sabato 5 marzo 2011

L’irriducibilità del Male e l’opera di Giampiero Neri

Da quell’intrico di rami
si tendeva il germoglio di un kiwi
incontro al ramo di una betulla.
Si formava un nuovo viluppo
come un piccolo arco di trionfo
che vede il kiwi prevalere
la betulla vicina soccombere
e l’ospite a meditare nel giardino.[1]

L’aspetto occidentale del vestito, ovvero la prima raccolta del lombardo Giampiero Neri (pseudonimo di Giampietro Pontiggia) esce nel 1976, quando l’autore è quasi cinquantenne; l’ultimo lavoro, Paesaggi inospiti, è dato alle stampe nel 2009.
Nell’arco di più di trent’anni il poeta pubblica una quantità esigua di sillogi, composte di frammenti, brevi prose e liriche che spesso lasciano spazio alla pagina bianca, titoli che si ripetono, immagini e situazioni evocate anche due o tre volte.
Uno sguardo frettoloso sull’opera può far pensare a una scrittura monotona e poco versatile, affetta da una radicale pigrizia nel rinnovare la propria ispirazione. Eppure nemmeno un lettore che si accosti a Neri in maniera superficiale potrà vedere nell’intrico continuo di rimandi e allegorismi il frutto di una stesura svogliata e puramente istintiva. La predilezione per la prosa poetica, parallela a quella per i versi dall’andatura ‘prosastica’, dove spesso, accanto a una discorsività emotivamente neutra, si mimetizzano espressioni tratte dalla tradizione storiografica, memorialistica, o addirittura scientifica, tradisce un pazientissimo e consapevole labor limae, tutto improntato alla ricerca di un metodo espressivo scevro dai consueti (e consunti) lirismi. Un togliere, una ‘spersonalizzazione’ che non porta alla freddezza né pregiudica il fascino della poesia, ma anzi, conferisce al dire della pagina un’asciuttezza e un’evocatività rara.

Le atmosfere richiamate da Neri, le scene quotidiane come le straordinarie, ruotano attorno ai due fuochi  ‘sovrapponibili’ [2]della natura e dell’uomo. La dimensione in cui si dispiega il loro apparire è quella della memoria, resa con l’uso del presente storico, dell’imperfetto e del passato prossimo.
L’intera opera si configura come uno sguardo prolungato sul magma confuso delle realtà già state, un palcoscenico dove si susseguono luoghi, eventi, personaggi, dove ogni elemento dialoga con l’altro nel suo presentarsi e ripresentarsi al lettore in un ordito non districabile. Una narrazione sconnessa, forse portata avanti da logiche arcane, in continua fuga.

Ma non per manierismo, né mosso da vuoti sentimentalismi l’occhio di Neri fissa il passato.
Il ritorno dello stesso, il dejà vu, non è mai un riconoscimento nostalgico – e sereno ancor meno – di ciò che è familiare: c’è in esso un’ambivalenza inquietante, un variare che angoscia e disorienta. Non solo abbiamo questa impressione davanti a componimenti che descrivono la stessa situazione, ma persino tra poesie di ‘argomento’ diverso, dove a turbarci è l’insistenza della voce narrante su precisi particolari.
Ci accorgiamo, ad esempio, che, sparsi tra le varie raccolte, uomini, animali ed oggetti sono accumunati da una sorte infelice: case abbandonate, edifici in rovina, vite stroncate, bestie inseguite o prese in trappola sono i commedianti di questo teatro universale dove s’inscenano progetti per sempre sospesi, attese e ricerche deluse, abitudini perse. Leggendo abbiamo l’impressione che un pericolo sia sempre dietro l’angolo: tutto muore, sia perché corrotto dal naturale scorrere del tempo, sia perché sopraffatto da violenza e brutalità. A questo punto il ripresentarsi dello stesso non può essere soltanto una bizzarra trovata dell’autore, né si esaurisce in una ‘imitazione’ del dejà vu, ma rappresenta il soffermarsi del poeta sull’unica costante osservabile in natura e storia: l’irriducibilità del Male, in entrambi onnipresente, necessario o gratuito che sia.
Ci si guardi, però, dall’intendere questa presa di posizione come una glorificazione del negativo, e non la si confonda con uno sterile e decadente piangersi addosso: attraverso il suo stile per lo più neutro e ‘oggettivo’, Neri si propone di riesumare le esistenze passate per lasciare che parlino da sole, denunciando le ingiustizie e gli abusi di cui tutto cade vittima. In questo senso non sono rare le poesie e le prose che consistono in veri e propri inventari di oggetti ‘superstiti’, scampati al tempo e ritrovati dalla penna del poeta.

Capiamo ora che il ‘ricordare’ di Neri deve essere necessariamente inteso come un ‘testimoniare’, un dar voce a ciò che non c’è più; un evocare di nuovo qualcuno o qualcosa in presenza del suo destino, dell’ineluttabile, trasformando il poetare in una vera e propria lotta contro il tempo divoratore, contro tutto ciò che di negativo s’insinua nell’esistenza. Questo testimoniare il Male coincide (per stessa ammissione del poeta[3]) col mettere in guardia il lettore, avvertirlo del pericolo, segnalare non soltanto la finitezza di ogni cosa, la violenza delle dinamiche naturali, ma anche l’ingiustificata barbarie che ancora sopravvive nella civiltà (in Paesaggi inospiti, ad esempio, molto spazio è dedicato al periodo della guerra).

Eppure Neri è perfettamente conscio dell’essenziale fraintendibilità del linguaggio: nel capitolo iniziale de L’aspetto occidentale del vestito[4] - la prolusione del vero e proprio poema in atto che è la sua opera -  la voce narrante si interrompe o introduce il discorso con espressioni quali ‹‹ora non ricordo tutti i particolari››, oppure ‹‹non voglio dire una cosa per un’altra››; troviamo poi elementi che esprimono scetticismo riguardo alla coincidenza tra parola e cosa designata, qualsiasi essa sia: i ‹‹piccoli segni neri, immagine e somiglianza di un impegno continuo›› che ‹‹dimorano a forma di  malinconici simboli, privi di vita›› sono metafora di questa mancata identità.
Ma proprio a causa della loro sostanziale e rischiosa debolezza il poeta non gioca mai con le parole: le dosa e le soppesa accuratamente perché possano svolgere al meglio la loro missione, senza che la scrittura ceda mai al disfattismo né alla tentazione di comporre ‘facili’ versi.

E’ chiaro adesso come una straordinaria tensione etica unisca i tasselli di una narrazione che ci appariva casuale e gratuita, e comprendiamo il vero senso della lenta e paziente vocazione di un poeta-artigiano come Giampiero Neri. 



[1] Nel giardino, tratto da Persona seconda, in Poesie 1960-2005, Milano, Mondadori, 2007
[2] Daniela Marcheschi, Della co-esistenza, in La natura e la storia, quattro scritti per Giampiero Neri, Firenze, Le Lettere, 2002
[3] Giampiero Neri, Il mestiere di poeta, libro intervista a cura di Massimiliano Martolini, Ancona, Cattedrale, 2009
[4] L’albergo degli angeli, tratto da L’aspetto occidentale del vestito, in Poesie 1960-2005, Milano, Mondadori, 2007

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