Non verrò solcando il nero mare
con navi ammainate, chiglie di pece.
Né sarò castigato da crudele
destino o dèi beffardi, ubriaco
di flutti. Nessuna pila di torba
attizzerà il ricordo di città
bruciate al vento, di padri in groppa.
Mi tocca star quieto nell’autobus
e guardare strisce serie di colline,
in silenzio fino allo stupore
del Gran Raccordo Anulare, preso
da uno smog che ha poco di venereo,
inghiottito dalle verdi marrane
e dal suo corso, ingrigito dal tedio.
E sempre invisibile, non muoverò
guerra contro alcuno, ma il male
che striscia sul manto della veccia,
sarà tutto interno, un riflesso,
affine al ristagno nei miei scuri.
E sarò guerriero pio e devoto,
quasi che fossi nemico di me stesso.
Sprofonderò nella metropolitana,
in un Ade assurdo che gorgoglia
di gravosi impiegati in divisa,
con ventiquattrore in pelle che
celano l’istinto di stirpe regale.
Forse allora vedrò un mezzobusto
che somigli al ritratto imperiale.
E dopo aver vagato per pochi
secondi che parranno lunghi anni,
dopo aver combattuto tra fumi
di sterro, con soldati senza scudo
in fila per il biglietto col timbro,
o di là dal frutto conosciuto,
io così verrò alla tua giustizia.
E tu, donna, attrice di te stessa,
reciterai la parte che ti spetta.
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