Una schiera di nemici
Anziché parlare dell'ultima guerra, vorrei parlare della prossima, perché è meglio essere preparati al futuro che ci attende. Oggi negli Stati Uniti è in atto un processo molto particolare, che per la verità si è già osservato in altri paesi: i problemi sociali ed economici si stanno aggravando con effetti potenzialmente catastrofici; coloro che detengono il potere non hanno alcuna intenzione di intervenire. Se si esaminano i programmi di politica interna dei governi dell'ultima quindicina d'anni (compresi quelli in cui il partito democratico era all'opposizione) non si trovano proposte concrete di intervento sui gravi problemi del sistema sanitario e scolastico, delle abitazioni, della disoccupazione, della criminalità, del vertiginoso aumento della delinquenza e della popolazione carceraria, del deterioramento dei centri urbani.
Nei primi due anni in cui George Bush è stato alla presidenza, tre milioni di bambini hanno oltrepassato la soglia della povertà, il debito è cresciuto sensibilmente, il sistema scolastico si è trovato sempre più in crisi, i salari reali sono rimasti pari a quelli della fine degli anni cinquanta per la maggior parte della popolazione e nessuno ha fatto niente. In tali circostanze bisogna distrarre il gregge smarrito perché, se si rende conto della situazione, potrebbe non accettare di subirne le conseguenze. Il campionato di calcio e le sitcom potrebbero non bastare più. Bisogna incitarlo ad avere paura dei nemici.
Negli anni trenta Hitler spinse i tedeschi ad avere paura degli ebrei e degli zingari: per difendersi bisognava sterminarli. Anche noi americani abbiamo i nostri metodi: nell'ultimo decennio, ogni uno o due anni, è stato inventato un grande mostro da cui era necessario difendersi. Eravamo abituati ad averne uno sempre a disposizione: l'Unione Sovietica. Ma poi come nemici i russi hanno perso la loro attrattiva, e siccome diventava difficile usarli a quello scopo, occorreva tirare fuori dal cappello qualche nemico nuovo. In realtà, George Bush è stato ingiustamente criticato per non aver saputo spiegare chiaramente come stavano le cose. Prima della metà degli anni ottanta, la minaccia era sempre la stessa: i russi. Poi quella minaccia non ha più avuto senso e Bush ha dovuto trovarne di nuove, come aveva fatto l'apparato di pubbliche relazioni di Reagan in precedenza. Alla conquista del mondo ci furono allora i terroristi internazionali, i narcotrafficanti, gli arabi impazziti e Saddam Hussein, il nuovo Hitler, uno dopo l'altro. Spaventate la popolazione, terrorizzatela, fatela sentire minacciata in modo che se ne stia chiusa in casa e non osi spostarsi. Poi ottenete una gloriosa vittoria su Grenada, Panamà o qualche altro esercito indifeso del Terzo mondo che riuscirete a polverizzare prima ancora di averlo visto schierato: proprio come è avvenuto. Allora ci sarà un sospiro di sollievo: siamo stati salvati all'ultimo minuto. Questo è uno dei modi in cui potete impedire al gregge smarrito di prestare attenzione a quanto sta realmente accadendo, distrarlo e controllarlo. Il prossimo mostro a entrare in scena sarà, molto probabilmente, Cuba: bisognerà continuare la guerra economica illegittima e probabilmente recuperare il terrorismo internazionale, riportandolo ai livelli dell'operazione Mongoose, organizzata dall'amministrazione Kennedy ai danni dell'isola, rimasta ineguagliata, salvo forse per la guerra contro il Nicaragua (per chi vuole considerarla terrorismo; la Corte mondiale in realtà l'ha trovata più simile a un'aggressione). C'è sempre un'offensiva ideologica che costruisce un mostro, e poi organizza una campagna militare al fine di annientarlo. Se il nemico è in grado di difendersi, questa strategia diventa troppo pericolosa; ma se c'è la certezza di poterlo sconfiggere, allora si parte all'attacco e tutti potranno tirare un sospiro di sollievo per lo scongiurato pericolo.
