Ho camminato a lungo prima di arrivare nel luogo prestabilito. Incontrai su per quelle vie snaturate della provincia russa un filo d’erba, uno scarabeo, una formica, un’ape dai riflessi d’oro. Mercanti privi di scrupolo mi chiesero l’anima per pochi rubli. Qualcuno suonava la zigana, ma non ebbi orecchi per ascoltare. E quando scorsi in una siepe la punta scintillante del pestello di bronzo, compresi ch’ero vicino, così vicino. Fu allora che vidi spuntare la vecchia izbà con le sue angolazioni misere, fatte di travi smussate. Un uomo, in vesti servili, si avvicinò a me con grande allegrezza.
«Finalmente sei arrivato! – disse – Questo è il mio paradiso». Di fatti, benché il posto fosse dei più umili, si respirava un’aria d’incantevole serenità. Gli insetti ruotavano chiari. Piccoli stagni verdi tracimavano di quiete. In lontananza scorrevano freschi torrenti che convergevano in una vallata dai contorni raddolciti. Il paesaggio circostante alla izbà mutava vorticosamente le sembianze: ora si era al cospetto del rialto del Valdaj, ora ai piedi della Kamčatka; senza per ciò che lo spirito ne fosse turbato.
«Quello che lessi di voi mi fece trepidare e commuovere. Ho combattuto ampiamente con ciò che mi circondava, alla fine però ho seguito le vostre parole e sono qui, nella vostra terra. Non siete stato solo un maestro: voi foste un ideologo, una via di scampo, un segugio».
«Ne sono lieto…».
«C’è una cosa che mi rattrista…».
«Penso di averla indovinata», disse allora sorprendentemente Teodoro Dostoevskij, figlio di Michele. Al che si volse verso la parte opposta del giardino ed indicò una casa signorile, e poi una finestra socchiusa.
«Sei tormentato da quella sera, da quell’accadimento. Ma ora è acqua passata. Vedi come questo giardino, un tempo lugubre, sia stato trasformato in un luogo di gioia e di calma piatta. Tutto muta attorno a te, eppure non ne provi afflizione. Il caos è divenuto ordine superiore. Ogni cosa s’è compiuta, secondo quanto stabilito».
Teodoro comprese presto ch’ero rabbuiato d’insoddisfazione.
«Cosa cerchi ancora? Cosa ti duole, fino a renderti così silenzioso? I miei Karamàzov sono vivi e giacciono con limpidezza nel mio cuore».
«Che ne è stato di Ivàn?».
«Non temere: egli s’è salvato. Ha vinto se stesso ed è tornato a dispensare parole di positività. E tu cosa aspetti? Ti lascerai divorare dai tuoi fantasmi, o farai come lui, tornerai nel mondo a dare il tuo apporto necessario per la costruzione? E’ molto semplice e futile lasciarsi andare all’istinto omicida del distruttore. Ma tu, come tutti, non vuoi questo. E allora abbi coraggio, figlio, abbi il coraggio di tener testa alle perdite e alle privazioni, che ti schiacciano e ti rendono un parassita».
«Voi parlate così perché avete dimenticato il momento di squallore…».
«La parte volgare e dissoluta dei Karamàzov è morta per sempre. Le viscere maligne erano isolate e non hanno potuto riprodursi. Questo è il segreto dell’esistenza: la presenza del male sarà perennemente sconfitta dalla forza di conservazione e perpetuazione della vita».
Dopodichè, Teodoro Dostoevskij, figlio di Michele, mi prese per un braccio e mi condusse oltre la casa signorile. Là vidi Dmitrij sotto un grande albero che cantava superbamente una romanza per Grušenka, la quale lo ascoltava sorridendo di cuore. Poi udii Alëša che leggeva e commentava le Sacre Scritture di fronte a Iljuša e ai suoi giovani amici. Infine scorsi Ivàn che parlava con sana foga e Katerina Ivanovna che, di tanto in tanto, lo interrompeva, ma con dolcezza; ed egli acconsentiva a tacere, perché era ormai sgombro di tormenti interiori.
«Guarda, – riprese Teodoro – il giardino della mia creatività è purificato. Ognuno riposa al suo posto, in orti e boschetti incontaminati. La farragine della vita precedente, il tremendo insulto di cui parlavi prima, non è stato obliato, ma trasformato in natura rigogliosa. Noi siamo come la palude nei pressi della golena: limacciosa e torbida, senza fondo. Eppure, il grande bonificatore trarrà da essa un luogo fertile, perché ne conosce il fondo».
Ivàn si volse verso di me e sorrise di vera felicità. Io ricambiai il cenno, come se il mio viso fosse improvvisamente illuminato da un sole invincibile.
«Ora egli è libero. E ti saluta con affetto. Ma ti chiede anche di andare nel mondo e di concludere nel bene la sua opera…».
«Come farò? Ho così poche forze, così poca voglia…».
«Vuoi davvero affogare nella melma? La tua è solo carenza d’amore. Smettila di ciondolare al pari d’un morto. Sii dignitoso e concreto. Credimi, è da sciocchi rimanere impuntati nelle proprie posizioni da nichilista. Se cerchi la pace, dovrai aver fede. E’ una questione d’intelligenza».
Teodoro mi lasciò per godersi ancora il riposo nel suo giardino indorato dalla luce del giorno. Mi lasciò solo. Ma vidi che si allontanava in direzione dei suoi personaggi, i quali accolsero il suo arrivo bonariamente. Lo circondarono i suoi personaggi: e lo tennero stretto, facendogli festa e cantando canzoni allegre secondo la più genuina tradizione russa. E Teodoro rimase molto contento di ciò.
Ma poi si volse nuovamente verso di me, scrutandomi con occhi beffardi.
«Allora? Mi ascolti? – gridò con tutta la voce che aveva in gola – Andrai nel mondo?».
«Sì, ci andrò».
«Non c'è male, non c'è male dunque. Fa sempre piacere parlare con un uomo intelligente!», e qui sorrise benevolo Teodoro Dostoevskij, figlio di Michele.
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