‹‹Sono l’unica a proiettare un’ombra qui dentro›› osservò la morta poggiando gli zigomi scarni su ciò che restava della mano, imitando la postura della sua ascoltatrice.
*
Avevo seguito quella ragazza senza farmi vedere fino alla casa dove abitava. Ci eravamo incontrati per la prima volta quello stesso pomeriggio, in sala studio, e nemmeno ci eravamo parlati: è bastato che mi guardasse distrattamente, quasi senza intenzione, perché la fiamma della passione avvampasse in me; scorgerla di nuovo, a tarda notte, mentre incedeva tra i viottoli e le piazze deserte di questa antica città, col bagliore dei lampioni che conferiva al suo portamento qualcosa della leggerezza severa e metafisica dei dipinti raffiguranti le sacre apparizioni – con le linee oscillanti e marmoree di quel corpo che si indovinava tra le pieghe del vestito – con la chioma fulgida sotto la volta stellata che fluttuava a ogni passo, riconoscibile, come un faro per i naviganti, anche alla grande distanza da cui la osservavo – questo molteplice incanto, questa fascinazione tanto spirituale quanto carnale, aveva fatto in modo che l’iniziale pudore cedesse all’insopprimibile desiderio di seguirla.
I suoi passi mi avevano guidato attraverso il dedalo di strade sempre più buie, sagome quadrate e spioventi, alte muraglie addormentate che ogni tanto si destavano di soprassalto, puntando in strada i loro occhi di feritoie infiammate da una luce asettica e giallastra.
Arrivata nel bel mezzo di una stretta salita, all’altezza di un portone il cui colore verde smeraldo era ben visibile nonostante l’oscurità, aveva estratto un mazzo di chiavi dalla borsetta, per poi accostarsi al palazzo ed essere inghiottita dai suoi muri secolari.
Per un attimo risuonarono soltanto il pesante rintocco della mia delusione e il potente sbattere dell’ingresso. Le nuvole, pasticciate di biacca, correvano veloci in quello stralcio di cielo, e sparivano oltre il tetto come se non ci fossero mai state.
Stavo già tornando sui miei passi, quando, accompagnata da un sottile cigolio, una luce si accese timidamente su un lato del palazzo, all’altezza del seminterrato. Mi avvicinai: un finestrotto opaco non consentiva di guardare all’interno, ma qualcuno lo aveva lasciato socchiuso, forse a causa dell’afa che aleggiava immobile in quella notte. Lo apersi ancora un poco e scorsi la fonte di quell’illuminazione così fioca: una lampada ad olio poggiata su un tavolinetto rudemente intagliato. La stanza aveva l’aspetto di una sala da bagno: le pareti, ricoperte per tre quarti della propria altezza di mattonelle biancastre, davano una tinta malata all’atmosfera già cupa di quell’ambiente, e dalla posizione rialzata del mio punto di osservazione potevo scorgere il bordo di una vasca stagliarsi sul pallido pavimento grigio screziato. Qualcosa turbò il tremolio regolare delle ombre, una sagoma nera, indistinta, sconvolse il disegno sulle pareti, e un braccio roseo, stagliandosi sull’oscurità, si protese verso la vasca, per girare la manopola e ritirarsi allo scrosciare dell’acqua. Udii lo stridio di una sedia sul pavimento, e poi una voce femminile che annunciava tristemente: ‹‹Tra poco il bagno sarà pronto››. Le ombre si acquietarono.
Schiusi il finestrotto ancora un poco e mi scostai per vedere chi si nascondeva dietro il suo schermo. Fu così che riconobbi la ragazza di poco fa.
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