E’ da poco terminato il calderone dei referendum. I dati sono evidenti e inoppugnabili: un’affluenza di poco superiore al 57% per una percentuale complessiva dei SI pari al 95%. Sono indubbiamente indici rilevanti che obbligano ad un’attenta analisi politico-strutturale. Il primo aspetto che vorrei prendere in esame è il contenuto dei referendum, qualificato da materie importantissime, ma dal valore esclusivamente simbolico e politico. Sono personalmente soddisfatto per il voto sul nucleare; anche se il quesito poteva sembrare superfluo per il semplice fatto che tutte le Regioni italiane si sono già opposte alla costruzione di centrali nucleare, dalla valanga di si ne hanno per lo meno tratto vantaggio i titoli delle aziende di energie rinnovabili quotate in Borsa: occorrerà, se non altro, formulare nuove strategie energetiche, anche alla luce delle dinamiche globali che stanno infervorando il resto del mondo – dal Giappone ai Paesi arabi -. I quesiti sull’acqua e sulla remunerazione del capitale, a mio parere, non sono stati assolutamente compresi; intendiamoci, di per sé il contenuto della Legge Ronchi era abbastanza indecifrabile, ma con la vittoria dei Si nessun gestore del servizio idrico, pubblico o privato che sia, potrà più effettuare alcun investimento, pena l’indebitamento esponenziale (e visti l’elevato debito pubblico e lo scarso virtuosismo delle società partecipate l’ipotesi è da escludere): tutto ristagnerà, probabilmente – e non auguriamocelo – anche l’acqua. Per quanto riguarda il legittimo impedimento, già la Corte Costituzionale si era pronunciata in gennaio dichiarandone l’incostituzionalità. Non sono personalmente contrario all’idea che chiunque ricopra una carica istituzionale debba essere esentato dall’obbligo di presentarsi ai processi. Tuttavia, è indiscutibile che una norma del genere non sia realizzabile in un sistema governativo come quello italiano, in cui il Primo ministro conserva la sua funzione da diciassette anni quasi ininterrottamente. Detto ciò, sebbene la campagna referendaria sia stata affrontata in maniera decisamente inadeguata e superficiale, è altresì innegabile che le votazioni abbiano registrato un responso unanime. Parliamoci chiaro: l’attuale fase politica, quella del berlusconismo, è definitamente sul crepuscolo. E qui vorrei aprire i battenti alla seconda questione da affrontare. Premetto e sono convinto che questo governò resterà in carica fino al 2013; non conviene a nessuno, in primis alla Lega, interrompere la legislatura senza aver ancora portato a termine le battaglie sul federalismo e senza essere riuscita a rimarginare le delusioni del proprio elettorato dovute alle sconfitte delle recenti amministrative: sul fronte governativo si prospetterà dunque una regolare accondiscendenza del Premier ai capricci del Carroccio, corroborata dalle più frequenti divergenze di Berlusconi con il Ministro dell’Economia Giulio Tremonti. Ma che cosa si delineerà, invece, sul versante dell’opposizione? Ora come ora stiamo osservando una reale crisi d’identità di questo centro sinistra, come se non bastassero già quelle all’interno del PD. Se da una parte, infatti, Bersani invoca le dimissioni del premier (alla faccia di chi non lo definiva un referendum politico) dall’altra assistiamo allo sfogo giustificato di Di Pietro, che dopo aver profuso una stragrande quantità di energie per ottenere questi referendum, chiede di non strumentalizzare l’esito del voto. Dissapori quindi, in una sinistra disgiunta dagli espedienti e unita dalla mancanza di progetti condivisi. E nell’attuale terzo polo che succede? Non capisco francamente quanto possano essere proficue, nel momento in cui non siano fini a se stesse, le richieste di Casini, Fini e Rutelli di andare al voto. In questo momento sarebbe come fare la barba all’asino, visto che non si presenta di fatto nessuna alternativa valevole. Questo è, in primo luogo per i pochi esponenti liberali rimasti in scena, il momento ideale per apporre una dovuta e positiva riflessione sull’esito dei referendum. Prenderne atto si, ma cercare di ripartire per costruire una successione liberale e democratica, che si impegni in un programma improntato sulle riforme per dare luogo a quella rivoluzione liberale che il signor B non ha mai messo in pratica. Deve risuonare come un unico appello alle forze moderniste e riformatori di tutte le aree, che desiderino unirsi con l’intenzione di scongiurare eventuali derive oclocratiche e populistiche prive di proposte fattive. Lavorare sulle riforme, da quella energetica a quella fiscale; formulare proponimenti per combattere l’evasione fiscale e per riequilibrare il debito pubblico; cercare di sviluppare proposte concrete per rilanciare l’economia; dialogare e ascoltare tutti i rappresentanti delle categorie professionali e prendere l’Unione Europea come punto di riferimento, con la nomina di Draghi a governatore della BCE è una mossa più che mai necessaria. Non si tratta di cavare il latte del toro. E’ l’unica iniziativa plausibile per riacquistare l’avvicinamento di una società civile disillusa e svilita, che da troppo tempo cerca delle risposte reali e tangibili dal mondo della politica. Ci troviamo in un momento di confusione strutturale manifesta. Solo una rinascita liberaldemocratica, come è capitato molto spesso nel Regno Unito e nel mondo in seguito ai mutamenti internazionali durante il corso della storia, potrà colmare l’attuale assenza di realismo politico.
Nessun commento:
Posta un commento