giovedì 16 dicembre 2010

La via del rifugio, di Guido Gozzano


La sfiducia borghese del post – romanticismo.

"Un desiderio? Sto supino nel trifoglio e vedo un quadrifoglio che non raccoglierò” Così si chiude “la via del rifugio” che apre la prima raccolta omonima delle liriche di Guido Gozzano. Si chiude con una domanda, una domanda fatta a se stesso; il poeta si chiede se abbia ancora un desiderio, una speranza, ma la risposta non lascia possibilità di fraintendimenti: il suo cuore è vuoto, non ha più alcun desiderio, alcuna speranza, e il quadrifoglio sul prato, quel raro arbusto che simboleggia la fortuna, la lotta contro la banalità e l’aridità dei sentimenti proprio perché dovrebbe procurare gioia a chi lo incontra, non viene raccolto e viene invece lasciato lì, in mezzo al prato colmo di trifogli, immerso nella banalità, “tra il tutto e il niente”.
L’uomo, di certo, non si trova in una posizione migliore rispetto a questo arbusto dimenticato: “ma dunque esisto! o strano! Vive tra il tutto e il niente questa cosa vivente detta guidogozzano”. L’umanità, questa “cosa” che ironicamente il poeta raccoglie all’interno della sua persona, e se ne offre come rappresentante, ha perduto la sua umanità, la sua voglia di vivere e di amare, e se ne sta stesa sul prato quasi sonnecchiando, persa ad ascoltare distrattamente ciò che la circonda, ma senza farsi catturare dalla vita e rimanendosene immobile, stanca e rassegnata. Questa è l’immagine che trapela dalla prima lirica della via del rifugio, ed è una sorta di presentazione dell’umanità, e con essa, del poeta stesso.
Quando si parla di Gozzano e di crepuscolarismo è impossibile non pensare al declino di una società che non è più la vitale e focosa società romantica; essa si è fatta pigra dopo il raggiungimento del benessere, ha perduto la totale fede nel positivismo della scienza, e proprio a causa dei lasciti dello stesso positivismo si è allontanata dalla fede. Una società dunque che non ha più nulla a cui aggrapparsi, se non le abitudini e le serenità di una vita spenta e borghese, fatta di giorni tutti uguali, di parole fredde e ormai banali, di parole che hanno perduto il loro calore. Per queste ragioni non è difficile spiegare la sfiducia di questi poeti del crepuscolo verso la retorica nazionalista di Carducci, che in un periodo così privo di lotta appare lontana e falsa. Ma anche dalle pompose parole di D’Annunzio, visto come un puro esteta dimentico della realtà dell’uomo e chiuso nell’esaltazione di un arte ritenuta ormai passata, vecchia, “da museo”. La poesia è ritenuta ormai un’arte senza scopo, non pragmatica, perciò non rimane ai poeti che fuggire, fuggire verso il passato ( l’amica di nonna Speranza, i sonetti del ritorno, l’analfabeta, ecc.),  o fuggire dentro se stessi, nella propria anima, lontano da quella società borghese basata tutta sull’utile e sul guadagno, incapace di apprezzare la bellezza. Ma la fuga di Gozzano, non è l’isolamento dell’esteta che, disprezzando la società borghese, si chiude entro la sua torre d’avorio circondato da oggetti belli e preziosi, da quella bellezza che il mondo non è più in grado di apprezzare; il suo è un isolamento vissuto dall’interno, o meglio, egli si sente uno di quei borghesi di cui tanto disprezza la vita; la sua fuga non è una fuga dal resto degli uomini, ma è una fuga dal suo tempo, dal suo mondo, dalla sua vita.
Non a caso la prima raccolta di poesie di Guido Gozzano si intitola “la via del rifugio”, e stando alla prima lirica di questa raccolta dalla quale prende anche il titolo, sembra che una delle fughe da questa società sia il sogno, la libera fuga della mente, lontano dallo scorrere apatico e sempre uguale della vita, ma presto il sogno si conclude, esso è etereo e non ha sostanza, ed è troppo legato alla vita; allora perché non cercare di amare, di vivere sensazioni forti, emozioni che allontanino il cupo grigiore della vita borghese: potrebbero essere queste una alternativa, una via di fuga. Ma l’uomo non è più in grado di amare, Gozzano lo sente bene poiché lui di quest’umanità fa parte, sente il suo cuore arido e spento, tanto che riesce a cercare l’amore soltanto nel passato, in un vicino passato, quello romantico. Un esempio di questa ricerca si trova  nell’”amica di nonna speranza”: il poeta cerca in questa poesia di immaginare Carlotta, appunto l’amica di Speranza, quando, giovane, assieme a Speranza, oziavano nelle giornate di collegio, sognando i loro amori con i versi del Prati; ma presto la realtà presente spegne quella visione, e ricompaiono gli oggetti di un grigio appartamento borghese, tutti avvolti da una patina di falsità: “Loreto impagliato e il busto d’Alfieri”, “i fiori in cornice”, “le scatole senza confetti, i frutti di marmo protetti dalle campane di vetro”, insomma: “ le buone cose di pessimo gusto”. Il poeta allora si rende conto di come quei tempi siano finiti, racchiusi in una fotografia, lasciati nel “milleottocentocinquanta”, per cui anche l’amore, quello che si legge nel “libro del Foscolo”, tanto sognato da Carlotta e Speranza, non è più un alternativa valida a questa noiosa e spenta vita, o meglio, non è più concepibile nello stanco uomo