mercoledì 1 giugno 2011

La poesia è «morta», ma i poeti «resistono»?

Intervista rilasciata dal poeta Massimo Gezzi, assistente alla cattedra di Letteratura italiana dell’Università di Berna, al termine dell’aperitivo letterario «Montale vs. Pasolini?», in cui sono stati presentati i libri Diari del '71 e del '72 di Montale a cura di Massimo Gezzi, e In corso d'opera. Scritti su Pasolini di Antonio Tricomi.
                                
Professor Gezzi, abbiamo visto come sia nella produzione di Montale che in quella di Pasolini a partire dagli anni ’70 inizi una fase di decadenza, determinata principalmente dalla sfiducia e dalla disillusione dei poeti nei confronti del loro ufficio. Quanto questo atteggiamento di ‘rinuncia della poesia’ manifestato da alcuni dei maggiori poeti del nostro Novecento ha influito sulla «morte della poesia» nella società contemporanea?

Credo che esso in realtà abbia influito molto poco. Il problema è che è cambiata la società in cui la poesia esiste. Montale nei suoi saggi descrive chiaramente quello rappresentava la nascita della società di massa per i poeti: la sconfitta e la fine di quello che c’era stato fino allora, la distruzione del privilegio dell’intellettuale. Il suo atteggiamento di fronte a questo cambiamento è ambivalente: dapprima egli sembra predicare una resistenza nei confronti della ‘società del consumo’, affermando che gli intellettuali «devono restare ad occhi aperti», ma poi cede e mostra un’estrema sfiducia nei confronti del ruolo che la poesia può avere in tale società. Sul finire della vita, però, non senza indispettire i giornalisti e i critici, Montale finirà per mostrare una certa comprensione nei confronti della nuova società, rinnegando le sue precedenti posizioni.
Tuttavia l’atteggiamento dei poeti, a mio parere, è stato solo la naturale reazione a qualcosa di molto più grande che agito di fronte a loro: la nascita della società di massa che ha tolto il mandato ai letterati, affidandolo ad altri, come ad esempio i cantanti. Ma la poesia sa resistere a tutto perché non è un’arte sociale.

Si suole dividere, come lei ha ricordato oggi, la poesia di Montale in due fasi, la cui cesura è rappresentata da Satura, raccolta che segna il passaggio dalla ‘poesia dell’assenza’ a quella che può essere definita una ‘assenza della poesia’. In che senso si può parlare di ‘assenza della poesia’ nell’ultimo Montale?

Fino alla Bufera ed altro Montale ha una concezione altissima della poesia: essa ha per lui un compito importante. Con Satura cessa la possibilità di considerare la poesia come qualcosa di alto: essa da fine diviene un semplice mezzo per parlare di altro. Questa raccolta segna la fine per Montale della fiducia nella poesia come compito: in questo senso si può parlare di ‘assenza della poesia’.

Passando da Montale a una considerazione più ampia, la poesia, secondo lei, può tornare oggi a svolgere un ruolo importante nella società, come ha sempre fatto nel tempo, e se sì, in che modo?

La poesia può riaffermare il suo valore e lo può fare esclusivamente restando quello che è. In questo momento storico globale essa non può convincere più di tanto, tuttavia conserva in sé un nucleo di resistenza. La poesia deve restare ‘Poesia’, misurandosi però con il nostro tempo. Solo così essa può fungere da contravveleno della società moderna e riaffermare il suo valore: restando se stessa.

Oggi i giovani si mostrano sempre meno interessati alla parola poetica. I cantanti  hanno sostituito in gran parte il ruolo che era dei poeti. Cosa si sentirebbe di dire a questi ragazzi Massimo Gezzi? Perché leggere la poesia, cosa si può trovare in essa che un’altra arte non può dare?

La poesia ha la capacità unica di reinventare la lingua. La parola non è inerme, si muove, costringe la lingua a rapportarsi con la realtà quotidiana. Questa capacità creativa e comunicativa è unica della poesia. Quando questa capacità si unisce alla ‘virtù pensante’ ecco che la poesia diventa una grande Arte.

Quali sono le sue aspettative per la poesia oggi?

Oggi, ancora di più che ieri, serve una poesia che continui a pensare e a creare. C’è bisogno di una poesia di profonda interrogazione, che abbia un effetto sulla realtà. Con questo non voglio sminuire il valore della lirica: non è detto, infatti, che le poesie impegnate siano le più dirompenti in ambito politico ­­− questo ce lo ha insegnato Gianfranco Fortini − e a volte una poesia di vena lirica può avere un’influenza maggiore di una poesia dichiaratamente impegnata.

«Pensare e creare» dunque: due capacità tipiche della poesia e insite nell’uomo. Forse proprio per questo la poesia resiste e non può che resistere in quanto essa è arte «umana» per eccellenza. Quali che siano le forze che agiscano contro di essa, uno stroncamento completo dell’uomo dalla poesia non può realizzarsi poiché la poesia è un bisogno dell’uomo, essa risponde alla necessità di interrogarsi tramite il linguaggio che crea, giusto?

Concordo pienamente.

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