domenica 26 dicembre 2010

Il miracolo greco. Riflessioni su 'La nascita della tragedia' di F. Nietzsche


Raramente, nella storia, un’opera è stata peggio accolta de La nascita della tragedia di F. Nietzsche. Pubblicata nel 1876, nel bel mezzo del trionfo della filologia classica tedesca di Wilamowitz, essa subì la sorte tipica delle opere più geniali: non trovò un pubblico in grado di capirla. Tuttora difficilmente gli specialisti del settore riconoscono a Nietzsche il merito di aver rivoluzionato la nostra visione della poesia greca, e della classicità in generale, per il semplice motivo che la sua impostazione, da filologo dissacratore della filologia quale egli era, è filosofica.
Eppure uno dei massimi storici dell’antichità greca, Domenico Musti,[1] promuove oggi una ri-lettura della storia del popolo greco estremamente intelligente, che non sarebbe stata possibile senza la lente rigenerante del grande filosofo tedesco. Musti sostiene che è stato un grave errore, da parte della filologia tradizionale, esaltare il mito del miracolo greco così com’è sempre stato inteso. Nell’immaginario comune e, ahimè, nella convinzione di tanti specialisti, la grecità è da sempre legata al culto dell’armonia, della razionalità, della perfezione ideale, e opere quali il Partenone, il Doriforo di Policleto, l’Atena Parthenos di Fidia, sarebbero espressione compiuta di questa straordinaria capacità di idealizzare.
Ma il vero miracolo è, per Musti, il fatto che questa oltreumana percezione che i Greci avevano dell’armonia presuppone in realtà una drammatica, umanissima coscienza della disarmonia. E’ dall’irrazionalità, dalla contraddizione, dall’eccesso, vissuti consapevolmente nell’immaginario e in tante vicende della storia di questa civiltà, che scaturiscono la razionalità,       l’unitarietà, la misura, come miti ideali necessari per vivere quella disarmonia che è il reale. La realtà viene cioè sublimata e diventa un’idea, che in quanto tale non è più reale. Ma senza l’idea, che è un sogno, una visione, l’uomo non potrebbe vivere la realtà, poiché essa lo schiaccerebbe.
Questa lettura presuppone indubbiamente le categorie dell’apollineo e del dionisiaco, così come sono state genialmente pensate da Nietzsche. Egli è stato il primo ad accorgersi che la grecità, la cui più alta espressione è rappresentata dalla tragedia attica del V secolo a. C., tutto è fuorché pura armonia ed apollinea perfezione. E’ illusoria, per Nietzsche, la concezione che abbiamo della religiosità e dell’arte arte greca, le quali sono illusioni esse stesse: l’illusione di chi ha contemplato e conosciuto l’orrore più devastante, l’aspetto più truce e macabro della natura, il volto più dionisiaco dell’essenza, ed è riuscito a sublimarlo creando un ideale kosmos olimpico e una dike divina, e trasfigurandolo nell’arte. Scrive Nietzsche: «Il Greco conobbe e sentì i terrori e le atrocità dell’esistenza: per poter comunque vivere, egli dové porre davanti a tutto ciò la splendida nascita sognata degli dèi olimpici». [2]
Anche l’arte classica, che a noi appare come manifestazione tangibile di una reale percezione dell’armonia, è in realtà il sogno di quell’armonia. L’arte greca è uno specchio trasfiguratore, che trasforma la visione estatica della verità dionisiaca in linguaggio poetico, che è un linguaggio apollineo. Il processo poetico è dunque un processo di sublimazione della disposizione dionisiaca primitiva, una disposizione di tipo musicale, in un’immagine di sogno, che è il riflesso di quel dolore originario trasfigurato nella poesia. Per Nietszche, in definitiva, l’arte possiede un’altissima funzione estetico - salvifica, di cui egli dà una sublime interpretazione: «Nella consapevolezza di una verità ormai contemplata, l’uomo vede ora dappertutto soltanto l’atrocità o l’assurdità dell’essere, ora comprende il simbolismo del destino di Ofelia, ora conosce la saggezza del dio silvestre Sileno: prova disgusto. Ed ecco, in questo estremo pericolo della volontà, si avvicina, come maga che salva e risana, l’arte; soltanto lei è capace di volgere quei pensieri di disgusto per l’atrocità o l’assurdità dell’esistenza in rappresentazioni con cui si possa vivere».[3]
M.B.


[1] Cfr. D. Musti, Introduzione a Storia greca, Bari 2008, pp. 6-8.
[2] F. Nietzsche, La nascita della tragedia, trad. it. Milano 2008, p. 32.
[3] Ibidem, p. 56.

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