Una percezione selettiva
È una storia che sta andando avanti da un bel po'. Nel maggio del 1986 furono pubblicate le memorie di un ex prigioniero cubano, Armando Valladares, che divennero subito un evento sensazionale per i media. Riporto un paio di citazioni. I giornali definirono le sue rivelazioni come "il resoconto definitivo del vasto sistema di torture e prigionia con il quale Castro punisce e cancella l'opposizione politica". "Una indimenticabile, appassionante testimonianza" delle "prigioni bestiali", delle "torture disumane [e] delle violenze di stato [compiute da] uno dei tanti genocidi di questo secolo" che, come abbiamo finalmente appreso da questo libro, "ha creato un nuovo dispotismo che ha istituzionalizzato la tortura come meccanismo di controllo sociale" in quell'inferno che era la Cuba in cui viveva [Valladares]". Così hanno scritto il Washington Post e il New York Times in diverse recensioni. Castro era descritto come un "kapo dittatoriale". Le sue atrocità erano rivelate in quel libro in modo così evidente che "soltanto i più vacui e freddi tra gli intellettuali occidentali prenderanno le difese del tiranno", scrisse il Washington Post. Ricordate, questo è il racconto di quanto accadde a un solo uomo. Supponiamo pure che sia tutto vero; non mettiamo in dubbio quel che è accaduto all'unico cubano che afferma di essere stato torturato. Alla cerimonia celebrativa per il giorno dei diritti umani, tenutasi alla Casa Bianca, Valladares fu ricordato da Ronald Reagan per il suo coraggio nel resistere agli orrori e al sadismo di quel sanguinano tiranno cubano. Quindi fu designato rappresentante degli USA presso la Commissione delle Nazioni Unite per i diritti umani, dove ha potuto rendere un buon servizio in difesa dei governi salvadoregno e guatemalteco, accusati di avere commesso atrocità tanto terribili da far apparire insignificanti, al confronto, quelle da lui subite. Così va il mondo.
Era il maggio del 1986. È un caso interessante e mette in luce il meccanismo della fabbrica del consenso. Quello stesso mese, i membri sopravvissuti del Gruppo per i diritti umani del Salvador (i leader erano stati assassinati) furono arrestati e torturati, incluso Herbert Anaya, che ne era il capo. Furono rinchiusi nella prigione di La Esperanza, e da lì continuarono la loro attività in difesa dei diritti umani. Erano avvocati, e riuscirono a raccogliere dichiarazioni giurate. In quella prigione c'erano quattrocentotrentadue prigionieri, e loro ne raccolsero quattrocentotrenta, firmate, nelle quali i detenuti descrivevano, sotto giuramento, le sevizie cui erano stati sottoposti: tortura elettrica e altre atrocità, compresa, in un caso, la tortura praticata da un maggiore statunitense in uniforme, che viene descritto dettagliatamente. Si tratta di una testimonianza insolitamente esplicita ed esauriente, forse unica per la ricchezza di dettagli su quanto avviene in una camera di tortura.
Questo rapporto di centosessanta pagine fu fatto uscire dalla prigione, assieme a una videocassetta con le testimonianze registrate che fu distribuita dalla Marin County Interfaith Task Force. La stampa nazionale si rifiutò di scriverne. Le stazioni televisive rifiutarono di trasmettere il video. Ci fu un articolo sul giornale locale di Marin County, il San Francisco Examiner, e credo che sia stato l'unico. Nessun altro volle farsi coinvolgere. In quel periodo c'era più di un "intellettuale occidentale vacuo e dal cuore freddo" a cantare le lodi di José Napoleòn Duarte e di Ronald Reagan. Ad Anaya non fu tributato alcun onore, non fu invitato nel giorno dei diritti umani, non gli fu attribuita alcuna carica. Fu rilasciato in occasione di uno scambio di prigionieri e in seguito assassinato, a quanto pare dai militari spalleggiati dagli Stati Uniti. Anche di questo è stata data scarsa notizia. I media non si chiesero mai se la divulgazione delle atrocità (anziché la censura e il silenzio) avrebbe potuto salvargli la vita.
