Dal Corriere della Sera dell’1/7:
Dominique Strauss Kahn, torna libero. La procura di New York ha accettato di rilasciare l’ex direttore del Fondo monetario internazionale, dopo i dubbi circolati sull’autenticità delle accuse rivolte all’economista francese dalla cameriera del Sofitel di New York Ofelia. Gli inquirenti, dopo il presunto episodio di violenza all’Hotel Sofitel, hanno passato al setaccio il passato e il comportamento della donna. Tenendo sotto controllo il suo telefono hanno intercettato un colloquio tra Ofelia e un detenuto avvenuto alla vigilia di una importante deposizione. I due avrebbero discusso dei possibili vantaggi nel denunciare l’ex direttore del Fondo monetario Strauss-Kahn. Lo stesso uomo, legato a traffici di droga, a partire dal 2009, avrebbe fatto insieme ad altri dei versamenti in favore della donna per un totale di 100 mila dollari. Soldi sparpagliati tra conti in Arizona, Georgia, New York e Pennsylvania. C’è il sospetto che si tratti di un’operazione di riciclaggio di denaro. Altra scoperta: l’accusatrice di Strauss-Kahn ha sempre sostenuto di aver un solo telefono ma la polizia ha accertato che pagava ogni mese bollette per centinaia di dollari a cinque differenti compagnie.
Un antico proverbio degli indiani d’America recitava così: “Prima di giudicare un uomo, cammina per tre lune nelle sue scarpe“. Naturalmente questa notizia non cambierà il verdetto pronunciato dal tribunale mediatico. Chi è giudice di questo “organo giudiziario”? L’opinione pubblica, naturalmente. Un’opinione pubblica sempre più superficiale, approssimativa e mossa dall’istinto più che dalla ragione. E il caso di Strauss Khan non rappresenta una circostanza isolata dal resto degli eventi; in Italia, da Cogne a Garlasco passando per Avetrana, negli ultimi dieci anni si è evoluta in progressione la peggiore ambiguità della comunicazione digitale. Non sto ora a citare tutti i programmi televisivi che continuano a trasmettere puntate sull’omicidio Sarah Scazzi o sul delitto di Cogne; le programmazioni rispondono a “imprescindibili” logiche di target comunicativo e commerciale (in poche parole, il caso che avvince e coinvolge maggiormente merita di essere mandato in onda), in barba agli innumerevoli episodi di omicidi che avvengono quotidianamente. Piuttosto, desidererei soffermarmi ad analizzare la disinformazione onnicomprensiva e incondizionata che contrassegna l’opinione pubblica contemporanea. Premettendo che il giudizio della collettività è quanto mai fondamentale per il mantenimento di una struttura politica e sociale democratica, non si può comunque posporre e sottovalutare un fattore rilevante come la coscienziosità del pubblico giudizio, un fondamento universale per la qualità dell’informazione ma non solo. I “nuovi villaggi globali e virtuali” possono oggi essere valutati sulla base di due deduzioni antitetiche; da una parte, difatti, non si può negare che i vari social network preservino e garantiscano il pluralismo informativo: la libertà d’espressione è indubbiamente tutelata, non essendoci particolari veti o censure. Per converso, un senso di libertà non responsablizzato può portare alla complessiva opacizzazione dell’opinione pubblica: ed è così che i fori ideali per il dibattito costruttivo si trasformano in spianate per un giustizialismo mediatico, sterile e angosciante. Ricordo ancora quando, a poche ore dall’omicidio di Sarah Scazzi, su Facebook venivano pubblicati i primi gruppi stipati di odio e livore nei confronti di Michele Misseri (definito come un orco, un figlio di puttana, un animale da abbattere senza pietà) nei quali aderivano e “diventavano fans”migliaia di contatti. Che siano state pagine di stampo goliardico o meno, la sostanza non cambia: Misseri era l’assassino, era già stato processato dalle Corti virtuali. Lo stesso è avvenuto con Strauss Khan: in questo caso la vicenda riguardava una “presunta” violenza sessuale, denunciata per altro da una cameriera di discutibile rettitudine, che nel giro di pochi minuti, grazie al tempestivo sistema di multimedialità delle notizie, è stata comprovata e convalidata dai tribunali mediatici. La sentenza immaginaria, per quanto fosse generica e astratta, è stata addirittura corroborata dai movimenti femministi che non hanno perso l’occasione per additare DSK come uno sporco maniaco. Già, peccato che il processo per stupro (quello vero, che inizierà l’8 settembre) non è ancora cominciato; intanto sull’ex direttore del Fondo Monetario Internazionale si sono riversate un’infinità di accuse e denigrazioni. Ora, dalle udienze preliminari, emerge addirittura l’ipotesi del complotto; per quanto possa apparire autentica o fallace, non intendo assolutamente asserire che Strauss Kahn sia innocente e sia l’antesisgnano dei morigerati. Ribadisco piuttosto che, con ovvia certezza, permarranno lo stigma e il discredito che gli sono stato confenzionati e marchiati a pelle dai tribunali d’accusa dell’opinione pubblica, sempre più amorfa, superficiale e disinformata. Una vera e propria tirannia della maggioranza, in cui le convinzioni più imprecise, vaghe e indefinibili diventano realtà solo grazie ad una condivisione su Facebook. Ed è così che Avetrana diventa “meta del turismo dell’orrore”; ed è così Strauss Kahn viene fatto oggetto di derisione e disgusto generale, con tanto di canzonette ironiche e declassamento professionale. Che si tratti, poi, di un complotto o meno, l’unica certezza è che l’opinione pubblica va salvaguardata dalla speculazione di massa. Occorre tutelare e pungolare la “qualità” e l’autenticità della libertà d’espressione dell’individuo, affinché non diventi strumento asettico della massa. Questa è la realtà del processo mediatico: non educa alla legalità, né sensibilizza le coscienze soggettive nei confronti della violenza; fa sentire parte di un tutto quando in realtà non si è parte di niente; non incentiva l’approfondimento dell’analisi soggettiva e istiga all’irriflessione di giudizio, favorendo quindi la mediocrità dell’opinione pubblica. Il processo televisivo risponde ad una logica meramente commerciale e speculativa, il processo digitale è fine a se stesso: in ogni caso il risultato si riflette pienamente nella superficialità e nella piattezza della società. Concludo allacciandomi ad un famoso aforisma di Oscar Wilde, “la società si avvale del diritto di infliggere terribili punizioni all’individuo, ma ha anche il vizio supremo della superficialità e non riesce a comprendere ciò che ha fatto”. Lasciamo che siano i tribunali (quelli fatti di edifici, giudici e udienze) a giudicare.
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