Albert Camus, morto in un incidente stradale.
Pius Enea, alla ricerca della patria perduta.
Trova il nesso.
Quel che accadde
Citavi Albert, al primo sgelo di cristallo nelle
Mura.
Io replicai con Virgilio e i suoi versi
Che nell’intrusione dei secoli parlavano di te.
Ovvio, bazzichi Roma e il mito potrebbe ripetersi.
In mezzo a discorsi persi, frasi ultra-dotte
E referenziali – nocciolo di cólto autodafé.
In mezzo al magma. Tuo assentire o disdegnare,
Nel modo in cui vero si dimostra ciò che pare.
False citazioni
‘Pazzo Caligola… per avere troppo amato.’
E giù il raggio solare, rapido moto d’enigma.
Ma la memoria gioca brutti scherzi.
Il ‘pazzo’ era ‘mostro’. Stando alla lingua francese,
Da sempre attenta al distintivo – battagliera sbirra
Di sé palafreniera contro gli stranieri screzi.
Il tuo fu errore veniale, una carta a caso del mazzo
Sinonimico. E a correggerlo, sarei mostro più
Che pazzo.
A mille e più watt
La scossa elettrica di sapere che lo conoscessi.
Dio sa cosa mi si scrollò per la testa, all’epoca.
Non volontà di potenza ma certezza che io fossi
Tenebra e tu lampadina elettrica in fiamme
Che dia input al mesto silenzio che mi avvolge.
E dal giorno sento ancora un formicolare
Un rosicchiare di versi informi, alla Ezra Pound.
Così i fili rigovernati attendono il loro black-out.
Madrigale in fiamme
Altra domanda, altro errore. Adesso un Nietzsche
Scambiato per Euripide, la vittima per il carnefice.
A parte i due millenni e mezzo di differenza,
Non fece nulla. Come non fa nulla il mio estro
Di citatore dal latino. L’Enea sguinzagliato.
L’affabulazioni, l’oratoria, la capibile ingerenza.
Tizzoni di lettere infuocate esposte ai venti.
Come non faranno nulla questi madrigali spenti.
Electric Light
Non sentore d’arcano la poca illuminazione.
L’assenza di luce – buio spolverante il portico
Fitto fino al non vedere oltre il palmo della mano
Era creato ad arte dal filare delle Parche.
Era voluto dal dio romano in caduta
Sulle nostre spalle scricchiolanti d’umano.
O da semplici fili elettrici compromessi.
Era per te, madame. Perché ne risplendessi.
The walk
Ex nihilo, ci fu la menata delle ‘o’ chiuse.
Il ‘come si pronuncia’, una sgallatura
Per chi cova nel sangue lo sbarro meridionale.
Strada di corsa, mancata prova di forza
Che sfumò in una sgambata malcapita
In battibecco di proporzione universale.
E, nel chiasso, ti perdesti. Il mio accento
Senza cura –
Questa mia dizione storta, ti cerca ancora.
Poetrino
T’avevo scritto una poesia. Simile ai molti
Che infangano fango o crosteggiano croste
Del proprio decadente versificare.
Eppure, io la scrissi per trovarti nella bolgia.
In quella Sodoma zigzagante, a lume di luna.
Non già per un morbido gloriare.
Ma il canto, lo sai, è diverso dalla vita.
Se per riaverti bastasse una rima.
Poetrone
E all’ora stabilita… rispuntavi. Il bicchierone
M’aveva preso i polsi, beoni sfrigolanti
Ai lati. La balera lanciava luci psicolabili.
Pensieri lungimiranti, sentieri interrotti
Noi due che parlavamo a viso aperto – sinceri,
non distanti da mediane confessioni impossibili.
Poi ancora la confusione ne stornò la volta
Rotante. La citazione data, e non colta.
Poetastro
Continuo tutt’oggi a imbottigliare il sacro
Traffico dei versi in vista dell’oblio.
Non foss’altro per un Te viscoso e gemmeo.
Cammino impagliato per la casa alla ricerca
Di parole. Le vedo scendere a muro dalle
Infiltrazioni atlantiche di scolo calcareo.
Consumo il mio otium sperando sia lieve
l’aria sillabica sputata dalle crepe.
Anάgkh
A volte mi chiedo se il nostro fu incontro utile.
Dalla tua parte, m’avvedo dello sgarbo di Déa
Necessità. Con le sue torsioni meccaniche poteva
Concederti qualcosa di più ligneo e ligustro di me.
Ma è invero necessario addentare col tocco
Di gengiva inferma il torso della mela,
Affondare il colpo dimezzato nella carne
Per capire se sia sangue il liquido colato?
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