Questo esempio lascia ben intendere come opera un sistema di fabbricazione del consenso efficiente. Paragonate alle rivelazioni di Herbert Anaya sul Salvador, le memorie di Valladares sono ben poca cosa. Ma loro devono condurci un passo alla volta verso la prossima guerra, e sono convinto che si parlerà sempre più di questo caso, finché si arriverà a un conflitto.
A tale proposito, vorrei ritornare allo studio dell'università del Massachusetts già citato, che trae interessanti conclusioni. I ricercatori chiedevano agli intervistati se pensavano che gli Stati Uniti dovessero intervenire con la forza in caso di occupazioni illegittime o di gravi abusi dei diritti umani. All'incirca due su tre pensavano di sì: l'America doveva usare la forza nel caso di occupazione illegittima di territori o di abusi gravi dei diritti umani. Se dovessero seguire quel parere, gli Stati Uniti dovrebbero bombardare El Salvador, Guatemala, Indonesia, Damasco, Tel Aviv, Città del Capo, Turchia, Washington e un lungo elenco di altri stati, tutti colpevoli di occupazione illegittima, aggressione e gravi abusi. Se conoscete questi casi, saprete benissimo che l'aggressione e le atrocità commesse da Saddam Hussein rientrano ampiamente nella media, non sono di certo le più gravi. Ma perché nessuno arriva a questa conclusione? La ragione è che nessuno conosce la realtà dei fatti. In un sIstema di propaganda efficiente nessuno sa a che cosa mi riferisco quando cito questi esempi. Ma se qualcuno si preoccuperà di verificarli, vedrà che sono significativi.
Prendiamone uno che ha rischiato vergognosamente di venire alla luce durante la guerra del Golfo. In febbraio, nel pieno dei bombardamenti, il governo del Libano ha richiesto a Israele di osservare la risoluzione 425 del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite, che lo esortava a ritirarsi immediatamente e senza condizioni dal suo territorio. La risoluzione risaliva al marzo del 1978. Da allora ci furono altre due risoluzioni che chiedevano il ritiro immediato e incondizionato di Israele dal Libano. Naturalmente non sono state osservate perché gli Stati Uniti appoggiano l'occupazione israeliana del territorio libanese. Anche adesso il Sud del Libano vive nel terrore: ci sono grandi camere di tortura in cui accadono cose atroci, e la zona viene usata come base per attaccare le altre parti del paese. Dopo il 1978 il Libano fu invaso, la città di Beirut bombardata, circa ventimila persone, di cui l'80 percento civili, furono uccise, gli ospedali distrutti; terrore, saccheggi e rapine devastarono il paese. Ma gli Stati Uniti erano d'accordo, perciò andava tutto bene. E questo è solo un caso. I media tacquero, né vi fu alcun dibattito sulla risoluzione 425 del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite o su tutte le altre risoluzioni ignorate da Israele e dagli Stati Uniti; nessuno ha chiesto il bombardamento di Tel Aviv, come ci si sarebbe dovuti aspettare stando ai risultati della ricerca effettuata dall'università del Massachusetts. Dopotutto si trattava di occupazione illegittima e di gravi abusi dei diritti umani. E questo è solo un caso, ce ne sono di molto peggiori. L'invasione indonesiana di Timor Est ha causato quasi duecentomila vittime. Le altre sembrano poca cosa rispetto a questa, che fu ed è ancora fortemente appoggiata dagli Stati Uniti grazie all'impegno diplomatico e militare americano. E potrà continuare per molto tempo.
La guerra del Golfo
Questo spiega come opera un sistema di propaganda ben funzionante. La popolazione può credere che quando aggrediamo militarmente l'Iraq lo facciamo perché osserviamo il principio secondo cui l'occupazione illegittima e l'abuso dei diritti umani devono essere contrastati con la forza. Grazie all'effetto della propaganda non ci si accorge di che cosa accadrebbe se quei principi venissero applicati al comportamento degli Stati Uniti.
