Il rapporto di Pavese con la morte, con la propria morte, soprattutto con quella volontaria, con il suicidio, fu un vero e proprio vizio, una costante della sua vita; fin dalle prime lettere giovanili è infatti possibile rintracciare momenti in cui compare la malsana idea del suicidio. Nella lettera indirizzata a Mario Sturani del 23 nov. 1925, ad esempio, il diciassettenne Pavese scrive di “un vacillare continuo” che non è più la malinconia consueta, di accademia” , ma “una lotta molto più profonda contro la paura dell’inerzia e lo sconforto causato dalla coscienza di sé nelle due realtà apposte della vita e dell’arte”. Anche la poesia allegata alla lettera è interessante per capire quanto Pavese sia tormentato già in giovane età dal pensiero della morte, ma soprattutto, traspare da questi versi l’importanza che l’arte ha per Pavese, tanto da divenire una sorta di riscatto della morte e dei dolori della vita, diventa, in questo caso, quasi una via di fuga entro la quale trovare rifugio dalla vita e dall’agonia di chi vive sapendo di dover morire.
M’atterrisce il pensiero che io pure
Dovrò un giorno lasciare questa terra
Dove i dolori stessi mi son cari
Poiché tento di renderli nell’arte.
E più tremo pensando all’agonia,
alla lunga terribile agonia
che forse andrà dinanzi alla mia morte.
Che cosa è mai la vita ai moribondi
Che ancor comprendono e si senton lenti,
lenti spirare in una stanza tetra
soli in se stessi? Oh, conoscessi un Dio,
così vorrei pregarlo: “ quando il petto
mi si gonfia ricolmo di un’ondata
di poesia ardente e dalle labbra
mi sfuggon rotte parole, che ansioso
m’affanno a collegare in forma d’arte,
quando più riardo e più deliro, oh, allora
mi si schianti una vena accanto al cuore
e soffochi, così, senza un rimpianto”.[1]
La morte è appunto il tema attorno al quale ruota questa straordinaria poesia la cui carica espressiva e disperata sobrietà stupiscono se si pensa che fu scritta da un ragazzo di appena diciassette anni, ma nel cui animo, e questo è ben evidente, già alloggiava un poeta. Pavese assume la consapevolezza che prima o poi dovrà morire “M’atterrisce il pensiero che io pure /Dovrò un giorno lasciare questa terra”, ma non cerca di allontanare da sé questa dolorosa idea che lo atterrisce, al contrario, cerca di trovare consolazione invocando la morte nel momento in cui è più forte in lui l’impeto creativo. “quando il petto / mi si gonfia ricolmo di un’ondata /di poesia ardente e dalle labbra /mi sfuggon rotte parole, che ansioso /m’affanno a collegare in forma d’arte, /quando più riardo e più deliro, oh, allora /mi si schianti una vena accanto al cuore /e soffochi, così, senza un rimpianto”. L’arte assume quindi un’ importanza assoluta dal momento che nemmeno la religione, e perciò la possibilità di dare un senso alla vita che vada oltre la realtà terrena sfuma in un ateismo appena accennato “Oh, conoscessi un Dio”. Ma Ciò che veramente provoca paura e sgomento nel giovane Pavese in questi versi è l’agonia che precede la morte, l’agonia dei moribondi che nella loro solitudine sentono imminente la morte ma continuano a trascinare la vita. “E più tremo pensando all’agonia,/ alla lunga terribile agonia /che forse andrà dinanzi alla mia morte. /Che cosa è mai la vita ai moribondi /Che ancor comprendono e si senton lenti, /lenti spirare in una stanza tetra /soli in se stessi?”. Stando a quanto ci è stato lasciato dal poeta nel “mestiere di vivere” questa paura si realizzerà appieno; infatti, Pavese vivrà tutta la sua vita come una lenta agonia in cui sentirà sempre vicina la morte, la bramerà continuamente, e si definirà “autodistruttore”, ossia colui che pensa continuamente al suicidio ma non riesce a metterlo in atto, e questo è, secondo lo stesso poeta, la più grande colpa di un suicida. Solo nel 1950 riuscirà a raggiungerla, la morte, quando con gli occhi di Constance Dowling sarà lei ad andare verso lui.
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