i loro visi pieni di scherno, con sorrisi più amari di un ghigno. Ridono di me, mi insultano. Mi indicano alle spalle, mi prendono a calci, mi porgono il braccio quando cado e poi lo ritirano quando sto per afferrarlo. Perché lo fanno? Perché? 

Continua

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