Consideriamo ora un altro esempio. Se si osservano attentamente i resoconti dei media sulla guerra dall'agosto del 1990 ci si accorge che mancano due voci importanti. In Iraq c'è un'opposizione democratica, molto coraggiosa e concreta. I suoi membri naturalmente agiscono in esilio, perché in patria non potrebbero sopravvivere. Stanno soprattutto in Europa, sono banchieri, ingegneri, architetti. Sono organizzati e hanno dei rappresentanti. Il febbraio dell'anno precedente, quando Saddam Hussein era ancora amico prediletto e partner commerciale di George Bush, si presentarono a Washington, secondo le fonti dell'opposizione democratica irachena, per chiedere un appoggio alla loro richiesta di una democrazia parlamentare in Iraq. Furono respinti brutalmente, perché gli Stati Uniti non erano interessati al progetto. Nel dibattito pubblico non vi fu alcuna reazione.
Da agosto divenne un po' più difficile ignorare la loro esistenza: allora, dopo averlo sostenuto per molti anni, gli Stati Uniti si schierarono improvvisamente contro Saddam Hussein. Gli oppositori democratici iracheni avrebbero avuto qualcosa da dire, e sarebbero stati felici di vedere Saddam Hussein sconfitto: aveva ucciso i loro fratelli, torturato le loro sorelle e li aveva cacciati dal loro paese. Avevano combattuto contro di lui per tutto il periodo in cui Ronald Reagan e George Bush lo avevano colmato di gentilezze. Cosa ne è stato delle loro voci? Date un'occhiata ai media nazionali e vedete quante notizie riuscite a trovare sull'opposizione democratica in Iraq dall'agosto del 1990 al marzo del 1991: neppure una parola. Non perché non avessero nulla da dire: avevano dichiarazioni, proposte, appelli e richieste che coincidono precisamente con quelle del movimento pacifista statunitense. Erano contro Saddam Hussein e contro la guerra all'Iraq, non volevano che il loro paese venisse distrutto, chiedevano una soluzione pacifica e sapevano perfettamente che era possibile ottenerla. Ma queste erano idee sbagliate e quindi dovevano essere ignorate. Per saperne qualcosa bisognerebbe consultare la stampa tedesca o quella inglese. Non dicono molto, ma sono meno controllate di quella americana.
Anche questo è un grande risultato della propaganda. Innanzitutto, perché le voci dei democratici iracheni sono state completamente ignorate, e poi perché nessuno si è reso conto della censura. Anche questo è un dato interessante: solo una popolazione profondamente indottrinata poteva non accorgersi del silenzio dell'opposizione democratica irachena e non chiedersene il perché, che è ovvio: perché l'opposizione democratica in Iraq si trova sulle stesse posizioni del movimento internazionale per la pace.
