domenica 15 maggio 2011

‘Un tipo perso dietro le nuvole e la poesia’. Cronistoria d’un Guccini pensieroso

Entro trafelato nell’ufficio ufficiale del Rettore. Francesco Guccini e i suoi due metri d’altezza sono raggomitolati su di una comoda poltrona alla destra della grande scrivania in legno. Il Maestrone è un po’ inzuccato, con la gota vermiglia. Ascolta le domande incalzanti dei giornalisti della tivù nazionale e locale: ben rasati, fotogenici, sprizzanti di materiale tecnologico e cavi coassiali. E’ in procinto d’alzarsi e darsela a gambe, ma, come se fossimo in una grande climax discendente che a vortice parte dagli alti poteri mediatici per arrivare ai giovani sbandati dalla barba silvestre, m’insinuo col mio quadernetto nella calca cibernetica e, submissa voce, chiedo:
«Scusi, potrei farle una domanda?».
«Beh, se è una…», risponde turbato. Lo guardo. Non mi guarda. Poi, occhio di lince, sbircia nelle pieghe del quadernetto.
«Più che una domanda, mi pare una tesi». Ridono gli astanti, beati loro.
«Il significato politico di una canzone come La locomotiva va per spegnersi, ma il suo incanto lirico rimane. Che l’evento estetico sia più forte dell’ideologia?». Mi guarda inquieto ma ravvivato.
«Non capisco perché il significato politico vada per spegnersi». 
«No, perché ascoltandola a casa…».
 «Ascoltarla in pubblico è differente che sentirla da soli, in uno sgabuzzino. La canzone ha diverse vesti, ognuna a seconda del modo e del luogo in cui ci si trova». Il ragionamento fila, effettivamente. E, buggerando con rara impunità il mio precedente detto circa la sobrietà numerica delle domande, chiedo ancora:
«Perché, a suo giudizio, i giovani d’oggi chiamano ‘poeti’ grandi cantautori come lei, De Andrè, Dylan? La nostra è forse una generazione senza poeti né poesia?».
«Ci sono tanti modelli di poesia. La canzone è soltanto uno di questi; essa rimane comunque un’espressione viva del ‘poetico’». Al che, preso definitivamente coraggio, ribatto con un interrogativo che ho posto a chiunque, non ultima mia nonna.
«Secondo il filosofo Albert Camus ‘verrà il giorno in cui le rivoluzioni avranno bisogno della bellezza’. Crede davvero ciò possa avverarsi?».
«E’ una domanda troppo impegnativa, – dice sorridendo – è difficile poter rispondere così, senza pensarci». Pensarci, infatti. Inchiodarsi ai propri pensieri. Difficile se si è persi a cercar per sempre quello che non c’è.

***

Entra, tra gli applausi, con passo felpato nell’Aula Magna del Magistero. «E’ la prima volta che il Consiglio degli studenti si fa promotore d’iniziative culturali», dichiara con orgoglio Stefano Paternò nel discorso introduttivo di fronte al pullulare della gioventù. Sunto e corollario della sua arringa è un celebre verso di Eskimo («bisogna saper scegliere in tempo, non arrivarci per contrarietà»), che assurge a chiaro segnale d’incoraggiamento contro l’accidia e il disimpegno nella politica studentesca. Poi è la volta del Magnifico Rettore Stefano Pivato, il quale, ripercorrendo con giustezza la trame storiche della canzone italiana dal Risorgimento ad oggi, cerca di focalizzare l’attenzione su ciò che, musicalmente parlando, fornì materia salda e duratura all’identità del Paese. Di fatti l’intento esplicito dell’incontro è quello di «celebrare l’anniversario di una nazione attraverso le canzoni» e, a tal proposito, il Magnifico batte chiodo sulla fondamentale svolta artistica avvenuta nei primi anni Sessanta per grazia della ‘Scuola Francese’ e di ‘Cantacronache’, che rinnovarono il cantautorato patrio, decaduto nel secondo dopoguerra in un «provincialismo deprimente», fino a mutarne radicalmente i moduli stilistici e contenutistici. Testimone autorevole del cambiamento fu proprio il primo Guccini, che in quegli anni scrive brani le cui «tematiche non erano mai state affrontate».
Per un divertente qui pro quo con l’attempato tecnico del suono, la veneranda Dio è morto irrompe una seconda volta nell’aula, suscitando l’ilarità dei presenti. Pivato, senza smarrire la sua magnificenza, prepara la gogna per il reo e si affretta a chiedere all’illustre ospite di rivangare l’epoca e il suo tumulto.
 «Il reale accenno rivoluzionario, prima ancora della canzone tradizionale francese, fu l’arrivo del rock’n’roll in Italia. Alcuni critici sostengono che il primo impulso lo si ebbe con Modugno, ma io credo che il vero shock lo avemmo ascoltando Elvis Presley e poi Dylan», precisa il Maestrone, sottolineando come l’America, tanto ammirata e vagheggiata da bambini, fosse tornata, attraverso la musica e i moti sessantottini, con una veste più seria e profonda.
Interpellanze d’ogni genere rimbalzano, dunque, dalle due parti. Pivato allude alla splendida Primavera di Praga. Paternò tira in ballo i movimenti studenteschi. Guccini s’infiamma. Tiene banco con battute, aneddoti, reminiscenze. Il pubblico sorride sotto i baffi e tace incredulo quando narra, con particolari dal sapore biblico, di come scrisse La locomotiva in venti minuti netti.
Ma pian piano anche il bollore si spegne. L’infervorarsi si placa. Una pioggia di studenti e studentesse, come Erinni ingrifate, braccano l’omone, che ha fatto a tempo a sprofondare ancora nei suoi pensieri. Concede di buona lena autografi e foto patinate. Si mette addirittura in posa. Ma niente. Non c’è modo di riportarlo alla realtà. E’ ormai lontano: perso dietro le nuvole e la poesia.

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