Da un giorno all’altro, trovarsi senza nessuna traccia della propria identità: nessun documento, nessun conoscente, nessun nome. Aver perso la memoria ed essere costretti a ripartire da zero, tra i respinti e gli sbandati, gli unici disposti ad accogliere chi non sa come si chiama.
Queste premesse, unite alle prime brutali scene del film, possono far pensare ad uno svolgimento drammatico, a una tragedia esistenziale che, sondando gli abissi dell’individuo, non dimentichi di far apparire sulla propria scena un’umanità di sconfitti. Eppure Kaurismäki tesse le trame di L’uomo senza passato con una leggerezza e un ottimismo che di tragico hanno ben poco. La morte (nemmeno tanto metaforica) dell’anonimo protagonista, è un’occasione per lasciarsi dietro un’esistenza grigia e problematica e costruirsene una nuova. Da qui il film colpisce lo spettatore con una successione di scene e dialoghi improbabili, se non addirittura surreali, e la storia prende le sembianze di una favola. Certo, gli ostacoli permangono, e il più grande è proprio quello di non avere un’identità, trovarsi isolati dal resto di una società dove nulla si può fare senza un nome; eppure, con il recupero di una parte del proprio passato (in questo caso la sua abilità di saldatore), il protagonista riuscirà a costruire un nuovo sé stesso. Non fare tabula rasa prima del cambiamento, tenersi quanto di buono abbiamo imparato e dimenticare il resto, sembra essere l’esortazione del film.
Il concetto di solidarietà è centrale nella pellicola: la rinascita è possibile soprattutto grazie all’aiuto del prossimo. Sono numerosi i riferimenti all’amore cristiano, inteso come forza rinnovatrice: il volto fasciato del protagonista che s’alza e cammina nella sala dell’ospedale sembra quello di un Lazzaro appena uscito dal sepolcro, e la parabola del buon samaritano (ovvero, di chi soccorre il bisognoso senza chiedere il suo nome né sapere da dove viene) è continuamente ripresentata e contrapposta all’aridità di un sistema retto dalla logica del sospetto e del guadagno.
Il treno con cui vediamo il protagonista arrivare in città diviene il mezzo di congiungimento tra vecchio e nuovo, un canale che consente il ritorno (una volta scoperto il suo nome, l’uomo senza passato lo utilizza ancora per recarsi dalla moglie), ma che si limita a due soli movimenti, avanti e indietro. Lo slancio rigeneratore del cristianesimo sembra spezzare anche questa regola, quando nell’ultima inquadratura il cammino del protagonista, redento dal proprio passato e accompagnato dal suo nuovo amore, interseca quello della ferrovia, formando l’immagine di una croce.
Il lieto fine parla chiaro, eppure l’inverosimiglianza delle situazioni in cui ci imbattiamo getta un’ombra sul messaggio di speranza del film. Il distacco e l’ironia assurda con cui i personaggi affrontano il proprio destino (non c’è pathos nemmeno davanti alla morte), da un lato nobilitano la loro condizione, ma dall’altro avvolgono la scena in un’atmosfera ambigua, quasi irreale. I saldatori che lavorano a pochi metri dal protagonista, la rapina in banca, il fulmineo intervento del legale dell’Esercito della Salvezza, i barboni che mettono in fuga tre malintenzionati: tutto accade al momento giusto, come mosso dalla mano di un invisibile deus ex machina. Molti personaggi si esprimono con parole e movenze affettate, altri passano il tempo con gesti inutili (come l’enorme fisarmonicista che continuamente avvita e svita un bullone), alcuni incarnano perfettamente uno stereotipo (il già citato avvocato) e altri ancora hanno profili che sfidano i criteri della verosimiglianza (i componenti della band che non conoscono il rock). Come se non bastasse, la musica è onnipresente, avvolge e sospende quasi tutte le scene, e più di una volta gli attori guardano dritto verso lo spettatore, come a volergli ricordare la realtà fittizia di ciò che sta osservando.
Che sia tutto una palese finzione, un sogno?
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