lunedì 6 dicembre 2010

Czesław Miłosz - Prefazione

Tu, che non ho potuto salvare,
ascoltami.
Cerca di capire questo linguaggio semplice, mi vergognerei di un altro
non possiedo, lo giuro, la magia della parola.
Ti parlo tacendo, come una nuvola o un albero.

Ciò che fortificava me, per te era mortale.
Hai scambiato il congedo di un’epoca per l’inizio di una nuova,
l’afflato dell’odio per bellezza lirica
la forza cieca per forma compiuta.

Ecco la valle dei bassi fiumi polacchi. E il ponte enorme
che avanza nella bianca nebbia. Ecco la città infranta
e il vento scaglia contro la tua tomba gli stridi dei gabbiani,
mentre parlo con te.

Cos’è la poesia che non salva
i popoli né le persone?
Una complicità di menzogne ufficiali
una cantilena di ubriachi, a cui fra un attimo verrà tagliata la gola,
una lettura per signorinette.

Che volevo una buona poesia, senza esserne capace,
che ho capito, tardi, il suo fine salvifico,
questo, e solo questo è la salvezza.

Spargevano sulle tombe miglio e semi di papavero
per nutrire i morti accorrenti in volo – gli uccelli.
Depongo qui questo libro per te, o trascorso,
perché d’ora innanzi tu smetta d’apparirci.

Con questa Prefazione (scritta nel 1945) il polacco Czesław Miłosz fa i conti con le sue responsabilità di uomo, e soprattutto, di poeta, davanti allo sfacelo portato dalla Storia nella sua nazione. Eppure, ci chiediamo, cosa può aver mai fatto di così orribile, o di quale imperdonabile negligenza può essersi macchiato per sentirsi costretto a deporre, come gesto di riparazione, un libro sulla tomba di un non meglio identificato trascorso?
Non abbiamo risposta, non nell’immediato. Il componimento inizia con l’invocazione di un Tu, che non ho potuto salvare (v.1), e così prosegue per le prime tre strofe, quasi volesse, tramite tentativi faticosi e ripetuti ("ti parlo tacendo" - v.5 - “mentre parlo con te” - v.13 -), mantenere vivo il contatto con un interlocutore irrimediabilmente lontano, sordo alle sue parole, senza tuttavia dirci da cosa avrebbe potuto salvarlo.
All’inizio della seconda strofa sembra accennare delle scuse ("Ciò che fortificava me, per te era mortale" - v. 6), quasi sentendosi responsabile dei successivi “malintesi” che evidentemente hanno portato l’altro a un destino infelice. Cominciamo a intravedere la “colpa” che Miłosz tace dal primo verso solo quando viene detto esplicitamente che la persona a cui si rivolge è in una tomba. E non solo: lo scenario dei bassi fiumi polacchi su cui si staglia la città infranta (distrutta, probabilmente, dalla guerra) non è da considerare soltanto come una cornice adatta alla scena, un abbellimento paesaggistico, o un desolato locus horridus; quell’Ecco con cui si apre la terza strofa sembra collegare le immagini di vaga distruzione che seguono con i “malintesi” appena citati - di cui il poeta si sente reo - in un rapporto di conseguenza. 
Sarebbe quindi Miłosz colpevole non solo della morte di un uomo, ma dello sfacelo di un’intera nazione? Affermarlo sarebbe esagerato, possiamo obiettare, e a ragione: se il principale capo d’accusa, come a questo punto sorge spontaneo credere, è quello di aver scritto versi “disimpegnati” in tempi di orrori indicibili, leggendo la sua produzione precedente al ‘45, ci accorgiamo che non gli è imputabile nulla di tutto ciò.
Eppure il componimento incalza, e lo fa con una domanda dal senso inequivocabile: "Cos’è la poesia che non salva i popoli né le persone?" (vv. 14-15). Subito la mente corre alla città infranta e alla tomba nominate appena prima; le parole di Miłosz non sono state utili alla collettività, ancor meno al singolo. Restiamo confusi: questa sconfitta non l’ha certo voluta lui, per quale colpa, dunque, si batte il petto?
Il poeta si confessa finalmente nella penultima strofa - la più breve, tre versi - e solo tramite essa possiamo cogliere il senso dell’intero componimento. Non si tratta di impegno o disimpegno: il suo errore sta nel non aver capito in tempo il fine salvifico della poesia come parola elementare, taciuta ("ti parlo tacendo, come una nuvola o un albero" - v. 5), linguaggio semplice ma sincero ("cerca di capire questo linguaggio semplice, mi vergognerei di un altro" - v. 3), qualcosa di radicalmente diverso dalla retorica che trasforma l’afflato dell’odio in bellezza lirica e la forza cieca in forma pura. Se così non fosse stato, se lo avesse compreso in tempo per dirlo al trascorso, lo avrebbe salvato; ma il poeta non si è opposto ai “malintesi”, anzi, probabilmente nel tentativo egoistico di fortificarsi, ha contribuito a crearne.
Ma a che serve ora parlare su una tomba? Perché porvi sopra un libro?
Perché lo spirito del trascorso smetta di tormentarlo.
Una volta compreso il suo vero scopo ("questo, e solo questo è la salvezza" - v. 21), attraverso la poesia si possono riparare tutti i mali, i torti fatti e subiti. Lasciando parole “nuove” su una fossa, Miłosz vuole scacciare lo spettro delle sue colpe, mondare la propria anima; spera che il libro, in qualche modo, sazi non solo lo spirito di un morto, ma di tutti i defunti che accorrono come uccelli attratti da miglio e semi di papavero. E non solo: mentre per tutta la poesia il dialogo col trascorso si è svolto a tu per tu, escludendo dalla scena ogni possibile terzo, l’ultimo verso estende il significato di quell’incontro (e del gesto con cui si chiude) da una dimensione ristretta e personale ad una decisamente collettiva ("perché d’ora innanzi tu smetta d’apparirci" - v. 25)
Il poeta redime così sé stesso a nome di tutti quelli come lui colpevoli, scrivendo finalmente qualcosa che salva i popoli e le persone.
                                                                                                                                   

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