Nikolaj Stavrogin fu l’ultimo a comprare il biglietto. Con enorme ritardo fu scortato dalla maschera nelle retrovie del teatro, quando il secondo atto era già bell’e finito. La platea cominciò ad esprimere senza condizioni il suo disappunto per la sfacciataggine del giovane. Una signora, imbellettata da cima a fondo, sprezzante della compagnia errante che recitava di gran lena, si voltò verso Stavrogin e gridò:
«Razza di screanzato, dovresti vergognarti del tuo comportamento malsano! Avevano già chiuso le porte del teatro, ma tu le hai fatte riaprire celermente. Credi che tutto si possa fare, passandola liscia? Non meriti d’essere qui…».
«Lasciate stare quel povero diavolo!», sentenziò un altro in sua difesa, dal fondo della platea. Ma Stavrogin non rispose all’offesa, né ringraziò di cuore il suo avvocato. E quando si sedette, ebbe fine il clamore. Nondimeno la vicenda era destinata ad aleggiare ancora un po’, benché le risa degli spettatori parevano aver attutito il colpo a sangue. Un tedesco coi capelli lisciati e i baffetti gonfi si avvicinò al giovane, intento a godere dello spettacolo. Schioccò le dita per ricevere la sua attenzione.
«Ebbene, è questo il modo, è questo?», chiese infervorato.
«Il modo di cosa?», domandò Stavrogin con coraggio.
«Il modo di vivere. Così, seduto su di una poltrona nera. Occhi fitti. Moria penetrante d’intorno. Geli a cui nessuno può rispondere. E sguardi in direzione d’un dramma che si svolge…».
Al che il giovane Stavrogin disse:
«Avrai ben poco d’accusare nei momenti di squallore, perché il cielo rimarrà dov’era, il tempo rimarrà dov’era, il posto in poltrona rimarrà. Se è vero che un giorno si assisterà ad un lungo processo contro gli atti compiuti dal tuo fare impuro, tu non sarai il solo imputato, credimi, perché avrai vissuto quei momenti di squallore tuo malgrado».
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