Consideriamo ora le ragioni addotte dagli Stati Uniti per giustificare la guerra: l'aggressione di Saddam al Kuwait deve essere respinta con l'immediato ricorso alla violenza. Queste erano le ragioni, e nessun'altra è stata avanzata. Ma sono credibili? Gli Stati Uniti sostengono davvero questi principi? Non voglio far torto all'intelligenza dei lettori spiegando come si sono svolti i fatti, ma quelle ragioni possono essere confutate in due minuti da un bravo studente di scuola superiore. E tuttavia, nessuno lo ha mai fatto pubblicamente. Basta guardare ai media, ai commentatori e ai critici di sinistra, a coloro che hanno fatto dichiarazioni al Congresso, per constatare che nessuno ha messo in dubbio l'assunto che gli Stati Uniti sono fedeli a quei principi. L'America si è forse opposta alla sua stessa aggressione contro Panamà e ha deciso di bombardare Washington per contrastarla? Quando l'occupazione sudafricana della Namibia è stata dichiarata illegittima nel 1969, gli Stati Uniti hanno forse imposto un embargo su alimenti e medicinali? hanno dichiarato guerra? hanno bombardato Città del Capo? No, sono andati avanti per vent'anni con "pacifica diplomazia". La storia africana in quei vent'anni è stata drammatica. Solo nel periodo della presidenza di Reagan e di Bush circa un milione e mezzo di persone sono state uccise dalle milizie sudafricane nei paesi circostanti. Ma non importa, quel che accadde in Sudafrica e in Namibia non ha offeso le nostre anime sensibili. Abbiamo continuato con "pacifica diplomazia" e alla fine abbiamo ricompensato generosamente gli aggressori assicurando loro l'accesso al porto principale della Namibia e molti vantaggi che tenevano conto dei loro interessi in materia di sicurezza. Dov'erano i principi a cui siamo fedeli? È un gioco da ragazzi dimostrare che non è possibile invocare quei principi come ragioni per entrare in guerra, dato che non è vero che li difendiamo. Ma nessuno l'ha fatto: questo è il dato importante. E nessuno si è preso il disturbo di trarre la seguente conclusione: non è stata data alcuna ragione valida per l'entrata in guerra. Come ho già detto, questa è la prerogativa di una cultura totalitaria. Dovrebbe spaventarci il fatto di vivere in un paese che riesce a farci accettare una guerra ingiustificata, senza informarci sulle richieste o sugli interessi del Libano. Dovremmo trovarlo molto sorprendente.
Poco prima dell'inizio dei bombardamenti, a metà gennaio, un importante sondaggio del Washington Post e della ABC ha rivelato qualcosa di interessante. Alle persone veniva domandato: "Sareste favorevoli al ritiro dell'Iraq dal Kuwait in cambio dell'assicurazione che il Consiglio di sicurezza prenderà in esame il problema del conflitto araboisraeliano?". All'incirca due persone su tre erano favorevoli, come in tutto il resto del mondo, inclusa l'opposizione democratica irachena. E così il risultato del sondaggio fu reso pubblico. Presumibilmente ogni persona che si era pronunciata a favore credeva di essere la sola al mondo ad avere quell'opinione, dato che nessuno l'aveva sostenuta sui giornali. Gli ordini di Washington erano stati chiari, ci si aspettava che fossimo contro la diplomazia, e tutti marciavano al passo dell'oca eseguendo gli ordini. Cercando sulla stampa si può trovare una colonna di Alex Cockburn sul Los Angeles Times, che giudicava quella diplomatica la strada migliore. Chi rispondeva affermativamente al questionario pensava: questo è ciò che penso, ma lo penso solo io. Supponiamo però che sapessero di non essere i soli, che altri la pensavano così, per esempio l'opposizione democratica irachena. Supponiamo che sapessero che la domanda non era ipotetica, che l'Iraq aveva avanzato davvero quella proposta, come avevano riferito alti ufficiali statunitensi otto giorni prima, il 2 gennaio: l'Iraq era disposto a ritirarsi totalmente dal Kuwait se in cambio il Consiglio di sicurezza avesse preso in esame il conflitto araboisraeliano e il problema delle armi di distruzione di massa. Gli Stati Uniti avevano già rifiutato di negoziare quella richiesta ben prima dell'invasione del Kuwait. Supponiamo che la gente avesse saputo che quell'offerta era davvero sul tavolo delle trattative, che era appoggiata da più parti e che di fatto era l'unica cosa che ogni persona razionale e interessata alla pace potesse considerare, come accade nei rari casi in cui vogliamo davvero respingere un'aggressione. Supponiamo che tutto questo si sapesse. Si possono avanzare altre ipotesi, ma la mia è che i due terzi sarebbero probabilmente saliti fino al 98 percento della popolazione. Ed ecco i grandi successi della propaganda. Probabilmente tutte le persone che hanno risposto al sondaggio ignoravano i fatti che ho menzionato e credevano che nessuno condividesse la loro opinione. Per questo fu possibile procedere con la politica di guerra senza incontrare opposizione.
