Il Novecento è stato un secolo di grandi demistificazioni, in cui filosofi e letterati hanno tradotto le paure e le incertezze di un'epoca segnata dagli orrori dei totalitarismi e di due conflitti mondiali. Il crollo dei valori tradizionali e un forte cinismo hanno contrassegnato l’atmosfera spirituale del secolo che ci precede, la quale si è proiettata nella società contemporanea caratterizzata da una decadenza culturale e morale. Nella ‘era della tecnica’ scarso è il valore attribuito all’arte e specialmente alla poesia, che nei secoli passati ha invece svolto un ruolo di grande rilevanza, rappresentando una fonte di identificazione culturale per popoli e nazioni. Questo disinteresse per la letteratura deriva in gran parte dal fatto che gli scrittori, come i filosofi, nel Novecento hanno saputo ‘demolire’, piuttosto che ‘creare’, esprimendo nelle loro opere il disagio esistenziale del loro tempo senza lasciar trasparire quasi mai la possibilità di una rinascita, ma adagiandosi spesso in un insano torpore e in un desiderio di nullificazione. I versi conclusivi della celebre poesia montaliana Non chiederci la parola sono un chiaro esempio di questa posizione ‘negativa’ assunta dai poeti:
Codesto solo oggi possiamo dirti,
ciò che non siamo, ciò che non vogliamo.
In un’epoca buia, senza certezze e senza valori, in cui il nichilismo e il materialismo imperavano, anche i poeti «hanno appeso le loro cetre alle fronde dei salici» (per usare dei versi di Quasimodo), senza trovare la forza di dire parole di speranza che aprissero uno spiraglio di luce nell’oscurità dilagante, rifiutando quindi il loro compito di maestri e profeti dell’avvenire.
Se dunque qualche eccezione c’è stata, e in mezzo a tante voci di sfiducia e di nullificazione della realtà si è levata una voce diversa, di gioia e di auspicio di rinascita, questa tanto maggiormente è risuonata alle nostre orecchie come profetica. Una di queste voci è quella di J.R.R. Tolkien, professore di lingua e letteratura inglese presso l’università di Oxford e celebre autore de Il Signore degli Anelli, tra i libri più letti del Novecento.
Grande studioso di letteratura medievale inglese e appassionato di miti e fiabe, Tolkien in un’epoca disincantata e demitizzata ha saputo rivitalizzare il linguaggio del mito, creando un legendarium sullo stile della mitologia nordica quale Il Silmarillion, oltre che un romanzo eroico fantasy, Il Signore degli Anelli, che rappresenta l’ultimo tentativo di costruire in epoca moderna un’epica di alto spessore. Ma la sua non va letta esclusivamente come un’operazione da antichista e da nostalgico del passato: Il Signore degli Anelli attraverso il suo potente simbolismo parla all’uomo di cose permanenti e non transeunti, trattando temi universali quali l'amore, l'odio, il desiderio del potere, la morte e il sacrificio, sublimati dal linguaggio del mito e facendosi veicolo di valori immutabili da riscoprire in un’epoca in cui tutto è stato messo in discussione.
Si potrebbe muovere a Tolkien però, e lo si è fatto, l’accusa di evasione dalla realtà e di disimpegno. Niente di più falso: l’opera di Tolkien è strettamente legata al suo tempo e ai suoi mali, ed è proprio per dare un risposta ad essi e una nuova speranza all’uomo che nasce la sua epica. Lungi dall’utopia, l’epopea tolkieniana esprime un messaggio fortemente realistico, che propugna l’impegno degli uomini a combattere il male, consci del fatto però che «non tocca a noi dominare tutte le maree del mondo»[1] e che esso non potrà mai essere debellato completamente, in quanto si annida inevitabilmente in ognuno di noi. E Il Signore degli Anelli oltre che un monito contro gli abusi del potere è anche un invito alla collaborazione tra i popoli per abbattere ogni tirannia in favore della libertà.
Il romanzo di Tolkien dunque non è un mero racconto per bambini: esso ci immerge in un’atmosfera cupa, dominata dall’angoscia e dalla paura, dove il viaggio che i protagonisti compiono verso la salvezza del loro mondo è sempre accompagnato dall’ombra del fallimento. Ma proprio quando anche l’ultima speranza sembra essere crollata ecco che un capovolgimento squarcia la tela degli eventi: Tolkien ha coniato il termine «eucatastrofe» per descrivere questa particolare situazione che, come spiega nel suo saggio Sulle Fiabe,[2] consiste nell’interruzione del corso negativo degli eventi, in un ribaltamento dell’inesorabile realtà, che si accompagna a una stupefacente visione della gioia che travalica i limiti del racconto, lacera la ragnatela della vicenda, permette che un bagliore la trapassi. «Gioia acuta come un dolore» dice Tolkien, presente nonostante le sconfitte e i fallimenti, perché smentisce l’universale sconfitta finale. Il racconto eucatastrofico è per lo scrittore oxoniense la vera forma di fiaba e ne costituisce la suprema funzione.
A Tolkien va dunque riconosciuto il merito di averci saputo proporre in un’epoca di dirompente cinismo un mito positivo, offrendoci attraverso la sua opera il dono della gioia e della consolazione, finalità che a mio parere la grande poesia dovrebbe far sue per riaffermare il proprio valore e tornare a svolgere quel ruolo essenziale che le appartiene nella società umana: per farlo c’è bisogno di parole di speranza e di profezia di cambiamento, perché come sostiene Heidegger ne La poesia di Hölderlin, sono i poeti che, anticipando i tempi con occhio preveggente, fondano la civiltà e la cultura di un’epoca. È auspicabile quindi, perché un rinnovamento si realizzi, che i Poeti di oggi sappiano ritrovare e proporci in quest’epoca di disorientamento e di aridità dei valori positivi, superando il nichilismo per riscoprire il Bello e il Vero, così come Tolkien ha fatto seguendo il nobile percorso del mito e della fantasia.
Alëša
I nostri studia humanitatis tanto bistrattati, criticati e sottovalutati, costituiranno la libertà e la salvezza di questa società smarrita nel buio della superficialità, dell'individualismo e della tecnica!
RispondiElimina(oltre al mio partito della pippa a cui tu aderirai,ovviamente! ;))