martedì 31 maggio 2011

Dillinger è morto (1969) di Marco Ferreri



“L’isolamento in una camera che non debba 
comunicare con l’esterno perché piena di una atmosfera
 mortale, in una camera quindi dove per sopravvivere
 è necessario portare una maschera,
ricorda molto la condizione dell’uomo contemporaneo.”


Sarà una lunga notte quella di Glauco, protagonista della vicenda di Dillinger è morto, una notte in cui regna l’attesa. L’attenzione è tutta convogliata sulla meticolosa preparazione di un atto, l’ultimo atto, quello che possa dare peso ad un corpo ormai vuoto, in cui si affollano soltanto tanta noia e insofferenza, accumulate lungo una vita senza più valori.  
È con una metafora, quella della maschera anti-gas, che Ferreri, regista che si muove in un ambiente ricco di suggestioni stilistiche (in Francia si sviluppa il nouveau roman) e ideologiche (il film è del ’69), ci introduce a questa storia. Una maschera anti-gas quindi, un oggetto che permette di respirare l’irrespirabile, che permette la sopravvivenza in un ambiente malsano distaccando l’uomo dalla realtà che lo circonda, creando una barriera tra l’io e il mondo. Ma con insolita tempestività è il regista stesso a sciogliere questa metafora e attraverso una relazione scritta da un collega del protagonista spiega cosa abbiano in comune la maschera anti-gas e l’uomo contemporaneo, l’uomo tecnologico. 
Tutto il film è una amara commedia sulla cui scena si muovono ben pochi personaggi, o meglio, ben pochi esseri umani, infatti, gli unici personaggi umani che abbiano un qualche rilievo all’interno della trama, arida e semplice, sono tre: il protagonista (Michel Piccoli), la moglie (Anita Pallenberg) e la cameriera (Annie Girardot), ma in questo teatrino della realtà, di una realtà che confina violentemente con il mondo onirico, sono gli oggetti a diventare protagonisti, ad essere rilevanti per la vita, il piacere, la fuga e la morte delle persone. Mentre questi, gli oggetti, pur mantenendo i loro connotati inanimati, diventano la storia stessa, decidono, con la loro comparsa sulla scena quella che dovrà essere la trama del film, le persone si reificano, diventando quasi i mezzi con cui gli oggetti compiono il loro destino incomprensibile. I dialoghi tra i personaggi sono pochi e inutili, sembra che tra gli interlocutori non ci sia un vero dialogo, e le
voci umane vengono sostituite dal vociare ossessivo della televisione che spazia da notizie di telegiornale a programmi di intrattenimento. La radio lancia i successi del momento.
Gli oggetti, dunque, sono i veri protagonisti. Sembra che sia il revolver a uscire dall’armadio e a finire per sua volontà fra le mani del protagonista, il quale non sembra consapevole della pericolosità dell’oggetto che stringe fra le dita. Ferreri in maniera grottesca ci mostra il protagonista ricostruire l’arma con la stessa leggerezza con cui si prepara una succulenta cena, inoltre, dopo averla costruita se la porta con sé per la casa come nulla fosse, mostrandola alla cameriera e alla moglie stesa sul letto a causa di una forte emicrania. La vernice, con cui viene pitturato il revolver contribuisce a renderlo un vero e proprio giocattolo, una delle tante possibili fughe dalla noiosa vita sedentaria. Ma le strade che apre un simile oggetto sono due: eliminare il peso del vuoto in cui si è perduto il protagonista togliendosi la vita, oppure cercare un simbolo di quella vita, una catena ed eliminarla. Il protagonista mima più volte il suicidio, ma mai lo porta a termine, e, infine, uccide la consorte. Ma l’atto non è, o meglio, non sembra reale, tutto il peso dato alla preparazione, l’atmosfera onirica creata da Ferreri durante tutto il film elimina allo spettatore qualsiasi certezza, solo i fori bruciacchiati sul cuscino non lasciano dubbi sulla realtà dell’accaduto.
Ferreri quindi ci mostra quanto gli oggetti di cui ci circondiamo siano ormai i veri padroni della nostra vita, e attraverso il piano sequenza, di cui fa frequente uso in tutta la sua produzione, soprattutto nei primi film, riesce ad inquadrare tutta la scena, così da non dimenticare quegli oggetti che nel montaggio potrebbero andare perduti.
Il film si conclude con una fuga, ma una fuga la cui chiave è uno di quegli stessi oggetti a cui la sua vita era incatenata. Lo scambio della collana con la deliziosa padrona della nave sulla quale si imbarca. E proprio in quest’ultima scena quello che voleva essere un film di protesta, un grido feroce, diventa un lamento soffocato, nella presa di coscienza che tutto non è altro che pura finzione cinematografica.




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