I paradossi del governo cinese e l’impegno concreto per il popolo tibetano: diritti e libertà
Era prevedibile, forse troppo prevedibile. In seguito all’incontro svoltosi sabato scorso presso la Map Room della Casa Bianca tra il Presidente Barack Obama e il Dalai Lama, da Pechino si è riversata una caterva di polemiche su un colloquio che, in sostanza, ha avuto al centro del dibattito una discussione sulla protezione dei diritti umani nel mondo.
I patimenti e le privazioni delle libertà culturali, religiose e politiche cui il popolo tibetano è costretto a soggiacere da sessant’anni a questa parte non conoscono limiti di sorta. Del resto è innegabile che, dalla caduta dell’impero tibetano – avvenuta nel XI secolo – passando per le dominazioni mongole e cinesi tra il 1200 e il 1700, per arrivare quindi alla colonizzazione britannica di fine ’800, il Tibet abbia sempre dovuto confrontarsi con potenze straniere intenzionate ad annetterne i territori. L’unica differenza è che oggi giorno l’aggressore politico e militare rappresenta la prima potenza economica emergente del mondo, un gigante dai piedi d’argilla che mantiene una struttura sociale interna improntata sull’ambiguità politica e totalmente distolta dai principi basilari della democrazia. Un macabro trasalimento di comunismo nazionale, sostenuto da un’economia occidentalizzata e aperta ai mercati esteri. Il paradosso vuole proprio che nel 2007 il parlamento cinese, sotto la presidenza di Hu Jintao, ha votato una legge che consente l’affermazione della proprietà privata nel Paese; un insperato segnale di apertura al pluralismo? Macché. Lo stesso Presidente dell’Assemblea Nazionale del Popolo – Wu Banguo – ha rimarcato, alla luce delle rivolte nei Paesi arabi, che un pluralismo all’occidentale provocherebbe conseguenze disastrose dal punto di vista della stabilità nazionale: pertanto la democrazia è fuori discussione. E nonostante l’attuale Premier – Wen Jinbao – abbia recentemente manifestato l’intenzione di impegnarsi in una riforma istituzionale che riesca a fare fronte ai principali problemi del Paese, legati all’aumento dei prezzi degli immobili e degli alimenti, alla corruzione e all’inquinamento, sembra piuttosto difficile che la situazione possa cambiare e che, in particolare, il Partito Comunista intenda allentare la corda sul controllo dello Stato. La notizia delle polemiche odierne, provocate da un semplice colloquio tra il Dalai Lama e il Presidente degli Stati Uniti su una materia fondamentale come il rispetto dei diritti umani, ne è un chiaro esempio. Se si pensa che nemmeno il terribile Kublai Kahn (nipote di Gengis), durante la guida dell’Impero Cinese nel 1200, costrinse la popolazione tibetana alla sottomissione, incentivando anzi i dibattiti teologici tra taoisti e lamaisti e lasciando peraltro immutato il sistema di amministrazione del Paese conquistato, è proprio il caso di affermare che anche il passato votò contro all’attuale oppressione politica. E’ fatta risalire a quei tempi la controversia sino-tibetana sulla presunta “cinesità” del Tibet. Se si considera che la dinastia mongola Yuan, costituita dallo stesso Kublai Kahn, non aveva nessun tipo di legame con le successive discendenze imperiali Ming, è a rigor di logica da avvalorare l’assunto che vede la contraddizione nel dominio cinese in Tibet: è come se l’India rivendicasse la supremazia nei confronti del Myanmar (o Birmania) perchè in passato appartenente all’India britannica. Ma l’evidente logicità di quest’argomentazione non trova riscontro nella realtà dei fatti: il governo tibetano è oggi costretto all’esilio nella città indiana di Dharamsala. Il neo-eletto presidente (o Kalon Tripa), che entrerà ufficialmente in carica da agosto, è il giurista quarantatreenne Lobsang Sangay: un primo ministro che, come egli stesso ha sottolineato, punterà tutto sull’indipendenza e che darà, pertanto, del filo da torcere a Pechino.
Di certo non gli mancheranno stimoli e motivazioni; dai resoconti dell’Associazione Italia-Tibet emergono dati spaventosi e raccapriccianti circa le cosenguenze dell’attuale occupazione comunista: dall’inizio del dominio coloniale cinese, difatti, circa un milione di tibetani sono morti a causa delle aggressioni militari; dal 1950 a tutt’oggi il 90% del patrimonio artistico e architettonico tibetano, inclusi circa seimila monumenti tra templi, monasteri e stupa, è stato distrutto; lo scarico dei rifiuti nucleari e la massiccia deforestazione attuati dal governo di Pechino hanno danneggiato in modo irrimediabile l’ambiente e l’ecosistema del Paese; lo sviluppo economico in atto in Tibet arreca benefici quasi esclusivamente ai coloni cinesi e non ai tibetani. E mentre prosegue la pratica della sterilizzazione e degli aborti forzati delle donne tibetane, la sistematica politica di discriminazione attuata dalle autorità cinesi ha emarginato la popolazione tibetana in tutti i settori, da quello scolastico a quello religioso e lavorativo. Di fronte a questi intollerabili crimini l’Europa deve assolutamente assumere una posizione più marcata. Già nel 2008, in occasione delle Olimpiadi in Cina, il vecchio continente si spaccò sulla proposta di boicottarne la cerimonia di apertura. I primi ministri di Francia, Polonia e Repubblica Ceca erano intenzionati a non partecipare agli ossequi inaugurativi delle manifestazioni sportive. Allora in discussione c’era anche il ritiro degli aiuti economici e militari cinesi al regime del Sudan, di cui la principale conseguenza è constatabile nel genocidio del Darfur. Va segnalato, peraltro, che il movimento dei liberali europei (l’ALDE) fu il principale promotore politico per il boicottaggio delle cerimonie. Il fatto che non si riuscì a trovare una linea comune e condivisa in materia esprime un indicatore sintomatico sull’attuale coesione politica dell’UE. La minaccia economica della superpotenza cinese e il rischio rappresentato dalla sottovalutazione dei tassi di cambio non possono però essere degli alibi; se perfino Obama ha deciso di adottare una linea aggressiva nei confronti della politica monetaria e commerciale cinese, nonostante il governo di Pechino custodisca il checkup del debito pubblico americano, occorre assolutamente che in Europa si congiungano dei segnali forti e influenti, ispirati al rispetto dei principi democratici e delle libertà politiche, culturali e religiose. L’Europa, che nel corso della storia ha conosciuto tutte le principali forme di dittatura e di autoritarismo (da quelle fasciste a quelle comuniste) e che oggi vuole ripartire da una base pluralista condivisa, deve necessariamente presentare al mondo un originale modello politico, eretto sul significato delle proprie radici e sulla valenza della propria storia. In merito alla questione tibetana, è opportuno ricordare l’esistenza di tre importanti risoluzioni delle Nazioni Unite, pronunciate rispettivamente nel 1959, nel 1961 e nel 1965, in cui viene esplicitamente richiesta la cessazione di tutto ciò che priva il popolo tibetano dei suoi fondamentali diritti umani e delle libertà, incluso il diritto all’autodeterminazione. Non basta prenderne atto. Se all’interno della Cina una presa di coscienza collettiva è resa impossibile dalla costante censura dell’informazione, il resto del mondo deve attivarsi con la massima indignazione nei confronti del sistema anti-democratico su cui si regge il governo cinese. Come asseriva il saggista francese Charles Pèguy “la libertà è un sistema basato sul coraggio”: finché non si ha il coraggio di denunciare una mancanza di libertà, non ci si può definire realmente liberi.
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