Io non ho opinioni.
Ho tentato di averne, e ho fatto, in conseguenza,
il mio dovere. Così mi sono accorto
che anche come rivoluzionario ero conformista.
(Julian )
Animali che si nutrono di uomini, uomini che si comportano come animali. Sembra di essere finiti all’interno di un libro di Orwell o di fronte ad un quadro di Grosz quando si entra, con lo sguardo, in Porcile di Pier Paolo Pasolini. Un dramma: il dramma di una vita affrontata come solo un poeta può affrontarla: senza cristallizzazioni, senza omologazione, libera, ma talmente libera da smarrirsi in un osceno amore per se stessa fino a svanire senza rumore dalla società che, con i suoi schematismi tradizionali, le impone una forma, un aspetto, un senso. Julian è il diverso: conosce le leggi della società ma le rifiuta, si rifugia in se stesso e se stesso non sa chi sia. Vive di un amore che non può rivelare a nessuno poiché nessuno saprebbe accettarlo, un amore: “una foglia sperduta, una porta cigolante, un lontano grugnito”. Nella sua giovinezza il ragazzo è posto di fronte ad una scelta, ma egli è un individuo inalienabile, è puro, è la vittima sacrificale destinata a sparire nel silenzio; nel silenzio di cui lui stesso si circonda non riuscendo ad avere opinioni, a scegliere l’omologazione con l’ordine costituito o la lotta contro di esso. Il ragazzo, infatti, rappresenta anche il dramma di una adolescenza che si trascina, una maturità che non arriva; è proprio la maturità, infatti, che impone il dovere di una scelta, scegliere oggi l’io di domani, scegliere la propria parte.
Porcile viene scritto nel 1966 come testo teatrale; in questo periodo il poeta, pensatore, regista e scrittore si trova ad affrontare una profonda disperazione esistenziale e scrive, oltre Porcile, altre cinque tragedie: Calderon, Affabulazione, Pilade, Orgia e Bestia da stile. Nello stesso periodo, l’autore, del quale è noto l’intento educativo, elabora un manifesto per un nuovo teatro che egli definisce “teatro della parola”. Questo si contrappone, con l’intenzione di sostituirli, al teatro borghese (teatro tradizionale) e al teatro dell’urlo (teatro sperimentale). Il nuovo teatro deve essere veicolo di idee e fonte di riflessioni; non deve intrattenere il pubblico e farlo divertire come il teatro borghese né colpirne l’irrazionalità abolendo il testo e abusando dell’azione scenica come fa il teatro dell’urlo. Le ideologie sono i veri protagonisti di questo nuovo teatro; i personaggi, infatti, più che individui sono tipi: rappresentano un’idea ed è per questa ragione che gli attori devono abbandonare il fascino personale e la forza espressiva per lasciare spazio alla chiarezza delle idee esposte. Sembrerebbe, questa operazione svolta da Pasolini, una nuova rivoluzione teatrale sulla linea del teatro didascalico di Brecht, ma come spiega lo stesso autore:
“In tutto il presente manifesto, Brecht non verrà mai nominato. Egli è stato l'ultimo uomo di teatro che ha potuto fare una rivoluzione teatrale all'interno del teatro stesso: e ciò perché ai suoi tempi l'ipotesi era che il teatro tradizionale esistesse […] Oggi, invece, ciò che si mette in discussione è il teatro stesso: la finalità di questo manifesto è dunque, paradossalmente, la seguente: il teatro dovrebbe essere ciò che il teatro non è.[1]
Nel 1969 Pasolini traspose la tragedia nel film omonimo, effettuando, in questo passaggio, diversi cambiamenti anche di grande rilievo: innanzi tutto Pasolini attua, riguardo al cinema, un’operazione antitetica a quella apportata al teatro: egli cerca di elaborare un “cinema di poesia”, un cinema delle sensazioni dove la tecnica cinematografica sia utilizzata in funzione della riproduzione di tali sensazioni (esempi di cinema di poesia sono: Uccellacci e uccellini e Teorema).
Nel film Porcile, grazie alla mescolanza tra testo teatrale e espressione cinematografica, avviene una sorta di fusione tra queste due elaborazioni teoriche, e questa commistione è evidenziata al meglio dalla variazione più evidente tra la versione teatrale e quella cinematografica: l’inserimento di una seconda linea narrativa.
La trama principale presente anche nella tragedia ruota attorno a Julian, figlio di un grande industriale tedesco; il ragazzo, fidanzato con Ida, è amato da lei ma non ricambia affatto questo amore e i dialoghi tra i due appaiono come dei veri e propri giochi, accentuati dal linguaggio estremamente poetico e dalla recitazione fredda e impassibile: tipicamente brechtiana. Julian, come viene definito all’inizio del film, è un “figlio né obbediente né disobbediente” e per questa sua stasi, per questa “inalienabilità” egli verrà sacrificato, sarà costretto a scomparire nel silenzio, quel silenzio che Herdhitze impone ai contadini.
La seconda linea narrativa si svolge in un contesto rinascimentale, anche se le aride alture dell’Etna contribuiscono a creare un’atmosfera fuori dal tempo. Un uomo, smarrito in questa landa desolata, uccide chiunque scopra ad errare in quei luoghi e dopo aver gettato i crani delle sue vittime in un cratere, come in una sorta di rito, si ciba della loro carne. Finirà per costituire una vera e propria comunità cannibale, la quale presto verrà soppressa dai soldati di un vicino villaggio.
L’intreccio tra queste due linee narrative è sapientemente elaborato dal regista; esistono dei rapporti tra l’uno e l’altro protagonista, non del tutto immediati; in certi momenti sembrano esserci delle incongruenze e in certi momenti appaiono persino antitetiche, fino a che, nel finale, le due storie ritrovano, o smarriscono il proprio protagonista.
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