domenica 27 febbraio 2011

FARHADI: L’ORSO D’ORO AL FUTURO DELL’IRAN

I tumulti e le sollevazioni mediorientali hanno, se non altro obliquamente, portato un vento di novità e cambiamento anche nei salotti del cinema internazionale.
E’ il caso di dire che la sessantesima edizione della Berlinale abbia colto la rosa al momento opportuno, riprendendo una citazione dal film l’Attimo Fuggente. Cogli l’attimo, fiducioso il meno possibile nel domani, asseriva Orazio.
Ma l’Orso d’oro che si è aggiudicato Asghar Farhadi a Berlino invita ad essere inevitabilmente fiduciosi sul futuro dell’Iran: il fatto che il riconoscimento del premio al regista iraniano sia giunto in concomitanza con le rivolte a Teheran, impone una dovuta riflessione sullo stato di salute culturale del Paese persiano.
“Nader & Simin: a separation” ripercorre i connotati della seconda nouvelle vague del cinema post-rivoluzionario iraniano. Un’opera neorealista e narrativa che enfatizza pienamente le complessità interiori che attraversano i principali personaggi femminili: Simin (interpretata da Leila Hatami) e Razieh (Sareh Bayat), protagoniste della realtà fondamentalista e discriminatoria dell’Iran moderno. La prima, remissiva e rassegnata, vorrebbe espatriare per poter garantire un futuro migliore alla figlia undicenne (Termeh), ma suo marito Nader (interpretato da Peyman Moaadi) è contrariato e desidera rimanere al fianco del padre, affetto dal morbo d’Alzheimer. Simin decide di divorziare, lasciando figlia e marito e torna a vivere con i genitori, mentre Nader si avvale dell’aiuto di una donna povera e oppressa, Razieh, incinta e già madre di una bambina di cinque anni nonché sposa di Hodjat (Shahab Hosseini), un uomo instabile e irascibile, che non è al corrente del lavoro della moglie. Quando la donna sarà, un giorno, costretta ad assentarsi dalle cure dell’anziano, Nader si infurierà e, nel corso di una litigata, Razieh perderà il suo bambino cadendo dalle scale.
Una storia di divorzio all’iraniana che contiene una serie di contenuti tangibili ed estendibili ai tantissimi contrasti etici, sociali e familiari della contemporaneità.
Il film rappresenta un racconto già visto e vissuto, Farhadi si limita abilmente a tracciare la quotidianità del popolo iraniano, pressato e vincolato ai precetti coranici. Descrive perfettamente le difficoltà della condizione femminile in Iran al punto che, a causa del divieto per le donne di mostrarsi a volto scoperto in pubblico, durante le riprese le protagoniste sono state costrette ad indossare chador e foulard anche all’interno di ambienti domestici. Questi adattamenti sono evidenti nelle pellicole realizzate dalla regista Rakhshan Bani-Etemad, la prima donna iraniana a girare un film, che nell’opera “Noi siamo la metà della popolazione iraniana”, ineluttabilmente colpito da censure e persecuzioni, affronta la tematica del movimento femminista alla vigilia delle elezioni presidenziali del 2009. Alla luce delle recenti manifestazioni organizzate in Italia sulla dignità delle donne, sarebbe il caso di soffermarsi sulla questione per elaborare qualche parallelo fra le due differenti realtà, ma forse è meglio non speculare eccessivamente sull’argomento.
Il film permette, inoltre, di aprire un’ulteriore parentesi sulle problematiche connesse alle disuguaglianze di status e di reddito che affliggono la società iraniana: una chiara denuncia dell’apparente omogeneità della popolazione del Paese.
L’Orso d’oro è senza dubbio meritato e Farhadi, durante la premiazione, non si trattiene dal parlare con  amarezza e rammarico della pesante situazione che sta vivendo il suo collega e connazionale Jafar Panahi, il grande assente alla Berlinale, a cui è fatto divieto dal regime di dirigere, scrivere e produrre film per i prossimi vent’anni. Questo rappresenta un ulteriore e sconcertante elemento della situazione politica iraniana. E’ infatti difficile prevedere dei margini di emancipazione da parte della vita culturale del Paese; anche secondo il Financial Times il regime di Ahmadinejad e dell’Ayatollah Khamenei sarebbe il vero vincitore delle rivolte popolari nel panorama medio-orientale. Ma l’aspirazione di ottenere le libertà civili da parte dei giovani, congiunti dalle campagne interattive sui maggiori social network, è tutt’altro che fievole. Occorre quindi essere fiduciosi sulle prospettive che si svilupperanno prossimamente nel contesto persiano.
E’ indubbio il fatto che il cinema iraniano, nel corso della sua storia (in particolare dal regime dei Pahlavi fino ad oggi), è stato assiduamente sottoposto a censure. Le dodici direttive pertinenti ai divieti delle riproduzioni cinematografiche fanno capo a veti delle attività governative sulle materie religiose, politiche e sociali. Ma se il documento di censura introdotto nel 1984 dal Ministero della Cultura e della Guida Islamica non ha scoraggiato l’attività e la risolutezza artistica di tanti registi del calibro di Farhadi, Ghobadi, Kiarostami e Siba Shakib, si può ben sperare sull’entusiasmo che anima le contestazioni febbrili dell’Onda Verde, un movimento composto da ragazzi e ragazze che reclamano unanimemente diritti civili e libertà politiche. Non a caso, tanto per rimarcare la presa di coscienza che il movimento femminista del Paese ha assunto negli ultimi anni, è necessario sottolineare che il martirio delle rivoluzioni è simboleggiato da Neda, la studentessa ventiseienne uccisa durante la repressione delle proteste del 2009 seguite alle elezioni presidenziali
La peculiarità che contrassegna la piazza di Teheran dagli altri focolai mediorientali e maghrebini è rappresentata dalla volontà palesata da tanti giovani di abbattere ogni configurazione integralista e dittatoriale, per dare vita ad un sistema democratico che sia in grado di tutelare la vita culturale dell’Iran, a detrimento di qualsiasi discriminazione sessuale o religiosa.
E’ quanto basta per poter sostenere che a Berlino, insieme a Farhadi, ha vinto a pieni titoli la voglia di libertà di una nuova e fertile generazione di intellettuali che sognano un futuro propositivo e partecipato.

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