martedì 8 marzo 2011

'I due fuchi' di Giovanni Pascoli. Una riflessione sul ruolo del poeta nella società.

Tu poeta, nel torbido universo
t’affisi, tu per noi lo cogli e chiudi
in lucida parola e dolce verso;

si ch’opera è di te ciò che l’uom sente
tra l’ombre vane, tra gli spettri nudi.
Or qual n’hai grazia tu presso la gente?

Due fuchi udii ronzare sotto un moro.
Fanno queste api quel lor miele (il primo
diceva) e niente più: beate loro!
E l’altro: E poi fa afa: troppo timo![1]

Che cos’è il poeta in una società? Quale è la sua funzione, il suo ruolo, il suo senso; da dove nasce quel ronzio che gli strappa dalla mente le parole; e perché, poi, proprio lui deve sentirlo e non qualcun altro?
È normale che in una società laboriosa, funzionale, ognuno abbia il suo ruolo, il suo compito; soprattutto è normale che ogni individuo, ben identificato, debba sempre giustificare la propria funzione, il proprio operato, altrimenti non sarebbe altro che un ingranaggio sghembo, inutile; sarebbe un peso.
I poeti stessi, nella società moderna, sono i primi a porsi questa domanda su quale sia il ruolo che gli è proprio, poiché, per dirla con Pasolini, il poeta oggi è « un produttore senza consumatori », e quando un artigiano, quale che sia la materia che lavora, non riesce più a trovarsi un posto nel sistema produttivo, non ha più nessuno che giustifichi il suo lavoro, è destinato a fallire. Ma allora come mai, il poeta, pur essendo stato emarginato già da un secolo almeno, e penso a quando Gozzano, nei Sonetti del ritorno dice:  « O nonno! E tu non mi perdoneresti/ ozi vani di sillabe sublimi,/ tu che amasti la scienza dei concimi », non è difficile individuare il senso di colpa del poeta di fronte a chi, nella società, ha trovato un ruolo riconosciuto e giustificato. Ma possiamo anche tornare indietro di tredici anni dalla pubblicazione dei sonetti del ritorno, per ritrovare in un poeta questa stessa domanda.
Pascoli, nella raccolta Myricae, fa pronunciare a due fuchi la sentenza sulla funzione del poeta, ed è emblematica questa attribuzione; è come se i due fuchi rappresentassero due individui della società umana; quella società umana perfettamente organizzata in cui ogni individuo è ben inquadrato nel suo ruolo e nella sua funzione, proprio come la società delle api della quale fanno parte i fuchi.
Il poeta si muove in un universo torbido, pieno di dolore e di nebbia e in cui nulla è chiaro; e questo perché la realtà del poeta non è quella della società dell’uomo organizzata dall’uomo, ma il Cosmo, organizzato da una forza sconosciuta. E il poeta, di questo universo, coglie solamente dei frammenti, li traduce in parola; non in una semplice parola, bensì, in una parola lucida, che porta in sé la luce della Rivelazione. Ma la luce, quando incontra la realtà genera l’ombra, quindi, l’uomo che si appende all’universo, il poeta, non riesce a riportare agli uomini, di quell’universo, di quella luce, nient’altro che l’ombra, utilizzando quelle parole attraverso le quali non lo può descrivere come una realtà, poiché esso è torbido, non chiaro, ma lo può solamente evocare, proprio come un ombra, come uno spettro.
Una volta che questo universo è stato svelato, ma non del tutto, agli uomini: quale soddisfazione ne ha il poeta, qual è la sua ricompensa, il suo riconoscimento? Che cosa è cambiato nella società per cui bisognerebbe ringraziarlo? Questo si chiedono i due fuchi, che nella loro visione utilitaristica dell’individuo all’interno della società, lo accusano di fare il miele solo per se stesso, senza pensare alla comunità, perché in fondo, un individuo funzionale, cosa se ne fa dell’universo, quando conosce l’alveare, la fabbrica in cui è utile? Proprio nulla. E poi in una società siffatta servono poche parole, servono comandi, parole dure, gridate ad alta voce per sovrastare il rumore del lavoro, e quelle del poeta sono troppo dolci, troppo soffocate.


[1] G.Pascoli, Myricae, BUR universale Rizzoli, 2001.

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