borghese. Cosa resta allora? Cosa rimane di buono per l’uomo in questa vita? Cosa lo spinge a vivere, ( come la farfalla della “via del rifugio”) a non lasciarsi morire trafitto dall’ago del destino? Solo la morte. Potrebbe sembrare un paradosso, ma è proprio questo, il pensiero della morte, l’unica verità, l’unica certezza, rimasta all’uomo. “verrà da sé la cosa vera chiamata morte”. E ne “il responso” addirittura la morte viene definita da Gozzano “la seconda cosa bella – il non esser più –“ , quando la prima è l’amore, il quale però non giunge mai “ aspetta il cuore intatto l’amore che non giunge.” Addirittura nel sonetto “la speranza” il poeta descrive un rovere che nonostante sia stato abbattuto, continua a donare germogli dai suoi rami, come fosse un moribondo che cerca disperatamente di attaccarsi alla vita; non vuole morire, e il poeta sente pietà per lui. Ma questo amore per la morte, per la distruzione, si amplifica fino a giungere al nichilismo della “nemesi”. In questo componimento il poeta sente addirittura pena per ogni cosa viva, corrotta irrimediabilmente dallo scorrere del tempo che tutto consuma, tutto muta. “cangiare i monti in piani cangiare i piani in monti, deviare dalle fonti antiche i fiumi immani”. Il poeta si rivolge ironicamente al dio artefice di tutto questo, lo schernisce dicendo che non ci vuole poi tanta potenza per fare tutto questo pasticcio,  creare cose, farle morire, e sulle cellule putrefatte di queste crearne altre, tanto che paragona il lavoro di dio al lavoro di una cuoca. “ma, scusa, ci vuol poca intelligenza! Basta – di’ non ti pare? - Il genio d’una cuoca.” Rivolgendosi sempre a dio afferma che il saggio, colui che ha capito la vacuità delle cose, si abbandona ai piccoli piaceri effimeri, al buon cibo, alle favole, alla poesia che ha su di lui l’effetto di “un getto di morfina”, e al piacere che danno le donne, evitando però di mettere al mondo altri poveri “cosi con due gambe”, altre prede da offrire alla degradazione, e pensa che se tutti fossero d’accordo a non mettere più al mondo dei figli, di sicuro, se ci fosse un dio, ne sarebbe contrariato, “certo, se un dio ci domini – n’avrebbe un po’ dispetto”. L‘uso del congiuntivo è significativo per dimostrare la sfiducia di Gozzano nell’esistenza di un dio, il suo scetticismo nei confronti della religione, espresso, questo, chiaramente nei versi che seguono “gli uomini l’han detto”; inoltre il suo ateismo è dimostrato anche da altri componimenti nei quali parla di dio come di una “favola troppo umana”.  
Ma la sfiducia di Gozzano non è rivolta solo verso l’esistenza di dio, essa si insinua anche nella constatazione dell’esistenza propria, di quell’ essere strano “con due gambe detto guidogozzano.” Il poeta sente tra le dita la forma del cranio, ma allo stesso tempo si sente estraniato da tutti i casi della vita, si sente fuori dal suo scorrere, quasi perduto, allora si abbandona nella contemplazione della realtà che lo circonda, e in questa immensità che si manifesta ai suoi occhi comincia veramente a dubitare della sua esistenza “comincio a dubitare se sono o se non sono”.
Egli vede la vita scorrere, vede mutare le cose, camminare le persone, ma non sa se tutto ciò è reale, e soprattutto se lui ne è partecipe. Il poeta è dunque una sorta di osservatore, guarda la vita scorrere e se ne tiene a distanza,  non è chiaro se questo esilio sia volontario o forzato, ma di certo è una posizione privilegiata, che solo chi è “più scaltro degli scaltri” può occupare. Nella sua osservazione esterna il poeta prova pena per tutti gli uomini, siano questi “contenti e non contenti”, “in carnevali e in lutti”, perché sente che ad ogni cosa, ad ogni essere vivente e non vivente segue un dopo in cui non sarà più, allora si chiede a quale scopo si esista se poi si è costretti a sparire, e non solo l’uomo, ma anche “la pietra l’erba, il Passero” se potessero parlare sarebbero per l’annullamento del cosmo, per la cessazione del tempo.
Le ultime quartine, in questo senso, sono il momento in cui ad una riflessione si sostituisce l’azione, una soluzione a questo inutile e infinito cammino delle cose verso l’annullamento, e questa soluzione è l’autodistruzione, l’annullamento di ogni forma di vita, della terra, e con esse del tempo e dei sogni: troppo irrimediabilmente legati alla vita. In fin dei conti, “che bisogno c’è mai che il mondo esista?”.

                                                                                                                                                                                                 M.G.


nota. Tutte le citazioni sono tratte da La via del rifugio, Guido Gozzano, Streglio, Torino, 1907.

4 commenti:

  1. ma vorrei sapere se potresti mettere il commento della poesia....

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  2. bravo\a anch'io lo vorrei sapere se potresti mettere il commento della poesia.

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  3. Metti questo cazzo di commeeentooo -.-

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  4. metti il commentoo!!!!che serve ad un po' di persone heheh

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