Si è molto discusso dell'efficacia delle sanzioni, e anche il capo della CIA è intervenuto sull'argomento, però non c'è stato alcun dibattito riguardo a un interrogativo molto più ovvio: le sanzioni si erano già dimostrate efficaci? La risposta è sì, era evidente che avevano già avuto effetto, forse dalla fine di agosto, o più probabilmente dalla fine di dicembre. Era difficile trovare altre ragioni che spiegassero le offerte di ritirata dell'Iraq, certificate e in qualche caso riferite da alti funzionari degli Stati Uniti, che le definivano "serie e "negoziabili". Quindi la vera domanda è: le sanzioni avevano già funzionato? C'era una via d'uscita? C'era una soluzione pacifica accettabile per la popolazione, per il resto del mondo e per l'opposizione democratica irachena? Queste domande non sono state poste ed è d'importanza cruciale per un sistema di propaganda efficace che non siano state discusse. Questo ha permesso a Clayton Yeutter, presidente del Comitato nazionale repubblicano, di affermare che, se alla presidenza ci fosse stato un democratico, il Kuwait oggi non sarebbe libero. Ha potuto affermarlo senza che nessun esponente del partito democratico replicasse che se ci fosse stato uno di loro alla presidenza il Kuwait sarebbe stato liberato almeno sei mesi prima, perché avrebbero colto le opportunità che si erano create, e sarebbe stato liberato senza che decine di migliaia di persone restassero uccise e senza che si provocasse una catastrofe ambientale. Nessun democratico ha replicato così, perché nessun democratico aveva preso quella posizione. Henry Gonzalez e Barbara Boxer sono stati gli unici a farlo, ma è stata una posizione così marginale da risultare inesistente. Così, Clayton Yeutter è stato libero di fare la sua affermazione.
Quando i missili Scud hanno colpito Israele, nessuno sulla stampa ha applaudito. Anche questo è un fatto interessante dal punto di vista propagandistico. Ci si può chiedere, perché no? Dopotutto, gli argomenti di Saddam Hussein erano validi tanto quanto quelli di Bush. Consideriamo per esempio il Libano. Saddam Hussein afferma di non poter accettare che Israele si impossessi del territorio libanese, delle alture del Golan siriane e di Gerusalemme Est, andando contro la decisione unanime del Consiglio di sicurezza. Non può accettare l'annessione né l'aggressione. Israele occupa il Libano meridionale dal 1978 in violazione delle risoluzioni del Consiglio di sicurezza che rifiuta di osservare. Durante tutto questo periodo ha attaccato il resto del Libano, ha sganciato bombe in quantità sulla maggior parte del territorio. Saddam non può sopportarlo. Forse ha letto il rapporto di Amnesty International sulle atrocità compiute dagli israeliani nella West Bank. Il suo cuore sanguina, non può sopportarlo. Le sanzioni non hanno efficacia perché gli Stati Uniti pongono il loro veto. I negoziati non vanno avanti perché gli Stati Uniti li bloccano. Cosa rimane se non la forza? Ha aspettato per anni: tredici nel caso del Libano, venti in quello della West Bank. È un argomento noto: la sola novità è che Saddam Hussein poteva veramente affermare che le sanzioni e i negoziati erano privi di efficacia perché gli Stati Uniti li bloccavano, mentre George Bush non avrebbe potuto dirlo, perché le sanzioni a quanto pare avevano funzionato e c'erano tutti i motivi per credere che i negoziati avrebbero funzionato: a parte il fatto che lui rifiutava incondizionatamente di portarli avanti, affermando chiaramente che non ci sarebbero stati affatto. La stampa ne ha forse dato notizia? No. E una cosa da niente, ma nessuno l'ha segnalata nessun commentatore, nessun editorialista. E anche questo è segno di una cultura totalitaria ben gestita. E' la prova che la fabbrica del consenso funziona bene.
