domenica 12 dicembre 2010

Scaffolding, Seamus Heaney

                                                     So if, my dear, there sometimes seem to be
                                                     Old bridges breaking between you and me

                                                     Never fear. We may let the scaffolds fall
                                                     Confident that we have built our wall.[1]

Il poeta paragona la propria relazione con la donna amata ad un muro, il quale, una volta spoglio dell’impalcatura, rimane saldo senza che ci sia possibilità di crollo. La conduzione poetica della metafora è perfetta, giacché essa è svelata soltanto negli ultimi versi con un capovolgimento di fronte improvviso, che può solo ammaliare il lettore. Il significato della lirica è denso; lo scaffolds, che è il perno attorno a cui ruota il detto, è ambivalente: positivamente può valere per ciò-che-regge il muro, la sua forza, negativamente per ciò-che-è-di-facciata al muro, la sua illusione. Il tenere in piedi che regge oltre «i ponti franti» (i rancori?) e il contemporaneo far cadere tutte le illusioni producono una vertigine di significato che è la bellezza della lirica in sé. Ciò che invece rimane difficile da lasciar trasparire, e che perciò indugia ad un livello inconscio, è la contingenza poetica di tre parole, le prime due in relazione, l’altra disgiunta: dear e fear, confident. Basta un semplice colpo d’occhio per rilevare la coincidente posizione metrica di dear-fear all’interno della lirica (entrambe le parole sono cristallizzate da una interpunzione più o meno forte, che spezza il verso in due segmenti). Essa non è imposta da alcunché di tradizionale, ma è una conquista del poeta nel suo libero poetare, conquista che (è necessario ripetere) investe in modo proficuo tutto il Novecento poetico. Ma le due parole non sono soltanto messe in fila esattamente: vi è anche un’innegabile rapporto fonetico, interrotto sul principio dai fonemi d e f, che svolgono regolarmente la loro funzione fonematica, in quanto solo per essi, e dunque solo grazie alla loro stessa fonematicità, vi è un distinguo tra i due termini, altrimenti in-discernibili. A ben vedere, dunque, la metricità collimante è un metter in relazione due parole che, per contingenza poetica, vigono in uno status linguistico che tende all’uguaglianza. L’osservazione della distintività dei soli fonemi d e f non è un gioco ozioso da eruditi, bensì ciò per cui i termini in questione sono diversi nella loro sostanziale identità, la quale, per forza di cose, deve senz’altro inerire alla sfera semantica. La lingua inglese, per virtù lirica, ha stabilito un solido rapporto tra l’esser-caro e l’aver-paura, che il poeta, mediante un ragguaglio metrico libero, ha ri-messo nel poëticus, cioè l’ha riportato alla luce dell’osservanza poetica. Heaney sembra voler evidenziare latentemente che troppo spesso si ha paura di ciò che è caro al sé, ciò che si ama, quando invece non si dovrebbe. Il never (anche il medesimo così diverso da quello di Poe) è lì a testimoniare. ‘Ci saranno momenti, mia cara, in cui vecchi ponti franti si metteranno fra di noi, ma nessuna paura’, ossia non vi è un motivo valido per cui temere, ‘perché dietro l’impalcatura c’è il muro costruito in solida pietra’. L’esser-caro è l’aver-paura di perdere ciò nei confronti di cui si prova caritas, amore. Ma tale paura è la prova stessa della caritas dell’esser-caro, è ciò che testimonia l’amore. Non si può aver paura di qualcosa che non si ama, e che dunqe non si vuole. Soltanto chi ha paura di perdere dimostra di avere, e dunque di amare. Perciò il Bardo irlandese ricorda alla donna amata, e al lettore, di non aver paura dell’esser-caro, perché proprio in virtù della coscienza di tale paura, essa è trascesa, e la caritas torna a travalicare il tutto-storico, di cui lo sgomento, in quanto evento, è affetto. Ciò che è stato edificato, il solido muro, sedimentato negli anni, e nella rammemorazione poetica, è più forte di qualunque frattura, di ogni ponte che si frange, – e che divide. L’esser-caro è la paura che diventa coscientemente ingiustificata; è una ricchezza. Bisogna aver paura per non aver mai più paura. E questo grande insegnamento, che soltanto un poeta può fornire alla società obliante della tecnica, è supportato da una bellezza linguistica folgorante. Di tutto si tratta, meno che di musicalità: la lingua inglese adagia la sua enorme grandezza poetica riesumata da una semplice, e spesso sottovalutata, lirica del poeta che è una nullità effettiva (cioè nell’impatto con la realitas, e non in sé) al confronto dei mostri sacri a cui inneggiano i giovani. Egli ha ricondotto la lingua al suo governo per sua leggiadria, la quale non è questione di sonorità o di ritmica, ma di alchemici legami ultra-sensoriali, e perciò semantici. Ma c’è ancora qualcosa da metter in rilievo: la parola confident. Essa sta per ‘fiducioso, quasi certo’; confident è colui che crede di aver in serbo una speranza che sarà certezza, per cui si comprende come fiducioso. Egli non solo spera in sospensione, ma spera il giusto, ciò che quasi sicuramente sarà. Difatti l’espressione self-confident letteralmente significa ‘sicuro di sé, e dunque baldanzoso’. Ciò garantisce che non trattasi semplicemente della fiducia di sè, la quale è un auto-convincimento delle proprie forze, che segue un precedente abbattersi; bensì della sicurezza di sé come moto (talvolta negativo) di chi lo è già senz’altro. La spes cantata da Heaney ha i contorni della garanzia: essa sarà senza ombra di dubbio, certamente. Si lascerà cadere l’impalcatura, dacché si è fiduciosi nella adempimento della solidità del muro costruito. Il Bardo irlandese cancella con una sola parola le tenebre della spes in-certa, perché irrealizzabile. Egli affonda la parte oscura, il rovescio della medaglia che ogni spes calata nella realtà, per ciò che si è detto, porta con sé. La traduzione più appropriata del termine confident è proprio ‘certi’: il poeta e la donna amata non possono aver paura di mandar giù l’impalcatura, perché certi del muro che hanno costruito. Ecco dunque che quella parola all’inizio dell’ultimo verso, così pregna di storia poetica, torna nella sua integra bellezza «in quel momento affrancato, quando la lirica scopre la sua conclusione vitale e il piacere senza tempo della forma si compie ed esaurisce»[2]. La forma, che svincolata dalle pendenze della musicalità, ri-acquista il suo valore, la voce a dovuta: il governo della lingua. Heaney aggiunge anche che «la poesia, come l’amore, è potenzialmente salvifica e possibilmente illusoria»[3]. Ciò, lungi da smorzare le nostre conclusioni, attesta quanto genuina e priva di sciocche superstizioni sia la spes del poeta: soltanto chi è disilluso totalmente può fornire una speranza priva di illusioni, e per tale ragione applicabile alla realtà concreta. Dicendo che la poesia può illudere, Heaney la presenta nella sua purezza di spes che non illuderà, perché manterrà sempre il suo, il ciò per cui essa è. Si illude la scienza di poter governare la poesia; si illude la tecnica di poter governare l’uomo; si illude la poesia novecentesca di poter far a meno della spes. Ma il poeta e la donna amata non s’inganneranno, giacché essi sono sicuri, spogli della retorica e del conformismo, – liberi per mezzo della poesia.

Camus

[1] «E se anche, mia cara, qualche volta parrà/ che ci siano vecchi ponti franti tra te e me,// non aver paura. Noi lasceremo che cada l’impalcatura,/ certi di aver costruito il nostro muro».
[2] S. Heaney, Il governo della lingua.
[3] ibid.

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