domenica 24 aprile 2011

Il germe di un 'vizio'

L’ombra di un pensiero può celarsi nei labirinti di una mente per anni, rimanere nascosta, svelata solo da intensi e fulminanti attimi creativi, nei quali quel pensiero, se così doloroso, se così estraneo alla vita, diviene arte: quasi una sorta di riscatto verso se stesso. Ed è proprio questa l’arte per Cesare Pavese: il riscatto dal pensiero di una vita che non riesce a vivere, a godere fino in fondo; così tutti i suoi dolori, le sue pene, tentano una sublimazione in forme artistiche. Questo rimedio letterario sarà sufficiente a sopprimere nell’ombra la sua ossessione, il suo ‘vizio’, per quarantadue anni; ma quando raggiunto l’apice del successo con il riconoscimento del ‘premio strega’, si renderà conto del vuoto che si ostina a fiancheggiare la sua vita, non vissuta: «non si può bruciare la candela dalle due parti – nel mio caso, l’ho bruciata tutta da un lato e la cenere sono i libri che ho scritto»[1], e la letteratura non è più sufficiente a confortarlo:  «se avessi imparato a vivere invece che imparare a scrivere!»[2], decide, allora, di compiere quell’atto che prepara da tutta una vita, e sull’ultima pagina del suo diario, come fosse l’ultima pagina della sua vita, scrive: «non parole. Un gesto. Non scriverò più»[3]. In questo modo si conclude il 27 agosto del 1950, all’hotel Roma di Torino, la vita di Cesare Pavese quando i suoi anni erano soltanto quarantadue. Accanto a lui, sul comodino dell’anonima stanza d’albergo, un libro di Majakovskij – altro grande poeta che scelse la  morte anziché un lento trascinarsi in un mondo così assurdamente malato – e accanto a questo una copia della sua ultima opera, quella verso cui sentiva maggiore vicinanza, i Dialoghi con Leucò[4],  sulla cui copertina lasciò scritta questa breve frase: «perdono tutti e a tutti chiedo perdono. Va bene? Non fate troppi pettegolezzi». Sembrerebbe, questo, un monito a dimenticare la sua precoce fine, l’addio ad un mondo in cui l’arte, a quanto pare, non è sufficiente a riscattare una vita non vissuta; ma nonostante l’esplicita richiesta, come è possibile mettere da parte una così terribile fine, nasconderla sotto la polvere e cancellarla dalla memoria: questa morte che non avvenne, come la storia vuole farci credere, in quella serena notte d’estate del 1950 ma che già da tempo covava il suo veleno all’interno della mente travagliata del poeta, infatti quelle ultime richieste del suicida Pavese non vennero ascoltate e le cause di quel gesto così terribile furono per molti critici e per molti studiosi materia di approfonditi studi, diretti sia alla vita sia all’opera dell’autore e dell’uomo Pavese. Una su tutte, l’opera che più delle altre ha indagato profondamente su questo argomento, è il frutto del lavoro di un amico dello scrittore, Davide Lajolo: un saggio biografico nel quale sono messi in luce i travagli che accompagnarono Pavese, la crisi entro la quale portò avanti tutta la sua vita, e soprattutto vi è svelato il Vizio assurdo[5] (giustamente usato come titolo) che Pavese non abbandonerà mai, e cioè, il pensiero del suicidio, sempre presente nella travagliata mente del poeta come una vera e propria ombra dalla quale non è possibile scappare. 




[1] C. Pavese, Vita attraverso le lettere, cur. Lorenzo Mondo, Einaudi, Torino 1966.
[2] C. Pavese, Il mestiere di vivere, Einaudi, Torino 1952.
[3] Ibid.
[4] C. Pavese, Dialoghi con Leucò, Einaudi, Torino 1947.
[5] D. Lajolo, Il vizio assurdo. Storia di Cesare Pavese, Mondadori, Milano 1960.

3 commenti:

  1. E' bello ritrovare un post su Pavese, uno dei miei poeti preferiti.

    Per certi versi è vero, l'arte sta dalla parte di chi la vita non la vive, ma la osserva, e per certi versi la capisce miglio di chi vi è immerso.

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  2. è la distanza necessaria affinché si possa vedere la realtà da un punto di vista privilegiato. Chi si trova immerso nella vita e nelle sue passioni non riesce ad osservarle con sguardo distaccato. Soltanto chi pone un certo distacco tra sé e la vita, come se a viverla fossero gli altri, riesce a poterne scrivere.

    Marco

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  3. Come il pittore che fa un passo indietro per osservare il risultato della propria opera.

    M.G.

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