Nato nel 1946. Esploratore della mente, del lato oscuro della realtà, o forse del sogno? Questo so di David Lynch.
Quante parole sono state spese, quanto si è discusso sopra questo regista così stravagante e insolito, insolito soprattutto per la scena americana, la quale, seppur movimentata attorno agli anni ’10 dalla nascita del fenomeno 'Holliwood', si trasforma presto in una atrofizzata macchina di capolavori unicamente intesi come prodotti commerciali. Si è detto sicuramente tanto su di lui, forse troppo. Il noto critico cinematografico Enrico Ghezzi, prima di una sua lezione al teatro Montevergini di Palermo lo descrive, ad una giornalista che gli domanda cosa debba essere assolutamente detto su questo regista, con queste semplici parole:
Cosa deve essere assolutamente detto su questo cineasta? Assolutamente niente, nel senso che alla fine è uno dei cineasti più liberi e liberanti della storia del cinema degli ultimi 50 anni.
Ogni tentativo di associarlo a qualche movimento particolare del cinema sarebbe limitante. Non è sbagliato dire che Lynch debba molto al movimento surrealista ma è anche vero che il regista di Inland Empire e di Mulholland Dr. trasforma quella critica alla ragione di Bunuel e Dalì in un sottile gioco fatto di mille particolari, collegando i quali sembra sempre di poter riuscire a ricostruire una trama logica e razionale, che poi crolla non appena se ne aggiunge uno nuovo; c’è sempre qualcosa che non torna: un cubo di rubik con una faccia rossa in più.
Bisogna innanzitutto considerare che Lynch nasce come pittore, la sua ambizione più grande era dipingere; la pellicola, la macchina da presa gli saranno messe in mano quasi per caso mentre frequenta la Pennsylvania Academy of Fine Arts, nel 1966. Di questo periodo sono i suoi primi cortometraggi, tra i quali vale la pena ricordare Six Figures Getting Sick, considerato dal regista un vero e proprio quadro in movimento. Ed è in questo modo che bisogna intendere i film di David Lynch: una serie di dipinti, i quali singolarmente sono capaci di evocare nello spettatore suggestioni e angosce.
Ma la tensione viscerale che trapela come fiele da questi film non può essere spiegata solo dalle immagini, dalle inquadrature che sembrano danzare in quel filo sottile che separa il sogno dalla realtà; è la musica, o il silenzio, che con il loro alternarsi, con il loro susseguirsi in una corsa senza fine creano quella sensazione di spaesamento, d’angoscia che colpisce lo spettatore con una tensione irrazionale, inspiegabile a volte. Non dimentichiamo infatti che Lynch, oltre ad essere pittore e registra è anche compositore: consapevole quindi dell’importanza che può avere la musica all’interno di un “dipinto in movimento”.
Nel 1971, quando iniziano le riprese di Eraserhead, non ha ancora avuto luogo l’incontro con Angelo Badalamenti, grande compositore che affiancherà Lynch in tutti i suoi più grandi capolavori, perciò le musiche di Eraserhead sono composte tutte dallo stesso regista.
Guardare Lynch significa dunque lasciarsi colpire, lasciarsi trascinare come ascoltando ad occhi chiusi una musica, fino a farsi guidare verso il nulla, per poi ritornare inevitabilmente alla realtà senza aver recepito alcun messaggio, alcuna ideologia, ma consapevoli d’aver raggiunto, seppure senza poterlo riconoscere, quell’ esile confine che separa il sonno dalla veglia.
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