Un ultimo commento a questo proposito. Potremmo portare molti altri casi, e potrete trovarne anche da soli. Prendete per esempio l'idea che Saddam Hussein sia un mostro deciso a conquistare il mondo, ampiamente diffusa negli Stati Uniti, e non per mancanza di senso della realtà, dato che è stata inculcata alla gente di continuo: l'Iraq vuole prendersi tutto, noi dobbiamo fermarlo subito. Nessuno si chiede come ha fatto a diventare così potente? Si tratta di un piccolo paese del Terzo mondo, privo di una base industriale. Per otto anni è stato in guerra con l'Iran postrivoluzionario, che aveva decimato i suoi ufficiali e buona parte delle sue forze militari. In quella guerra, l'Iraq aveva avuto un appoggio notevole dall'Unione Sovietica, dagli Stati Uniti, dall'Europa, dai principali paesi arabi e dai produttori arabi di petrolio, ma non era riuscito a sconfiggere l'Iran. E d'un tratto è pronto per conquistare il mondo. Avete mai sentito qualcuno sottolineare questa contraddizione? La realtà è che si tratta di un paese del Terzo mondo con un esercito di contadini. Adesso si comincia a riconoscere che c'è stata una certa disinformazione riguardo alle forze armate o alle armi chimiche di cui disporrebbe. Ma qualcuno lo ha mai fatto notare? No. E tipico: una situazione analoga si era già verificata un anno prima con Manuel Noriega. Manuel Noriega è un delinquente di second'ordine in confronto agli amici di George Bush, Saddam Hussein o quello di Pechino, o allo stesso George Bush. Vicino a loro, Manuel Noriega sembra un teppistello. Certo è cattivo, ma non è un criminale su scala mondiale del tipo che piace a noi. È stato trasformato in un mostro gigantesco che stava per distruggerci, alla guida dei narcotrafficanti. Abbiamo dovuto muoverci in fretta e sconfiggerlo, uccidendo un paio di centinaia, o forse di migliaia, di persone, riportando al potere l'oligarchia bianca, che rappresenta forse l'8 percento della popolazione, e piazzando ufficiali statunitensi a controllare ogni livello del sistema politico. Abbiamo dovuto fare tutte queste cose perché, dopotutto, dovevamo salvarci o saremmo stati distrutti dal mostro. Un anno dopo si è fatto lo stesso con Saddam Hussein. Qualcuno lo ha osservato? Qualcuno ha commentato quanto era avvenuto o perché? Bisognerà fare lunghe ricerche per scoprirlo.
È bene osservare che tutto questo non e molto diverso da quanto fece la Commissione Creel quando trasformò una popolazione pacifista in un popolo di fanatici che volevano distruggere tutto ciò che era tedesco per salvarsi dagli unni che strappavano le braccia ai bambini belgi. Le tecniche sono forse più sofisticate, grazie soprattutto ai media e ai soldi impiegati, ma il meccanismo è dei più tradizionali.
Per tornare alla mia idea di partenza, non si tratta soltanto di disinformazione, né il problema è limitato a quanto è accaduto durante la crisi del Golfo. L'interrogativo è di portata molto più ampia: si tratta di capire se vogliamo vivere in una società libera oppure in un regime che corrisponde di fatto a un totalitarismo autoimposto, con il "gregge smarrito" ridotto ai margini, sviato, terrorizzato, che urla slogan patriottici, teme inutilmente per la propria vita e ha timore reverenziale del leader che lo ha salvato dalla distruzione, mentre le masse colte marciano al passo dell'oca ripetendo gli slogan che hanno imparato, e la società si corrompe. Finiremo per diventare uno stato gendarme mercenario, sempre in attesa che qualcuno ci assoldi per distruggere il mondo. Questi sono i possibili sviluppi che ci troviamo di fronte. La risposta è nelle mani di persone voi e come me.
Tratto da: Noam Chomsky "Atti di aggressione e di controllo" - Marco Tropea Editore
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